Pregiudizi di genere nell’avvocatura e nel lavoro 

Riportiamo qui gli interventi di Francesca della Ratta e di Sabrina Bernardi nella prima giornata del XII convegno di Toponomastica femminile, che si è tenuto a Caserta dal 20 al 22 ottobre 2023 (qui la presentazione generale). 

Francesca della Ratta è presidente dell’associazione DifferenteMente Aps che si occupa della tutela dei diritti umani e dell’assistenza a persone con fragilità, con un intervento dal titolo Pregiudizi di genere nell’avvocatura, incentrato sui problemi affrontati dalle avvocate nel perseguire la loro carriera a causa delle barriere culturali ancora persistenti. 

«Storicamente le avvocate hanno dimostrato non solo di essere all’altezza della professione forense, che la società patriarcale ha loro vietato sino al 1919, ma di saper anche cogliere gli interessi delle donne tutte portandoli nelle aule dei Tribunali affinché fossero riconosciuti dall’ordinamento penale e civile come diritti. È ormai leggendaria la vicenda di Lidia Pöet, prima donna iscritta nell’Albo degli avvocati di Torino, e fanno parte della storia le battaglie sul campo delle penaliste per il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione sessuale delle donne e l’impegno delle civiliste per il riconoscimento del rispetto delle prerogative della genitorialità femminile e della persona donna nel diritto di famiglia e nell’ambito lavorativo-professionale. 

Francesca della Ratta

Ma qual è oggi la condizione delle avvocate? Partiamo da alcuni dati. Nel 1985 solo il 9,2% degli avvocati era donna, mentre ad oggi il 47,7% di chi svolge la professione forense è donna a fronte del 52,3% di uomini. In termini assoluti, parliamo di 126.580 uomini e 115.250 donne, anche se le tendenze illustrano che a breve ci sarà il sorpasso. Si potrebbe dire, quindi, che la parità tra la condizione maschile e femminile nella professione forense sia quasi raggiunta. Ma è davvero così?  
Se i numeri assoluti sono incoraggianti non è però il caso di esultare perché, se è vero che un miglioramento della condizione femminile c’è stato, è altrettanto vero che questo riguarda l’uguaglianza formale e non sostanziale. I dati che emergono dal Rapporto Censis sull’Avvocatura 2022 testimoniano una profonda differenza di reddito tra la componente maschile e quella femminile. Ancora oggi, infatti, la differenza di reddito medio tra un uomo e una donna è tale che occorre sommare il reddito di due donne per arrivare al reddito percepito da un uomo. In altre parole, un avvocato maschio guadagna in media 51.000 euro contro i 23.576 di una collega, ovvero più del doppio. Il dato è sicuramente condizionato dal fatto che le donne sono in prevalenza giovani, ma questo non basta a spiegare il fenomeno. È vero che gli avvocati con un’età compresa fra i 35 e i 39 anni raggiungono un reddito medio pari a circa 23mila euro, ma l’importo relativo agli uomini si attesta intorno ai 30mila euro, mentre quello delle donne supera di poco i 17mila euro.  Un divario che aumenta con l’età: va peggio tra i 55-59 anni dove una donna guadagna in media poco meno di 32mila euro contro i 70mila del collega. 

L’avvocatura è, dunque, lo specchio della società attuale nella quale le donne hanno superato numericamente gli uomini, ma guadagnano meno e contano ancora poco nelle istituzioni. Il mancato raggiungimento dell’uguaglianza tra uomo e donna nella professione forense è dovuto principalmente al lavoro di cura che la società più in generale associa e richiede alla figura femminile. La crisi generata dalla pandemia ha avuto un impatto differente in base al genere, esponendo maggiormente le donne che per il 65,7% definiscono questa fase molto o abbastanza critica, a fronte del 56,9% degli uomini. Non a caso, il 37,3% delle donne sta pensando di lasciare la professione, contro il 28,3% degli uomini. Un problema che ovviamente non riguarda soltanto la professione forense, ma che colpisce le professioniste in quanto donne. Spetta alle donne gran parte del lavoro di cura e quindi è evidente come si riversi soprattutto su di loro la difficoltà di conciliare la propria professione con gli impegni familiari e non solo. 
Basti menzionare uno degli ultimi casi che ha suscitato grande indignazione in tutta l’avvocatura e comportato persino l’intervento del Consiglio nazionale forense a difesa di un’avvocata che aveva rappresentato un legittimo impedimento a presenziare a un’udienza coincidente con la giornata nella quale il figlio avrebbe subito un intervento in day-hospital, istanza respinta dai magistrati sull’assunto che il bambino avrebbe potuto essere accompagnato in ospedale dal padre. L’udienza si teneva, quindi, in assenza dell’avvocata. Oltre alla scarsa conciliabilità dei tempi della professione con gli impegni familiari e di cura, le motivazioni del divario di reddito e della segregazione orizzontale vanno ricercate nel pregiudizio/discriminazione da parte della clientela, nello svolgimento di attività professionali meno remunerative, nella tendenza delle donne a farsi pagare meno degli uomini. 

