Ribellione alla cultura patriarcale e attivismo politico

Le manifestazioni furono una parte fondamentale dell’attivismo degli anni Sessanta-Settanta: la possibilità di mobilitare centinaia se non migliaia di persone per promuovere un obiettivo comune fu infatti l’arma più potente a disposizione di chi combatteva per un cambiamento concreto. Ciò avvenne soprattutto nelle grandi città, ma anche in realtà più piccole come Sora, la cittadina nella provincia di Frosinone che abbiamo già imparato a conoscere negli articoli precedenti Vv 257, Vv 258 e Vv 259.

A Sora, il simbolo della lotta femminista e di classe furono le vicende accadute attorno alla fabbrica Bassetti. L’ex opificio, dismesso nel 2020, per lungo tempo ha rappresentato per le sorane, fino a quel momento contadine o casalinghe, un modo per raggiungere l’autonomia economica. Il collettivo Rosa Luxemburg entrò in contatto con le operaie in occasione dei festeggiamenti per l’8 marzo, organizzati nelle piazze e presso il cinema Capitol; l’impegno politico di quei tempi è raccontato dalle attiviste come uno dei più belli e intensi della loro vita, come riferito da Natia M.: «[…] C’era una lotta reale che ha fatto crescere il valore politico della democrazia. Lo Stato si cambia ma la democrazia è un dato importante della nostra identità. Anche su di noi la politica ebbe un impatto molto forte perché ogni giorno arrivava una sollecitazione a cui dovevi rispondere. Alla politica mi avvicino attraverso le lotte studentesche […] c’era questo legame molto stretto, nel ’72. Il movimento femminista iniziò a parlare di liberazione delle donne e questo iniziò a cambiare la prospettiva di lavoro delle donne della mia generazione: lavorare non serve più solo per emanciparsi, ma significa riappropriarsi del proprio corpo, della propria libertà. Liberazione, essere donne autonome che scelgono della propria vita. Questi passaggi hanno contribuito alla mia formazione politica […] mi hanno fatto maturare, piano piano ho cominciato a capire che tutti i problemi erano interconnessi, che i miei problemi erano quelli di altre donne e che il mio ruolo doveva essere quello di legare questi problemi e di darne voce. Così sono diventata la Voce. Dove trovavo compagne, innanzitutto mi arricchivano ma poi mi portavo sempre qualcun altro dietro perché era un modo per condividere e far crescere, così si faceva scuola politica. Una esperienza che mi ha arricchito davvero tanto. Perciò dicevo all’inizio che io ho iniziato ad avere risultati quando sono uscita dalla sezione e sono uscita dai luoghi fisici. Quando devi incontrare le persone, devi uscire dal luogo fisico».

«Io arrivo alla politica in terza media perché da parte mia c’è sempre stata una ribellione innata ― racconta Annamaria B. ― […] mio padre faceva l’operaio alla Tomassi […] ricordo vagamente il primo sciopero e mi ricordo una jeep della polizia che caricò gli operai […] lì prima c’era una fabbrica tessile di sole donne e siccome non venivano pagate da mesi organizzarono questo sciopero. Io dalla finestra della cucina vedevo bene, perché era lì vicina, queste donne che scioperavano e questa camionetta della polizia che si lanciò contro il corteo. Io rimasi scioccata perché se vanno a lavorare è per avere lo stipendio e poi sono tutte donne e hanno molti più problemi e poi come si fa a lanciarsi con una camionetta contro degli esseri umani. Questa ribellione mi nasce da piccola. Io mi sono candidata a 18 anni e ho fatto il primo comizio a Sora, poi l’ho fatto anche ad Isola del Liri insieme ad Angela, poi a San Donato Val di Comino ed in altre zone, praticavo la doppia militanza (nel partito e nel femminismo). […] Uno dei primi passi fu una manifestazione per l’8 marzo. Per noi l’8 marzo doveva essere tutti i giorni per cui volevamo dare un significato diverso a questa festa, per cui organizzammo queste manifestazioni ed erano strapiene, c’erano tantissimi ragazzi, non solo ragazze. La mentalità era quella, una donna non poteva impegnarsi in politica poi figuriamoci se era femminista».

Marcella P. racconta: «[…] Non c’erano le quote rose, noi eravamo gli uragani rosa. Eravamo tutto il giorno a fare politica, distribuire volantini, fare dibattiti, era naturale che poi lo sbocco del nostro impegno fosse la candidatura. Solo una volta fu eletta un’operaia della Bassetti, fu il periodo in cui la fabbrica stava chiudendo. La Bassetti era una fabbrica femminile e dava lavoro a tantissime donne. Lei era Maria Addolorata Rea. Fu eletta nel consiglio comunale. Il nostro impegno è andato oltre il partito a un certo punto. Non ci sembrava proficuo chiudersi nella stanza d’avorio del partito e tagliare i ponti con il resto del movimento. Quindi poi, abbiamo praticato una doppia militanza una volta superate le diffidenze. La doppia militanza si tradusse nella nascita di un gruppo che abbiamo chiamato Rosa Luxemburg, in cui eravamo tutte studentesse».

