Di lei sappiamo poco, ma quel poco è prezioso perché delle altre sappiamo ancora meno. Abbiamo l’anno di nascita, il 1619, e il giorno del battesimo nella chiesa di Santa Sofia, il 6 agosto. Abbiamo anche la data della morte, l’11 novembre 1677, a Padova. Il suo ritratto, a opera del prete genovese Bernardo Strozzi (che non era suo parente) ricorda l’autoritratto coevo di Artemisia Gentileschi (che però è infinitamente più bello). Barbara ha tra i sedici e i vent’anni, ha in mano la viola da gamba e l’archetto, ci guarda con aria assorta, sembra più grande della sua età, è vestita in modo succinto; Artemisia, invece, si rappresenta come Allegoria della pittura, non guarda noi ma la sua opera, l’inquadratura è audace e moderna. Le due donne non sembrano assomigliarsi, ma hanno una cosa in comune: l’affermazione della propria professione attraverso l’esibizione degli strumenti del mestiere. Il genovese ha dipinto una Barbara discinta, confermando le dicerie sulla giovane musicista che, non sposata e per di più artista, era ipso facto condannata a una fama di cortigiana. Benché nel 1636 Nicolò Fontei, musicista di qualche fama, dedicasse la sua seconda raccolta di Bizzarrie poetiche poste in musica alla «gentilissima e virtuosissima donzella la Signora Barbara», e il poeta genovese Gian Vincenzo Imperiale, sentitala cantare, la definisse «una delle Muse di Parnaso», per il resto la reputazione della giovane Strozzi non era al livello della sua riconosciuta maestria musicale. Altrove non le si risparmiano i lazzi,come nell’anonimo testo satirico in cui, nonostante,

la si veda «castissima» «come femina» poteva «in libertà passarvi il tempo con qualche amore». D’altro canto, la definizione di «virtuosissima cantatrice» datale da Fontei è di parte, essendo il musicista intimo di Giulio Strozzi, padre — benché ufficialmente adottivo — di Barbara. Ma tutto questo è ormai ovvio. La stessa Artemisia si era vista dare, nell’elegante e fiorita rima secentesca, della poco di buono solo perché artista e indipendente. E d’altro canto la prostituzione poteva essere un destino inevitabile: si pensi per esempio a Fillide Melandroni, la modella che Caravaggio immortalò nel 1599 come Giuditta, che, perso il padre ed emigrata a Roma, fu spinta alla prostituzione dalla madre, fu definita «cortigiana scandalosa» dalla Chiesa, fu amante di Giulio Strozzi nel periodo romano di lui, fu cacciata da Roma in seguito alle pressioni della famiglia dello stesso, non ottenne sepoltura in terra consacrata quando morì trentasettenne.
Quel poco che la storiografia ci tramanda delle donne che ricercano alternative alla vita ristretta loro destinata è noto e rimasticato, ma è difficile evitarlo, come è difficile capire se la fama che accompagnava artiste e modelle fosse reale o frutto di becero sessismo; e oggi non sembra nemmeno utile stabilirlo.
A nove anni Barbara Caterina fu adottata dal presumibile padre Giulio Strozzi, poeta e avvocato; la madre era Isabella Garzoni, che lavorava in casa Strozzi. Nel testamento, Giulio nominò Barbara sua unica erede perché a Venezia, diversamente che altrove, le donne potevano ereditare e perché presumibilmente non c’erano altri figli. Giulio stesso era stato adottato e apparteneva a una famiglia in vista di Firenze. Giudice, appassionato di musica, poeta e famoso librettista, aveva lavorato alla corte papale e si era poi trasferito a Venezia, dove aveva aderito all’Accademia degli Incogniti e poi, in pieno stile secentesco, ne aveva fondata una, l’Accademia degli Unisoni, di cui la figlia divenne protagonista. Barbara aveva studiato musica con l’insigne Pier Francesco Cavalli, cantava e suonava magnificamente, componeva arie e madrigali. Soprattutto metteva in musica le opere letterarie del padre per la propria voce. Tra il 1644 e il 1664 riuscì a pubblicare ben otto volumi delle proprie composizioni: un numero enorme rispetto a quello di tante musiciste rimaste sconosciute. Ma Venezia era una città meno ostile verso le donne e l’ambiente culturale in cui viveva Barbara decisamente favorevole. Ed era all’avanguardia: il cremonese Claudio Monteverdi, grande innovatore, inventore del melodramma, viveva a Venezia ed era famosissimo. Era molto più anziano di Barbara e nessuna fonte riporta una loro qualche conoscenza, ma sembra impossibile che lei, il padre e l’Accademia tutta non lo frequentassero: il più famoso ritratto di Monteverdi è a opera dello stesso Bernardo Strozzi che aveva dipinto lei (naturalmente in abiti e abbigliamento molto più austeri). È noto anche che a Venezia il cremonese produsse moltissimo e non finì il suo capolavoro L’incoronazione di Poppea, il cui duetto finale, di rara bellezza, fu composto da qualcun altro: probabilmente Francesco Sacrati, nella cui opera La finta pazza (su libretto di Giulio Strozzi) si è rinvenuta forte somiglianza con l’opera monteverdiana. Ma non è certo…
Nonostante la mole impressionante delle pubblicazioni — in tutto centoventicinque brani — e la fama che l’accompagnava, Barbara non ebbe mai un committente fisso, il che significa che per pubblicare e guadagnare doveva trovare mecenati.
