Gli anni Settanta sono un periodo tumultuoso per il nostro Paese: le grandi proteste del Sessantotto si alternano ai tragici eventi degli Anni di piombo, creando in Italia una situazione di costante tensione tra il bisogno di voltare pagina e la paura di quelle stesse novità. Il femminismo, in questo contesto, è il fattore dietro molti dei cambiamenti più significativi della legislazione italiana, come la legge sul divorzio del 1970 e quella sull’aborto del 1978, o le riforme nel diritto di famiglia del 1975. In genere, quando pensiamo alle proteste femministe del periodo, quello che viene in mente sono foto in bianco e nero provenienti dalle grandi città, come Milano, Roma e Napoli. Il femminismo italiano, tuttavia, lavorò sul territorio in modo capillare grazie ai collettivi e ai gruppi di autocoscienza, riuscendo così a portare le proprie istanze anche nelle province, dove l’assetto socioculturale era ― e lo è tutt’oggi ― più conservatore e restìo al cambiamento. Un brillante esempio di questo è accaduto a Sora (Frosinone), dove il collettivo locale – di cui abbiamo introdotto la storia qui – è riuscito a dare una voce a donne fino a quel momento costrette ai margini della vita pubblica grazie a spazi di autocoscienza dove potevano liberamente parlare delle loro esperienze.
«Abbiamo preso coscienza di tutto, di noi stesse, in un paesino […] si sentivano ancora gli echi del fascismo, del patriarcato che si manifestava anche nelle scuole. Mi ricordo le scuole magistrali che ci portavano il libro di economia domestica e noi lo analizzammo completamente, il ruolo della donna era quello di madre e moglie e in cui lo stesso uso delle parole implicava una sottomissione della donna, c’era persino un capitolo che diceva: come la brava moglie avrebbe dovuto rispondere al marito e come avrebbe dovuto rispondere a lui se era nervoso» racconta Mirella F., una delle attiviste del Collettivo femminista “Rosa Luxemburg” di Sora, un gruppo di ragazze che promosse i valori femministi in città.
Questo lavoro era già stato compiuto con degli incontri che avvenivano prima presso la sede della Cgil locale, e successivamente presso la Casa del Popolo. Annamaria B. riferisce: «Come primo passo c’è stata la sede della Cgil messa a disposizione per riunirci come collettivo studentesco e partecipavano anche le insegnanti. Poi si passò alla Casa del Popolo che era in via Napoli […] Era un luogo che frequentavamo anche al di fuori del collettivo studentesco. Lì ci siamo conosciute, facendo queste riunioni. […] Perché poi alle scuole superiori di Sora venivano da tutti i paesi qui vicino e quindi c’erano molti studenti e studentesse che venivano da fuori e ci siamo conosciute in tantissime e abbiamo cominciato a pensare».
Il gruppo si allargò grazie al lavoro instancabile di alcune insegnanti, formatesi nei cruciali anni del Sessantotto, che portarono le nuove idee e cercarono di trasmetterle ai loro alunni e, soprattutto, alle alunne. Tra loro spicca la professoressa Maria S.: «Le ragazze a scuola portavano il grembiule, io me ne sono andata dal classico di Arpino nel 1976-’77 e vedere quelle ragazze delle superiori portare il grembiule per me era una tragedia! Io lottavo con il preside per farle venire in tuta. I ragazzi invece non dovevano portarlo. Io alle magistrali sono andata con il grembiule fino al quinto anno, era un’imposizione, finché poi non ci si è ribellate. È stata un’evoluzione lenta e io mi sono sempre ribellata, per me e le mie alunne. Allora si faceva che le insegnanti donne insegnavano educazione fisica solo alle ragazze. La palestra la potevano usare solo i maschi. Dopo una serie di vittorie delle ragazze per l’atletica hanno iniziato a cambiare le cose per i risultati. Ci sono voluti però diversi anni. È stata una conquista del nostro modo di essere».
Angela M. ha conosciuto queste riunioni proprio grazie alla professoressa S.: «Io sono sempre stata fuori dagli schemi. Facevo il liceo classico ad Arpino, un incubo. Da sola mi opponevo in tutto il liceo. Una professoressa, Maria S., un giorno si avvicinò e mi disse di andare alla Camera del Lavoro, in via Lungo Liri, che lì si riunivano. Lì c’era il collettivo, Rosa Luxemburg. […] Io sono andata lì ed erano tutte carine. Le dissi che mi mandava la professoressa S. Mi ricordo di una ragazza giovane come me e gli occhi chiari chiari, Marcella P. Fu la prima che incontrai. Mi ricordo di Lina e poi di molte insegnanti. Loro c’erano da prima di noi come gruppo. Si faceva autocoscienza a casa di una delle insegnanti». Marcella P. aggiunge: «Ci fu una generazione di professori, usciti dall’università del ’68 che ci sensibilizzarono moltissimo. Per questo facevamo politica insieme. Mi ricordo che a 18-19 anni andavo alle riunioni alla Cigl scuola, tutti i miei professori ne facevano parte e c’era sempre una rappresentanza degli studenti. Un lavoro di sensibilizzazione che partiva dalle scuole, ma poi c’è stata la nostra presa di coscienza. In generale c’era tanta sensibilizzazione dai libri al cinema, c’era un clima di cambiamento. Di conseguenza la sensibilizzazione ricevuta nel contesto scolastico è stata solo una delle tante gocce che hanno formato l’oceano del nostro attivismo. È stato un bel periodo, ci siamo sentite parte della storia, al centro della scena, ci siamo sentite di farla la storia anziché subirla».
