La voce libera e critica di Maria Giacobbe ci ha lasciato

Il 27 gennaio è venuta a mancare in Danimarca, dove viveva dal 1957, la scrittrice sarda Maria Giacobbe. Era nata il 14 agosto 1928 a Nuoro in una famiglia benestante di solide basi antifasciste; il padre Dino, ingegnere, il 17 aprile 1921 fu con Emilio Lussu, Camillo Bellieni e altri fra i fondatori del Partito sardo d’azione ritenendo necessaria la nascita di un partito che «desse voce al desiderio di giustizia sociale e di libertà civile», emerso fra i generosi combattenti della Grande guerra. Le vicende familiari furono particolarmente difficili, ma pure, in un certo senso, romanzesche: il padre infatti era espatriato in maniera clandestina per combattere in Spagna, dopo vari arresti; da lì riuscì a raggiungere gli Usa. La moglie Graziella Salis, insegnante elementare, rimasta a casa con quattro fra figli e figlie, veniva tenuta sotto stretta sorveglianza dalla polizia del regime; nel 1939 pensò di poter ottenere il passaporto per arrivare in America, ma la guerra bloccò tutto; nel 1944 cercò un nuovo contatto tramite militari italo-americani sbarcati a Cagliari, tuttavia la coppia si ricongiungerà solo dopo quasi 10 anni. 
Maria Francesca ebbe un rapporto incostante con gli studi, era infatti delicata di salute, detestava la scuola, ma era sveglia e precoce, quindi andò direttamente in seconda elementare perché sapeva leggere e scrivere; iniziò il ginnasio, ma dovette passare, sempre a causa dei malanni frequenti, alle magistrali e, dopo il diploma, cominciò a insegnare nell’entroterra della provincia di Nuoro, fra boschi, montagne, località sperdute e selvagge. Ma la passione della scrittura era già sbocciata, tanto che pubblicò diciottenne il suo primo articolo sul quotidiano Aristocrazia. L’esperienza di insegnante dette i suoi frutti: lavorò con evidente passione a contatto con realtà difficili, in contesti oggi inimmaginabili; fame, miseria, abbandono, ignoranza, malattie erano i suoi incontri quotidiani. Di tutto questo, ma anche di numerosi atti di generosità e di affetto, ha raccontato in un libro che ogni docente dovrebbe leggere: Diario di una maestrina, pubblicato da Laterza nel 1957. Ottenne il premio Viareggio-Opera prima e la Palma d’oro dell’Udi, e fu tradotto in 15 lingue. 

A distanza di tanto tempo (ripubblicato più volte dalla casa editrice Il Maestrale) non ha perso freschezza per lo stile vivace e perché l’entusiasmo, la gioia, l’impegno della giovanissima Maria sono valori che chiunque insegni anche oggi conosce bene e condivide, nonostante che gli ambienti in cui si trovava a operare siano per fortuna radicalmente cambiati grazie al benessere, al turismo, al mutare delle condizioni di vita. La prima supplenza fu in una classe di 26 fra bambine e bambini colpiti per lo più da tracoma e malattie della pelle; ovunque andasse mancavano fogne e acquedotto, mentre le aule erano prive di tutto; tubercolosi, tigna, malaria, denutrizione cronica erano talmente diffuse da rendere preoccupante la situazione sanitaria. A Oliena la maestrina ebbe una classe composta da 30 adulti di età compresa fra i 18 e i 60 anni; a Fonni, il comune più alto della Sardegna, le alunne erano spesso assenti da scuola perché occupate con l‘aggiudu; si trattavadi lavori domestici praticati fuori casa per un modesto compenso, tuttavia utile per la sopravvivenza familiare. Scoprì con stupore che le famiglie dei pastori bevevano latte raramente; il frutto del loro lavoro andava tutto ai padroni; così figlie e figli erano tirati su con il caffè e le fave secche sottratte al maiale, mentre poteva capitare che qualche madre (umana) allattasse al proprio seno i maialini neonati. Assai vivace il racconto del bagno caldo nelle docce della palestra, occasione praticamente unica per le piccole allieve, grazie a 10 saponette inviate dalla Croce Rossa Svizzera: «Sono eccitatissime. Urlano, si spingono, saltano come selvagge», riferisce la maestra, contenta anche di accompagnare un gruppetto in colonia a Sorrento, dove avvenne la scoperta, fra le mille novità, di un indumento mai utilizzato prima: il pigiama.
Non va dimenticato che all’epoca certe località della Barbagia avevano una pessima fama; Orgosolo era definita “l’Università del delitto”. 

Costumi femminili di Orgosolo. Foto di Laura Candiani

 Sopravvivevano faide familiari, ci si avviava al periodo dell’anonima sequestri, rapimenti e scomparse erano all’ordine del giorno. Tuttavia la maestra non ebbe mai problemi, anzi incontrò persone amiche e affettuose nei suoi confronti. Nel 1957 sposò a Copenaghen lo scrittore e attore Huffe Harder (1930-2002) da cui ebbe due figli, Thomas e Andreas; quest’ultimo, anche lui giornalista, scrittore e gastronomo è morto il 5 luglio 2019 nelle acque della Sardegna, presso Orosei, che frequentava abitualmente. Dal matrimonio Maria Giacobbe ha sempre vissuto in Danimarca, un Paese che le piacque subito perché le parve aperto, libero, progredito. Ne imparò presto anche la lingua, che divenne sua a tutti gli effetti e si aggiunse alle altre già conosciute: il francese, lo spagnolo, lo svedese, il norvegese; per necessità affrontava pure inglese e portoghese. Amava molto viaggiare, da vera cittadina del mondo; fino da piccola sognava di evadere dalla sua isola, che pure le è sempre stata cara e dove ritornava spesso. Era venuta anche per le recenti celebrazioni deleddiane, quando fu intervistata dal conterraneo Marcello Fois.  La sua carriera di saggista, traduttrice, giornalista la portò a collaborare fra l’altro con Il Mondo di Pannunzio e con l’Unione sarda. Proprio questa attività le fece ottenere un riconoscimento che le era particolarmente gradito: il Premio Iglesias per il giornalismo. Scrisse anche testi in poesia, pubblicati con successo in Danimarca, dove ricevette molti premi e apprezzamenti, ma il suo editore non ritenne di tradurli e pubblicarli in Italia. Intensa fu la produzione di racconti e romanzi, spesso con sfondo autobiografico e ambientazioni sarde, ma sempre con una attenzione viva alle questioni sociali e politiche. Fra le sue opere: Piccole cronache (1961), 

