Il 22 maggio del 1978, dopo un aspro dibattito nazionale che aveva visto contrapposti i più convinti conservatori del Paese contro le fazioni più progressiste, venne approvata la legge che disciplina l’accesso all’aborto nei primi 90 giorni della gravidanza. Il tentativo di abrogarla con un referendum fallì nel 1981 nonostante una capillare campagna a favore a cui diede risonanza perfino papa Giovanni Paolo II: la legge 194 venne mantenuta con il 68% di voti, una percentuale in cui era incluso anche un numero non ignorabile di cattolici e cattoliche, segno dell’inizio di un lento ma inesorabile scollamento tra il mondo religioso e quello politico. Vicende sentite anche in un piccolo paese come Sora, in provincia di Frosinone. Di quel periodo Annamaria B. ricorda: «Abbiamo capito che sotto sotto le donne anche se pubblicamente dovevano dire: “No questo mai, che state facendo?” poi alla fine […] hanno avuto il coraggio di dire: “Scelgo io”. Quella campagna l’abbiamo organizzata con un vecchio compagno che mise la sua macchina a disposizione, ci mise (a noi) sopra, montò un altoparlante e si andava in giro in tutti i paesi di provincia, anche in quelli mai sentiti, sperduti, in montagna e dove avevamo registrato io e la sorella, tutta una serie di frasi e cose in cui si chiedeva alle donne di andare a votare questa legge. Questo non l’ho fatto come collettivo, […] nacque spontaneo, trasversale».
I festeggiamenti per questo mirabile traguardo hanno tuttavia lasciato lo spazio a un nuovo sconforto molto presto: l’obiezione di coscienza, la pratica per cui un medico o una medica può rifiutarsi di praticare un aborto per questioni inerenti la propria sfera morale, è stata usata per rendere praticamente inattuabile la legge 194, con il risultato che tante donne sono state costrette, ieri come oggi, a spostarsi anche in altre regioni o subire ogni tipo di umiliazione per poter interrompere la gravidanza in un ospedale pubblico – mentre nelle cliniche private, dove bisogna pagare, non sembra ci sia mai stato lo stesso dilemma morale.
Al di là della triste realtà la legge sull’aborto è stata un traguardo importante per l’Italia. A Sora l’apertura del consultorio è stata irta di difficoltà, come riferisce Marcella P.: «Una delle nostre più grandi battaglie locali ha dato vita al consultorio familiare. È stata una nostra creatura. Quando uscì la legge il Comune di Sora ignorò questa opportunità e noi abbiamo lottato per questa istituzione». «Facemmo una battaglia per l’apertura del consultorio a Sora, – prosegue Anna P.– Era necessario per prevenire l’aborto e dare informazioni sui contraccettivi. Occupammo il consiglio comunale, le donne con i bambini. Il Comune non aveva risposto alla richiesta di aprire il consultorio e i fondi (3 milioni di lire) sarebbero stati ritirati. Riempimmo Sora di manifesti con scritto: “vota NO per non abortire più”. Cercavamo di parlare davanti le chiese».
«Mi ricordo uno slogan di quel periodo: “Era una notte buia e tempestosa, è ora di diventare rosa”. Il consultorio nasce da una lotta femminista. È stato difficile difendere l’aborto ma noi dicevamo che purtroppo è una cosa che entra nella vita delle persone ed è giusto regolamentarla piuttosto che lasciarla al caso o in base al reddito. L’aborto veniva di fatto praticato presso cliniche private a prezzi esosi». Le parole di Marcella P. descrivono egregiamente quella che era la realtà in Italia prima della legge 194 – e che in parte è ancora oggi: nonostante il moralismo si chiudevano entrambi gli occhi sugli aborti eseguiti nelle cliniche private; chi non poteva permettersene il costo si rivolgeva alle mammane, donne che usavano fil di ferro o lunghi aghi per poter bucare la placenta e indurre l’aborto, o utilizzavano metodi “casalinghi” come decotti di erbe, o si autoinfliggevano delle ferite alla pancia. In ogni caso, i rischi per la donna e la sua salute erano enormi, non di rado fino alla perdita della vita. Angela M. racconta: «Una delle prime cose fu occupare l’ospedale civile di Sora, ci mettemmo fuori sulle scalette. Uscì un articolo sul Messaggero, “Le ragazze con l’ombrellone”. Noi dormivamo nelle macchine per far applicare la legge 194. La legge sull’aborto era già passata ma gli ospedali, le Asl, non la applicavano. Noi occupammo l’ospedale e facemmo la diffida per far applicare la legge. […] Andavamo a controllare durante gli interventi operatori per evitare che fossero maltrattate. Dovevamo togliere le donne dalle mammane per fare in modo che l’aborto fosse controllato, gestito dalle strutture sanitarie e che le donne fossero sicure. Quindi è la donna che deve decidere se essere madre o meno».