Di certo le avvocate più raramente dei colleghi si dedicano al diritto societario e finanziario, settori notoriamente tra i più redditizi; e la loro clientela è prevalentemente locale e composta da persone fisiche piuttosto che da imprese. Ancora, le avvocate sono più raramente titolari di studio o Partner nei grandi studi associati. Inoltre, sono più propense all’ascolto, ma ciò può rivelarsi controproducente, perché anche il tempo è denaro, e dunque sarebbe opportuno farsi pagare. 
La pandemia ha provocato da un lato un abbattimento dei redditi (il 65% degli avvocati italiani ha fatto ricorso al sostegno di € 600 mensili erogato da Cassa Forense) e dall’altro lato una vera e propria fuga dalla professione, soprattutto al femminile. Molte donne hanno dovuto abbandonare o comunque trascurare la professione durante la pandemia per l’impossibilità di conciliare il lavoro con la didattica a distanza, che nel caso dei bambini e delle bambine più piccole richiedeva la presenza costante di un genitore. Ebbene, anche in questo caso è toccato alle donne sacrificare le proprie ambizioni lavorative per occuparsi della famiglia e dei figli. 

Altro fattore importante nella disparità di trattamento è rappresentato dai pregiudizi culturali, che ancora oggi associano la professione forense a un ruolo tipicamente maschile. Sono rare le colleghe che, nella loro carriera, non siano state chiamate almeno una volta “signora” (o “signorina”, se avevano anche lo svantaggio dell’età), e ciò non solo da parte di clienti o “non addetti ai lavori”, ma persino da parte di colleghi uomini. Eppure, a livello operativo, negli studi legali a composizione mista, nei quali vengono comprese e valorizzate le diverse professionalità, anche mediante specifici percorsi di formazione, i risultati sono eccellenti. Misure come lo smart working o politiche di sostegno alla genitorialità, accanto alla già menzionata evoluzione (o rivoluzione in certi casi) culturale, sono fondamentali per il vero raggiungimento della parità di genere nella professione forense, obiettivo di civiltà che richiede un impegno condiviso da parte di tutti gli attori coinvolti, legislatore compreso. 
Di grande impatto il lavoro dei Comitati Pari Opportunità e dei singoli Ordini degli Avvocati, che da anni hanno avviato non solo una sensibilizzazione sul tema, ma una reale “rivoluzione culturale”, volta a scardinare i pregiudizi culturali e a porre in atto misure concrete tese alla conciliazione della vita familiare e professionale a tutti i livelli, dagli studi professionali alle istituzioni giudiziarie. Non da ultimo, sono proprio le avvocate a dover continuare a essere in prima linea, pretendendo adeguate misure di sostegno alla genitorialità, perseguendo una reale parità economica e non desistendo dall’obiettivo di raggiungere posizioni di rilievo, istituzionali o negli studi legali. Al contempo non temono di affrontare temi, considerati ancora veri e propri tabù nella nostra società, quali l’apporto maschile nella gestione della prole e la cura della casa, mirando quindi a una effettiva parità, non solo in ambito lavorativo. La svolta dev’essere, infatti, anche e soprattutto culturale e sociale: la vera condivisione della gestione familiare e del ruolo genitoriale è la strada maestra imprescindibile perché le donne possano affrancarsi da stereotipi che ancora oggi tanto le condizionano, anche nella libera professione». 

Sabrina Bernardi è presidente dell’associazione SconfiniAmo Aps e avvocata civilista, da sempre interessata a diritti umani e questioni di genere; nel suo intervento Pregiudizi di genere sul lavoro parla di come gli stereotipi influenzino le pratiche di assunzione e le dinamiche nei posti di lavoro. 

«Con il graditissimo invito al XII Congresso nazionale di Toponomastica femminile mi è stato assegnato il tema del pregiudizio di genere nel lavoro. In generale il pregiudizio di genere si concretizza quando qualcuno associa inconsciamente determinati stereotipi a generi diversi. E questo tipo di pregiudizio influenza senza dubbio le pratiche di assunzione e le dinamiche all’interno di un’azienda, comportando come diretta conseguenza la disparità economica, di carriera, di opportunità tra i sessi. 