La cosa divenne problematica soprattutto dopo la morte di Giulio e Barbara decise di proseguire nella professione di musicista anche da sola.
Molti artisti vivevano di commesse private, ma trovavano spesso lavoro come maestri di cappella o insegnanti presso nobili e istituzioni pubbliche. Anche la citata Artemisia Gentileschi cercò tutta la vita un incarico pubblico e lo trovò solo a Napoli poco prima di morire. Per le artiste, dunque, la strada era molto più impervia che per i loro colleghi.
Nel 1644, un anno dopo la morte di Monteverdi, la venticinquenne Barbara pubblicò un primo libro di madrigali a più voci, su testi del padre, che dedicò alla granduchessa di Toscana Vittoria della Rovere, anche perché Giulio aveva mantenuto stretti rapporti con il ramo fiorentino della famiglia (sul presunto bigottismo oscurantista di Vittoria molta critica moderna ha espresso dubbi); nel 1651 un volume di cantate dedicato alle nozze di Ferdinando III d’Asburgo e a Eleonora Gonzaga-Nevers; l’anno seguente un terzo; poi un quarto andato perduto; quindi il quinto con musiche sacre dedicato ad Anna de’ Medici, arciduchessa d’Austria; il sesto, il settimo e l’ottavo contengono arie a una voce sola: la sua. A queste opere vanno aggiunte numerose altre comprese in miscellanee pubblicate in tutto il Seicento. Le composizioni sono spesso di alto virtuosismo, ovvero adatte alla sua finissima tecnica vocale. Non sappiamo quanto le dediche ai nobili personaggi abbiano fruttato all’autrice, ma lei tenne duro.
Barbara Strozzi non si sposò mai e si mantenne da sola. Ebbe una lunga relazione con Giovanni Paolo Vidman (o Widmann), patrizio ammogliato e amico di famiglia (a lui sono dedicate le Bizzarie poetiche di quel Fontei che elogiavano la «gentilissima» e «virtuosissima» Barbara) da cui ebbe tre dei suoi figli, o forse tutti e quattro. Ma, ad onta delle malelingue, non dovette essere un rapporto d’interesse, perché in un’occasione fu lei a prestare dei soldi a lui, così come pagava l’affitto della casa del padre. Riuscì a dare una dote alle due figlie e a un figlio per permettere loro di entrare in convento, e l’altro figlio ricevette un’eredità.
Si sa poco degli ultimi dieci anni. Probabilmente pubblicò ancora, ma non è certo, come possibile è una sua attività didattica. Conservò una certa notorietà in ambito specialistico, soprattutto britannico, ma i moderni studi di musicologia e sulla cultura delle donne l’hanno riportata alla fama che merita. La sua musica è forte, innovativa, eloquente, al punto che non mancano rivisitazioni in chiave moderna accanto alle moltissime interpretazioni degli originali. Non sappiamo perché Barbara si recasse a Padova nel maggio del 1677, ma lì si ammalò e morì dopo tre mesi. Si dice fosse in condizioni economiche precarie, ma la sua vita è tutta un «si dice». E nel frattempo le sue opere si spargevano per tutta Europa.
Qui la traduzione di Francese, Inglese, Spagnolo.
***
Articolo di Mauro Zennaro

Mauro Zennaro, grafico, è stato insegnante di Disegno e Storia dell’arte presso un liceo scientifico. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi sulla grafica e sulla calligrafia. Appassionato di musica, suona l’armonica a bocca e altro in una blues band.