Il mare (1967), Le radici (1977) che è la traduzione di Dagbog mellen to verdener (Diario tra due mondi) pubblicato in danese nel 1975, in cui raccontava la Nuoro dei suoi avi, Gli arcipelaghi (1995, riconoscimento speciale della giuria al premio Giuseppe Dessì): da questo romanzo è stato realizzato nel 2000 dal regista Giuseppe Columbu il film omonimo. Citiamo ancora: Masker og ngne engle del 1994, pubblicato in Italia nel 1999 col titolo Maschere e angeli nudi: ritratto d’un’infanzia (1999), ancora sulla sua terra, Scenari d’esilio. Quindici parabole (2003), Pòju Luàdu (2005), Chiamalo pure amore (2008), Euridice (2011), Memorie della farfalla (2014). Fra i saggi va menzionato Grazia Deledda. Introduzione alla Sardegna (1973), mentre ha curato le raccolte Poesia moderna danese (1971) e Giovani poeti danesi  (1979).Nel 1967 ottenne in Italia il cavalierato dell’Ordine della Solidarietà Nazionale e nel 1996, nel Paese d’adozione, un vitalizio statale come ringraziamento per la sua attività a favore della cultura danese. Maria Giacobbe, va ricordato, non fu solo dedita alla letteratura e al giornalismo per cui a lungo, raccontava, aveva utilizzato la mitica Lettera 22, in seguito sostituita forzatamente dal pc, fu anche una persona politicamente e socialmente impegnata; nell’intervista citata (comparsa su La nuova Sardegna) affermò: «fui (per scelta personale) “staffetta e guardiana di pace” in Nicaragua. E in Danimarca fui (per elezione) membro della direzione dell’Associazione Danese Scrittori e del consiglio direttivo e redazionale della rivista Arena. Fui anche (per proposta e nomina ministeriale) membro della Commissione Nazionale Danese Unesco. Partecipai a incontri internazionali in Norvegia, in Svezia e a Parigi. È stata questa per più di mezzo secolo la mia vita normale e quotidiana, durante la quale ho anche scritto quando ne sentivo il bisogno o il dovere. E le circostanze mi permettevano di farlo». Dal 2008 era presidente del Comitato degli scrittori danesi per la difesa della libertà di espressione e membro fondatore del Comitato per la coesistenza israelo-palestinese. In più occasioni si era espressa anche contro l’industria delle armi, causa di morte e di guadagni indegni.

Fanghi rossi a Portovesme nel Sulcis

Nella sua lunga esistenza comunque un posto privilegiato ha sempre avuto la sua isola, la Sardegna, alla quale guardava con affetto ma pure con dolore per le scelte infelici, sia a livello locale sia del Parlamento nazionale; non si stancava di lamentarsi delle assurde decisioni diimpiantare industrie inquinanti in meravigliose aree sulla riva di una mare pulitissimo, oppure di lasciare che oasi di verde destinate al pascolo diventassero servitù militari della Nato e poligoni di tiro, come Perdasdefogu, La Maddalena, Teulada, Decimomannu, Tavolara. Ha sostenuto con vigore, facendosi sicuramente molte inimicizie, che tutto ciò conveniva e serviva a spopolare queste terre; è arrivata a utilizzare la parola “genocidio” per il suo popolo destinato all’emigrazione, alla fuga verso il continente, o sottoposto al controllo pesante dell’esercito all’epoca triste del banditismo, ennesima risposta spontanea ― seppure violenta ― a uno Stato assente e predatore. Le nude statistiche informano che fra il 1950 e il 1970 ben 350.000 persone hanno lasciato la Sardegna, seconda isola del Mediterraneo, che oggi conta un milione e 570 mila abitanti, a fronte dei 4 milioni e 800 mila della Sicilia.
Con la sua voce libera e critica Maria Giacobbe lascia un vuoto, alla pari di grandi autori e autrici del passato come Salvatore Satta, Giuseppe Dessì, Emilio Lussu, Grazia Deledda, ma ci consola il fatto che la letteratura sarda sia oggi molto viva e ricca di talenti, sulle orme di Giulio Angioni, Salvatore Mannuzzu, Sergio Atzeni: da Salvatore Niffoi a Marcello Fois, da Piergiorgio Pulixi a Milena Agus, da Francesco Abate a Flavio Soriga, da Bianca Pitzorno a Giorgio Todde, fino alla compianta Michela Murgia.

In copertina: Maria Giacobbe.

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Articolo di Laura Candiani

Ex insegnante di Materie letterarie, dal 2012 collabora con Toponomastica femminile di cui è referente per la provincia di Pistoia. Scrive articoli e biografie, cura mostre e pubblicazioni, interviene in convegni. È fra le autrici del volume Le Mille. I primati delle donne. Ha scritto due guide al femminile dedicate al suo territorio: una sul capoluogo, l’altra intitolata La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne.

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