Sabrina Bernardi

L’ordinamento invece, sia a livello comunitario che nazionale, riconoscerebbe a ciascun individuo il diritto al lavoro e il diritto a svolgere la propria professione senza subire alcuna discriminazione a causa di caratteristiche soggettive o di scelte personali. Principi che hanno trovato la loro specifica e iniziale applicazione nel nostro ordinamento già con l’articolo 37 della Costituzione nel 1948, secondo cui «la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore». Ma tanto è stato disatteso il principio che il fattore “genere” è ormai in assoluto considerato l’origine, la regina delle discriminazioni, tale da produrre nel tempo una normativa in costante tentativo di miglioramento dello stato dell’arte. Ecco allora la legge 903/1977, ventinove anni dopo l’emanazione della Costituzione, sulla parità di trattamento tra uomini e donne; e ancora quattordici anni dopo viene emanata la legge 125/1991, denominata azioni positive per la realizzazione della parità di genere tra i lavoratori (legge più volte modificata e confluita poi nel Codice delle pari opportunità fra uomo e donna del 2006) e ancora ulteriori decreti di attuazione delle direttive comunitarie in materia. La legge 125/1991 in particolare aveva espresso per la prima volta chiaramente l’intenzione del legislatore di passare dall’uguaglianza “formale” sancita dalla Costituzione all’uguaglianza “sostanziale”, per cui si era fissato l’obiettivo di estendere la tutela antidiscriminatoria attraverso le cosiddette “azioni positive” che avrebbero dovuto avere la finalità: «[…] di favorire l’occupazione femminile e di realizzare, l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro, rimuovendo gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità» e in particolare avrebbero avuto lo scopo di «eliminare le disparità di fatto di cui le donne sono oggetto nella formazione scolastica e professionale, nell’accesso al lavoro, nella progressione di carriera, nella vita lavorativa e nei periodi di mobilità», avrebbero dovuto «promuovere l’inserimento delle donne nelle attività, nei settori professionali e nei livelli nei quali esse sono sottorappresentate e favorire, anche mediante una diversa organizzazione del lavoro, delle condizioni e del tempo di lavoro, l’equilibrio tra responsabilità familiari e professionali e una migliore ripartizione di tali responsabilità tra i due sessi». Tali principi sappiamo bene sono molto spesso non applicati o violati, comportando il mancato raggiungimento dell’obiettivo prefissato e discriminazioni di varia natura e svantaggi alle lavoratrici, principalmente quello economico. 
Nonostante la continua evoluzione normativa (vedi la recente introduzione della Certificazione della parità di genere con la L.5 novembre 2021 n. 162 cosiddetta legge Gribaudo, le più recenti novità – apportate nel D.Lgs. 105/2022 – sulla Conciliazione vita-lavoro e congedi parentali con la quale è stato esteso il diritto all’astensione, obbligatoria o facoltativa, dal lavoro spettante sia alla madre sia al padre di bambini fino a 12 anni di età), gli obiettivi sono ben lontani dall’essere realizzati e le motivazioni della mancata o parziale realizzazione della rimozione degli odiosi pregiudizi di genere sappiamo essere soprattutto di natura culturale e politica. 

Nel report di Mazars del 2022, azienda leader di supporto alle aziende, dal titolo Miti e barriere che impediscono la progressione delle donne: analisi e soluzioni, scritto in collaborazione con l’Osservatorio per l’equilibrio di genere e pensato per i leader che desiderano promuovere concretamente l’uguaglianza nella loro organizzazione, basato sull’analisi della situazione attuale di occupazione femminile nel top management delle aziende europee, sono stati utilizzati, tra gli altri dati, anche le interviste a manager e figure apicali di vari settori e sono stati evidenziati una serie di preconcetti; per esempio: «le donne sono meno ambiziose degli uomini», oppure «l’ostacolo all’evoluzione della carriera delle donne è la maternità in quanto non compatibile con una posizione di leadership», oppure altri preconcetti tipici in ambito aziendale e ricorrenti, quali «Non riusciamo a trovare candidate donne competenti nel pool di 5 talenti», «Le donne sono avverse al rischio», “Il lavoro part-time non è compatibile con i ruoli di leadership». E ancora, il pericolosissimo «Esistono lavori da uomini» e «Le quote non sono basate sul merito, sono ingiuste nei confronti degli uomini e rischiano di spingere le donne incompetenti in posizioni chiave». Tutti stereotipi smentiti dai dati reali forniti dai ricercatori. 