Band Rosa, festa dell’unità 1978

«Furono fatti anche degli spettacoli soprattutto l’8 marzo e ci si inventava, si vedeva chi recitava, chi sapeva suonare – aggiunge Annamaria B. – l’8 marzo non era solo discussione collettiva ma erano momenti in cui c’era musica […]. Organizzavamo manifestazioni con le studentesse, urlavamo: “Noi sappiamo che siete dietro le finestre!” perché molte donne non scendevano a manifestare. Ne organizzavamo tante al cinema Capitol di Sora e al cinema di Isola del Liri che riempivamo. Come collettivo avevamo deciso di fare una serie di iniziative che coinvolgessero le donne che non avessero appartenenza politica ma anche donne dei partiti della sinistra del sindacato perché era importante il loro appoggio. Andammo a parlare con alcune figure storiche del comune di Sora, tra cui la prima consigliera donna. Lei era Maria Addolorata Rea, un’operaia della Bassetti. E passarono tanti anni dopo di lei prima che una donna rientrasse nel Consiglio Comunale».

«Noi andavamo dalle operaie, perché le fabbriche erano ancora aperte ― racconta Angela M. ― chiusero nell’’82, quindi stiamo parlando del 1978-79. Noi andavamo lì, facevamo l’8 marzo e parlavamo con loro, del lavoro e del doppio lavoro che facevano poi a casa. Ne parlavamo con loro perché le operaie erano ovviamente interessate, prima in fabbrica, poi a casa. La donna va in pensione? No, perché poi continua a lavorare a casa. Noi per le casalinghe una specificità la volevamo trovare. Ancora oggi tutto il welfare dell’Italia si regge sulle donne. Se non ti ammazzano in un modo, ti ammazzano così perché ti tolgono la libertà. Se una donna è autonoma c’è sempre una certa riprovazione sociale».

Una delle attiviste di Rosa Luxemburg

Spesso questo impegno provocò forti tensioni in famiglia; Annamaria B. riferisce: «Considera che i miei erano molto credenti e la mentalità era quella del “tu sei donna” e quindi come donna determinate cose non potevo farle. Poi negli anni a forza di sentire le cose sono cambiate, però io al tempo ero una ribelle, perché loro esternamente dovevano difendere questo ruolo della donna, per cui era un problema».

Mirella F. racconta: « […] c’era il preside dello scientifico, che era amico di mio padre e faceva la spia, gli diceva che io andavo attaccando i manifesti per Sora. Quindi avevo gli interrogatori tutte le sere. Avevamo orari assurdi, d’inverno alle quattro e mezza a casa. D’estate all’imbrunire a casa. Non potevamo uscire. Gli spazi, quindi, erano solo in poche ore in cui attaccavamo i manifesti. Io poi ero a 4 km dal centro di Sora, io stavo quasi a Broccostella. Quindi andare ad attaccare un manifesto era un impegno».

Mirella F. aggiunge: «Molte avevano casi di violenza domestica da parte di fratelli, di padre, di madri sottomesse. Siamo partite da cinque ma poi siamo diventate fisse una trentina, a seconda delle manifestazioni si poteva arrivare a cento o duecento. Comunque anche chi non veniva, sapeva chi eravamo, cosa facevamo e cosa scrivevamo e all’interno delle scuole c’è stata crescita. Per esempio, mi ricordo che l’8 marzo era una ricorrenza, noi l’abbiamo riportata all’essenza e l’abbiamo vista nei volti delle ragazze, in quello che gridavano per strada. Una manifestazione così non l’avevamo mai vista a Sora. Noi gridavamo per avere il consultorio familiare, che era nostro diritto».

Nonostante le difficoltà anche a livello personale, le attiviste non si sono mai fermate, affiancando le operaie nella loro lotta e continuando la loro opera di informazione. Riferisce Mirella F.: «Mi ricordo che io ero l’addetta stampa, nel senso che la mia grafica era particolarmente ordinata, ero quella che scriveva i poster da attaccare in giro per Sora. Quindi tutte le manifestazioni, tutte le nostre rivendicazioni, rigo per rigo erano scritte a mano. Abbiamo fatto divulgazione presso le “baracche” a Sora. […] . Stavamo dando un significato alla nostra vita, stavamo ribellandoci a dei padri padroni, stavamo decidendo del nostro futuro… non era solo un’azione nei confronti delle donne della cittadinanza, era un’azione rivolta soprattutto su di noi e abbiamo cercato un confronto con Roma, Isola del Liri». La diffusione del giornale, dei manifesti dà presto dei risultati incredibili: «Quando uscì il primo volantino lo distribuimmo con fatica perché ogni pagina veniva fatta a mano, quindi dovevamo battere a mano, passare al ciclostile, passare l’inchiostro, sembrava veramente la fabbrica di Gutenberg. Avevamo inchiostro dappertutto, sulle mani, dentro gli occhi. Abbiamo visto che ebbe un bel riscontro ma poi siamo arrivate a cento copie, non di più perché era tutto fatto a mano per cui veniva data gratuitamente o offerta. Per cui ad esempio delle ragazze le prendevano insieme, dividevano e facevano un’offerta, così restavano le copie. Dopo se lo passavano tra di loro […] io ho letto pagine del primo numero nell’assemblea d’istituto davanti agli studenti. Questo era il modo per divulgarlo, cioè cercare di interpretare quello che c’era scritto e spiegare perché, specialmente nei consigli di classe e di istituto, li portammo a teatro. Mi ricordo una giornata grandiosa, non potevamo crederci. L’intero cinema pieno».

In copertina: attiviste di Sora.

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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.

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