È da qui che nasce l’idea di fondare un collettivo locale e intitolarlo alla filosofa Rosa Luxemburg, come spiega Mirella F.: «Il collettivo è nato da cinque persone. Io ricordo me, Marcella, Stefania, Patrizia […] Sì, eravamo cinque o sei. Ci siamo riunite spontaneamente, l’idea era venuta da un trafiletto attaccato nelle varie scuole, proprio un pezzo di carta che diceva: vogliamo parlare di noi, noi ragazze, delle nostre problematiche. E penso sia stata Marcella a mettere questa cosa e ha fissato anche il primo appuntamento e ci siamo trovate in cinque o sei in una stanza a discutere e da lì è nato il collettivo. Poi ognuna di noi si è prodigata a raccogliere firme […]. Abbiamo buttato giù questo progetto insieme ma parliamo di una cosa molto semplice, nata in un pomeriggio, scritta a mano, non avevamo nessun mezzo, nemmeno la macchina da scrivere, quindi molto spesso c’erano firme autentiche, io ero quella che doveva scrivere. Dopo un po’ abbiamo iniziato a fissare alcuni punti, cosa volevamo? […] Visto che era passata la legge sull’aborto, volevamo i consultori familiari a Sora, volevamo fare informazione contraccettiva presso le donne, volevamo fare azione e informazione all’interno delle scuole… era appena nata in quegli anni, nel ’76, la rappresentanza degli studenti. Quindi, facendo noi parte ognuna di una scuola diversa: Marcella liceo classico, io liceo scientifico, qualcun’altra ragioneria, volevamo rappresentare le donne in ogni scuola, in assemblea.

Questo collettivo stilò un giornalino chiamato Rosa». Marcella P. prosegue: «La doppia militanza (femminista e politica) si tradusse nella nascita di un gruppo che abbiamo chiamato “Rosa Luxemburg”, in cui eravamo tutte studentesse. Volevamo dare il senso a una militanza femminista connotata dalla radice di sinistra, comunista, richiamato dal nome». Il giornale Rosa non ricevette molta attenzione dalla stampa locale e fu un progetto in larga parte autofinanziato. Spiega ancora Marcella P.: «All’epoca c’era solo un giornalino parrocchiale, chiamato prima Vita parrocchiale poi Vita Sorana. Ma nasceva in parrocchia e veniva gestito da un sacerdote. Aveva molti finanziamenti perché era acquistato dagli emigrati, dato che c’erano notizie su battesimi, matrimoni, e non avrebbe mai dato spazio a un gruppo come il nostro. […] Noi fino a quel momento ci eravamo autofinanziate e avevamo sede alla Casa del Popolo in via Napoli (dall’altra parte della strada dell’Istituto d’arte del vetro) che era a disposizione gratuitamente di tutte le associazioni. L’unica volta che fummo finanziate fu quando una legge stabilì che i comuni erogavano fondi per la cultura; dato che avevamo il giornalino, prendemmo il finanziamento». Rosa trattava di questioni nazionali e internazionali adottando un’impronta femminista, focalizzandosi soprattutto sulla questione femminile. «Non avevamo bisogno di istituzionalizzare. Ci sforzammo di farlo uscire periodicamente, almeno una volta al mese. Ci mettevamo 500 lire a testa per comprare la risma di carta e l’inchiostro e lo stampavamo con il ciclostile della Casa del Popolo. Noi eravamo gli “uragani rosa”».
Nel frattempo, gli incontri di autocoscienza riscuotono un crescente successo. Maria S. racconta: «Eravamo tante, almeno una decina di giovani donne, erano tutte sposate con i bambini, quella non sposata ero io. Andavamo da Titti, ci stava Giulia C., ci stava Anna P. La casa di Titti era l’unica disponibile, venivano tutte queste mamme e i bambini stavano in un’altra stanza, a turni giocavamo con loro e facevamo queste riunioni di autocoscienza, ci raccontavamo le nostre vite matrimoniali e familiari. Poi abbiamo fatto anche dei lavori a favore delle donne, per l’aborto, e abbiamo fatto delle manifestazioni. Era un gruppo spontaneo che poi si incrementava con le altre che provenivano dalle scuole superiori».
«Ricordo bene il primo incontro di autocoscienza, ― racconta Mirella F. ― in cui tutte molto timidamente siamo salite per le scale. La riunione era al primo piano della Casa del Popolo. Io sono stata la seconda ad arrivare dopo Marcella. Ci siamo guardate, non avevamo un nome a quel tempo e io chiesi se fosse lì la riunione tra noi ragazze e ci siamo presentate, eravamo due perfette estranee. Ci siamo trovate in cinque-sei e abbiamo cominciato a parlare a ruota libera, questa era l’autocoscienza. Non abbiamo detto a noi stesse “stiamo facendo autocoscienza”. Per noi fu una cosa spontanea, ci mettemmo in cerchio per guardarci in faccia, qualcuna in piedi qualcuna seduta per terra per raccontare chi eravamo e perché eravamo lì. Io mi ricordo che dissi: “sono qui perché ho un padre fascista, non so se riuscirò a frequentare l’università” e ognuna di noi parlava di sé. È chiaro che per associazione di idee e per esperienza diversa, ognuna di noi ha tirato fuori le preoccupazioni legate all’essere ragazza a Sora, quali erano i limiti delle loro famiglie, quali erano i livelli di istruzioni della famiglia. I nostri genitori erano tra i più istruiti, perché avevano la quinta elementare». Annamaria B. prosegue: «La riunione di autocoscienza era un momento di liberazione da parte nostra perché lì ognuna di noi sapeva di poter dire ogni cosa che aveva dentro e non avrebbe potuto esternare ad altre persone le stesse problematiche, per cui ci si sentiva libere di parlare. Portavamo dei problemi all’attenzione e si trovava insieme una soluzione per poterne uscire».
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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.