Nel nostro paese attraverso studi della Bocconi e della Consob, è stato certificato che quando la percentuale di donne supera un determinato threshold, che varia tra il 17% e il 20% del board delle società quotate, le stime evidenziano un effetto positivo e significativo su tutte le misure di performance utilizzate. Nonostante ciò, l’uguaglianza di genere nel mondo del lavoro è ancora un miraggio, soprattutto nel settore economico finanziario, dove le donne sono ancora sottorappresentate. In Italia, in particolare, le donne rappresentano il 46% del personale, il 37% dei manager e solo il 25% del leadership team nonostante gli esisti positivi apportati dalla legge L. 12 luglio 2011 n. 120 c.d. Golfo Mosca sulle quote di genere. Nel mondo, il 60% circa dei laureati sono donne, ma poche fanno parte della leadership aziendale: nel 2019, solo il 20% dei membri dei Cda a livello globale erano donne. Per non parlare delle materie Stem dove la popolazione femminile si sta trovando in parte esclusa dal cambiamento sociale epocale in corso attraverso questo settore. I numeri parlano chiaro: nel mondo meno di 4 laureati su 10 nelle materie Stem sono donne. Pertanto, anche in questo ambito, si parla di un vero e proprio “gender gap”, sia a livello di istruzione che lavorativo. 

L’impoverimento sociale generale al quale stiamo assistendo colpisce inoltre le donne economicamente e socialmente più fragili, a partire da quelle sole con figli e dalle lavoratrici meno istruite o più mature, con responsabilità politiche trasversali soprattutto sul mancato stanziamento di fondi per loro. È aumentata la disuguaglianza e la distanza, pertanto, anche tra le donne, tra quelle che guadagnano di più grazie a lavori di carriera e qualificati e quelle che guadagnano di meno in lavori usuranti e malpagati. La pandemia ci ha fatto prendere consapevolezza del fatto che le donne e gli uomini fanno lavori diversi in diversi settori economici, più remunerati per questi ultimi e per pregiudizio o per necessità le donne sono ancora oggi presenti soprattutto nei servizi di cura, nel welfare, nel sociale, nella sanità, nell’istruzione, notoriamente meno retribuiti. 

Stesso grave pregiudizio con conseguente persistente “gap di genere” si verifica per un’altra categoria di donne, per le quali nessuna seria riflessione né azione positiva è stata messa in campo dal legislatore, quali le lavoratrici autonome e in particolare le libere professioniste (architette, ingegnere, avvocate ecc.), nei cui ambiti lavorativi sopravvivono stereotipi culturali e processi di cooptazione che hanno dato vita a una profonda asimmetria di potere, non solo economico, a vantaggio dei soli professionisti che vantano un vero e proprio abuso di posizione dominante, basato sugli stessi infondati pregiudizi segnalati nel report di Mazars. Anche per il 2022 il trend è stato univoco per tutte le professioni. Nel rapporto annuale di Adepp del 2022, associazione degli enti previdenziali privati che raccoglie 20 casse professionali, si segnala, al contrario della previdenza pubblica che ha un patrimonio netto negativo, un patrimonio in continua crescita; ma lo stesso rapporto mette in luce un grave gap reddituale esistente tra gli iscritti dovuti al genere, alla generazione e alla collocazione geografica dei professionisti. Ad esempio, le professioniste che sono oggi il 42% degli iscritti agli enti previdenziali che fanno capo ad Adepp, hanno un reddito medio annuo inferiore a 16.500,00 euro lordi, meno della metà di quanto mediamente guadagnano i colleghi. 

È urgente più che mai agire per rimuovere tutti i meccanismi che concretizzano violazioni dei principi di trasparenza e di concorrenza e mettere in campo azioni reali volte a gettare luce ed eliminare le opacità che impediscono la piena realizzazione della parità di trattamento economico. È necessario arginare la fuga delle donne dalle professioni a grave discapito, nel caso delle avvocate, della difesa alle altre donne vittime di violenza, così doppiamente svilite nell’ambito dei procedimenti giudiziari a forte trazione “patriarcale”. Il silenzio e l’inerzia sul costante e progressivo abbandono delle professioni è in evidente contrasto ai generali principi garantiti dagli art. 3 e 4 della nostra Costituzione, e nel caso dell’abbandono delle avvocate anche la violazione dell’art. 24 (diritto di difesa). Non è più possibile operare in ambienti solo maschili. 
La diversità è fonte di apertura e di migliori prestazioni: consente scambi più ricchi, nuove visioni e decisioni meno distorte. Il pregiudizio di genere nel lavoro è una questione di gestione generale di una società che voglia promuovere la cultura della legalità e delle pari opportunità. La chiave per nuove politiche di genere deve essere la premialità, la trasparenza accanto alla obbligatorietà delle quote se si vuole un reale cambiamento culturale a danno dei pregiudizi di sistema. Deve essere garantito il diritto di accesso al lavoro a tutte le donne, comprese le professioniste, in modo compatibile al diritto UE eliminando ostacoli e disposizioni discriminatorie di fatto, afferenti il genere e per promuovere il raggiungimento dell’ormai “noto” quanto “lontano” obiettivo 5 per lo sviluppo sostenibile dell’Agenda Onu 2030». 

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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.

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