Il nome che non c’è

La prossima Biennale Arte di Venezia avrà come titolo Stranieri Ovunque.
Il titolo è del nuovo curatore brasiliano Adriano Pedrosa. Vanta un lungo curriculum in giro per il mondo.
Stranieri Ovunque, omettendo la desinenza femminile, esclude le donne. Anche nell’arte le donne si riconfermano “straniere”, come sempre sono state in un mondo modellato dagli uomini. E questo nonostante la scorsa Biennale sia stata guidata da una donna che ne Il latte dei sogni ha messo in luce quante artiste lavorino sulla “bellezza” dell’arte. Si può pensare che questo concetto non sia piaciuto alla Biennale.
Scrive Pedrosa, nella sua presentazione del titolo nel sito della Biennale, «La figura dello straniero sarà associata a quello dell’estraneo, dello stranger, dell’estranho, dell’étranger, e pertanto la Mostra si svilupperà e si concentrerà sulle opere di ulteriori soggetti connessi: l’artista queer, che si muove all’interno di diverse sessualità e generi ed è spesso perseguitato o messo al bando; l’artista outsider, che si trova ai margini del mondo dell’arte, proprio come l’autodidatta o il cosidetto artista folk; e l’artista indigeno spesso trattato come uno straniero nella propria terra».
Invece in Francia il famoso Musée d’Art Classique di Christian Levett a Mougins, il paese dove visse gli ultimi dodici anni Picasso, dal giugno prossimo si trasformerà nel Femme Artistes du Musée de Mougin, esponendo le opere delle artiste che Levett ha collezionato. Con la sua scelta, Levett, un mecenate privato, imprime un cambio di sguardo alla visione maschile nella produzione e nel mercato dell’arte. La lungimiranza del privato sembra mancare allo spazio pubblico internazionale e alla prossima esposizione veneta, nonostante la sensibilità del curatore per gli Stranieri dell’arte.

Pedrosa sostiene che il titolo della Biennale è preso da uno uguale del 2005: Foreigners Everywhere, della galleria Reena Spaulings a New York, nato sull’onda dell’11 settembre, a cura di Claire Fontaine, un’artista duchampiana inventata da Fulvia Carnevale e James Thornhill e che a loro volta l’hanno preso da un omonimo collettivo torinese. Nel titolo in inglese gli stranieri sono i migranti e le migranti che cercano la sopravvivenza, ma se lo traduci in italiano tale e quale, la misconoscenza del femminile brilla. In italiano esiste anche la parola Straniere.

Comunque, resta che nel paesaggio di Pedrosa ci potranno essere tutti i possibili artisti sconosciuti, estranei, ma non le artiste che si dichiarano donne dalla nascita: così normali da non esserci. Non credo nel plurale maschile in auge oggi. Se non vieni nominata è automatico non esistere, diventi straniera dell'”Ovunque” restringendo il villaggio globale di Pedrosa: perché le artiste esistono, oggi più che mai. Forse è smarrita la misura visiva nell’arte, perché credo che nessuno tra gli artisti stranieri invitati accetterebbe di essere inglobato nella definizione di StranierE Ovunque.
E allora che si fa, vale solo per le donne il sistema linguistico esistente che nasconde un sesso nell’altro: guarda caso sempre quello femminile. Mai il contrario? Non bisogna citare tutti e due i sostantivi?

Se dici stranieri, quando ascolti o scrivi o leggi, la parola non ti restituisce immediatamente l’immagine di una donna. La i plurale dà per prima l’immagine di corpi maschili e poi, se ci pensi, arrivano quelli femminili, ma devi pensarci. È un condizionamento linguistico, invisibile al patriarcato, e conservarlo è come affermare che le donne non contano e possono essere occultate. Non basta più l’idea che “quando l’arte è arte” non serve capire il corpo che l’ha prodotta. Il corpo conta, lo dice anche Pedrosa nei suoi distinguo, ma quello di tutte e tutti. Non solo di alcuni.

Come artista donna, pur sapendo che non avevo chance, mi sono proposta alla Biennale col mio lavoro in progress dal 2015: Il Mistero negato del corpo che non tace: legato al Sangue di Vita mestruale, fonte della vita di chiunque, osando suggerire di aggiungere a Stranieri la parola StranierE con la e maiuscola: per far notare la diversità di pensiero e lavoro tra uomini e donne e far emergere una emarginazione non inevitabile oltre a una possibile riformulazione del titolo. Ma la mia provocazione ovviamente non è stata accolta. L’ingranaggio della Biennale è inarrestabile come quello di Chaplin in Tempi moderni. Così la critica artistica dalle buone intenzioni di Pedrosa sull’estraneità, rischia valanghe ideologiche concettuali e va in crisi di “latte” e di “sogni“. Tra l’altro l’ormai normalizzato meccanismo di autocandidatura è così stringato che assomiglia più a un artifizio che a un modo di presentarsi rispettoso del proprio lavoro, ma questo ha scelto la Biennale che immagina curatori demiurghi.

Ci sono rimasugli patriarcali che non permettono la visione della parzialità artistica maschile, figurarsi il di più che esprimono le donne nella cura della vita e non delle teorie. Di questi tempi però è vietato regredire: nessuna tace. Le artiste si muovono in completa libertà e questa libertà riduce, in automatico, lo spazio maschile alla metà della loro presunta totale rappresentazione. Gli artisti maschi dovrebbero ribellarsi a questa visione stereotipata che danneggia anche loro nel rappresentare un tutto inesistente. Ci sono uomini che si muovono come le donne, ma anche loro saranno stranieri agli stranieri se non hanno una differenza di genere visibile a Pedrosa e alla Biennale. E qui è proprio l’intento universale della Biennale che diventa monco se non nomina l’artista donna. Continua la stessa assenza del reale, su cui sto ancora lavorando, che ho trovato nel 2015 allo stabilimento FCA di Melfi. Quando provocatoriamente ho ricamato e dipinto con le macchie mestruali le tute vere delle operaie. Perché FCA obbliga donne e uomini a portare la tuta bianca senza accorgersi che quella delle donne si macchia di sangue mestruale. I corpi degli operai e delle operaie sono differenti da sempre e la nuova tecnologia automobilistica non può annullarli, neppure se speranzosa si affida alla filosofia artistica con colori, luce, spazio e materia inconsueti in una fabbrica. Anche lì era ed è in ballo la libertà delle donne e la loro dignità. La stessa oppressione della Biennale che collega in sé il maschile arcaico del nord e del sud del mondo. Si sa che a Venezia ci saranno anche artiste donne, ma inglobate nella “i”. Invisibili. A questo punto sembra un bene essere estranee agli stranieri. Questo testo, fatto di segni, è la mia opera d’arte per la Biennale 2024 che non c’è.

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Articolo di Clelia Mori

È stata insegnante d’arte, bibliotecaria, operatrice culturale, ispettrice archeologica onoraria. È Maestra d’Arte al Toschi di Parma. Ha fatto a lungo politica nella sinistra istituzionale. Ha cresciuto un figlio, oggi fotografo d’arte e scultore. Ora ha riunito le varie parti di sé, prima tenute divise: dipingere e fare politica, come donna e madre che cura e ama la vita, anche dipingendo.

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