Non solo l’aborto: fu una battaglia anche la diffusione della pillola contraccettiva e di tutte quelle informazioni inerenti la salute femminile che fino a quel momento erano state taciute per non “oltraggiare” il pubblico pudore. Sempre Angela M. riferisce: «Calcolate che mia madre era morta due o tre anni prima di tumore all’utero […] a 43 anni. Le donne la prevenzione non la facevano. Ho dovuto affrontare questo grande lutto, una tragedia. Morta di cancro a 43 anni. La prevenzione non la facevamo ed era importante. La donna non andava dal ginecologo perché erano tutti maschi. Era disdicevole, da prostituta perché l’uomo ti gestiva il corpo. Il tuo corpo non contava nulla. È il femminismo che inizia a dire: senti il tuo corpo, toccati il seno, fai il pap-test. All’epoca non si parlava del pap-test. Allora si inizia a parlare di prevenzione del tumore alla sfera genitale. È attraverso la riappropriazione del proprio corpo che la donna si identifica come soggetto e non come oggetto».
Sulle difficoltà a fare una corretta informazione è illuminante il resoconto di Mirella F.: «Dopo un po’ abbiamo iniziato a fissare alcuni punti, cosa volevamo? Visto che era passata la legge sull’aborto, volevamo i consultori familiari a Sora, volevamo fare informazione contraccettiva presso le donne, volevamo fare azione e informazione all’interno delle scuole. Quindi abbiamo spulciato, analizzato, divulgato. Per esempio non si potevano fare moltissime cose ma abbiamo fatto divulgazione presso le baracche a Sora. Lì c’erano ancora donne che avevano cinque, sei, sette figli dove non sapevano che cosa fosse la contraccezione. Io mi sono ritrovata a 16 anni, vergine, a prendere i contraccettivi, a rapportarmi con il consultorio, con gli psicologi e i ginecologi spiegando quella che era la nostra missione. […] Noi l’abbiamo fatto ingenuamente, da ragazze spontanee, loro ci hanno riempito le buste e noi con il banchetto siamo andate a fare divulgazione su come si usava la pillola e distribuendo alle donne delle baracche materiale informativo, contraccettivi, spirali, anche se la maggior parte di noi era vergine e non aveva esperienza sessuale. […] Ricordo una signora corpulenta, con gli occhiali, con una vestaglia a fiori che è arrivata con i bambini in braccio e si è avvicinata a noi, in dialetto ci disse: “Ma voi che volete? Chi siete?” Noi le abbiamo spiegato ma lei non capiva, così le dicemmo: “Lei ha un bambino in braccio, quanti figli ha?” Siamo partite con l’approccio diretto, aveva quattro o cinque figli e noi le dicemmo: “Se lei rimane incinta ancora è contenta?” E lei disse: “No per l’amor di Dio, io non ce la faccio più”. E noi quando abbiamo finito le abbiamo dato del materiale da leggere, a mala pena leggeva, per cui abbiamo dovuto spiegare sia cosa c’era scritto sia i contraccettivi, ci ha chiesto se saremmo tornate il giorno dopo che lei avrebbe portato le sue amiche ed era molto contenta di quello che stavamo facendo. Ci disse: “Grazie a Dio che ci stanno ragazze come voi”. Ma c’erano pure quelli che passavano, uomini (che dicevano): “Chi so’ queste?” e “So’ quattro p*** che stanno là a fa’ chissà che cosa”. Quindi ecco c’erano commenti pesanti da qualche uomo, ma noi eravamo toste e la consideravamo una missione. Stavamo dando un significato alla nostra vita, stavamo ribellandoci a dei padri padroni, stavamo decidendo del nostro futuro. Non era solo un’azione nei confronti delle donne della cittadinanza, era un’azione rivolta soprattutto su di noi. Noi gridavamo per avere il consultorio familiare, che era nostro diritto, le amministrazioni locali non potevano ignorare l’esistenza di una legge; stavamo lottando contro l’aborto clandestino che ancora perdurava a Sora, ce lo dissero proprio le signore delle baracche. Non uscì mai dove si praticava, né i nomi e cognomi, non veniva praticato in un posto fisso, andavano anche a domicilio con tutte le conseguenze: infezioni, aborti venuti male, emorragie, ecc.».
Racconti di un attivismo a difesa dell’autodeterminazione delle donne che risultano ancora oggi particolarmente attuali: a oltre quarant’anni dal referendum abrogativo, la legge 194 continua a essere messa in discussione, ostacolata nella sua attuazione dall’elevata percentuale di obiettori di coscienza. Il movimento delle donne continuerà a lottare affinché il diritto di scegliere sul proprio corpo, sul proprio ruolo e sulle aspettative di vita, sia garantito proseguendo il cammino tracciato dalle generose attiviste dei collettivi degli anni Settanta.


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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.
