La foto più famosa di Isabelle Eberhardt la ritrae vestita da marinaio: Isabelle ha quasi diciannove anni ma ne dimostra molti meno e, abbigliata in quel modo e con i capelli cortissimi, sembra un ragazzino piuttosto che una giovane donna. Giocherà con quest’apparenza ambigua per tutta la vita.
Ottenere quel vestito da marinaio, una vera divisa della marina francese, le era costato molta fatica ma, d’altro canto, non era la prima volta che Isabelle si vestiva da uomo, era solita, infatti, girare per le strade di Ginevra in abiti maschili, appositamente confezionati per lei da una sarta fedele, e con in testa un fez dal pon pon rosso. Avrebbe mantenuto una tale abitudine nelle sue peregrinazioni nei deserti dell’Algeria e della Tunisia dove, abbigliata come un nomade sulla sua giumenta, avrebbe acquisito definitivamente una identità maschile, con il nome di Mahmoud Saadi.
A cosa sono state costrette le donne, per poter essere padrone di sé stesse!

Isabelle Eberhardt ebbe una vita breve, morì nel 1904 a soli ventisette anni, ma avventurosa e difficile, segnata da lutti e da complessi rapporti familiari. La madre Nathalie Eberhardt era andata sposa, ancora giovanissima, a Pavel Karlovic de Moerder, generale dell’esercito dello zar Alessandro II e senatore, molto più anziano di lei, già vedovo e con tre figli, di cui la giovane sposa si prese cura con spontaneo affetto. Da questa unione, tutto sommato felice, nacquero ben altri sei figli, ma questa condizione di serenità e relativo benessere cambiò quando a Nathalie e a uno dei bambini venne consigliato dai medici di soggiornare in un clima più salubre. Dopo un lungo e faticoso viaggio la giovane donna, accompagnata dai figli più giovani e dal loro precettore, Aleksandr Nikolaevic Trofimovskij, si stabilì in Svizzera, dalle parti di Montreux, dove molti nobili russi ed europei si recavano per guarire dalle “malattie di petto”. Gli anni a seguire avrebbero cambiato completamente l’esistenza di Nathalie e dei suoi figli: nella primavera del 1873 muore in Russia, senza aver rivisto la moglie, Pavel Karlovic, già anziano; nel 1877 nasce a Ginevra Isabelle, registrata come illegittima ma, probabilmente, figlia del precettore Trofimovskij, impossibilitato a riconoscerla perché già sposato. Questa nascita condanna la nuova composita famiglia alla riprovazione sociale, all’esilio e ai controlli delle autorità elvetiche, preoccupate per la presenza di cittadini russi sospettati di spionaggio e terrorismo.
Isabelle cresce in una vecchia casa al centro di una vasta proprietà nei dintorni di Ginevra, isolata ed estranea al contesto sociale, senza poter frequentare una scuola, educata con i fratelli dal padre-precettore, amato e sopportato, imbevuto di idealità tolstojane, rigido e convinto del potere catartico della cultura, in perenne conflitto con i figli più grandi di Nathalie, che tenteranno di sottrarsi alla sua autorità con fughe rocambolesche e arruolandosi nella Legione Straniera.
Da un lato dunque Isabelle vive la condizione di apolide, senza radici, eternamente sospettata, all’interno di una famiglia tormentata e litigiosa, dall’altro può crescere in un ambiente culturalmente stimolante, ove è caldeggiato lo studio delle lingue – Isabelle parla il russo, il francese e il tedesco, studia il latino, il greco, il turco, ma soprattutto l’arabo – e sono permesse le più libere letture, saggi, romanzi, biografie, giornali. Nella casa silenziosa alle pendici del Giura, insieme all’amato fratello Augustin, compagno di esperienze e di bravate, motivo di cruccio e preoccupazione continua, nasce il desiderio del viaggio, della fuga ma soprattutto la fascinazione per l’Africa settentrionale, per i deserti e le dune. Ed è proprio per cercare di rintracciare l’imprevedibile Augustin, legionario in Algeria, che Isabelle e sua madre si recano a Bone, oggi Annaba, l’antica Ippona, dove Nathalie, esausta, al termine di una vita di fughe e rimpianti, morirà.
L’incontro con l’Algeria e il suo mondo, che era stato letto, sognato, immaginato grazie ai resoconti del fratello, segna in modo definitivo la vita di Isabelle che si immerge in una realtà totalmente altra, ne ammira la semplicità e la bellezza, e soprattutto impara a conoscere e apprezzare la religione islamica: superando il gusto innato per le sensazioni rare, per l’esotismo e il pittoresco, si avvicina a un universo di fede e di sapere che sembra dare ordine e misura alla sua interiorità, aiutarla a trovare le radici che non aveva mai avuto, a sottrarsi alla “spaventosa solitudine dell’incredulità” e forse anche a trovare un po’ di pace nella consapevolezza, tutta musulmana, del potere del destino, della necessità di abbandonarsi al mektoub, l’imperscrutabile volere di Allah.

In Silhouettes africane raccolta in Yasmina e altre novelle algerine, Isabelle esprime con chiarezza tutto il fascino che su di lei esercitavano le ore serene trascorse nella penombra delle moschee, il dolce invito alla pregherie del mueddin «che recita, in un modo antichissimo, le litanie dell’islam, e proclama a gran voce, nell’intenso bagliore rosso dorato del tramonto, la gloria dell’Eterno…», la rassegnazione tranquilla dei fedeli, dignitosamente avvolti nel loro burnus, e, come spesso le accade, parlando di sé al maschile, sintetizza la dolorosa ricerca delle radici negate: «Ero un vagabondo — poiché non ho mai avuto una patria… Ora, in questo Dar el-Islam, ho trovato la patria desiderata così tanto e così disperatamente… E l’ho amata», Yasmina e altre novelle algerine, pag.68.
Dopo la morte della madre, amatissima e compianta, si reca in Svizzera per assistere Trofimovskij, solo e anziano. Trascorsi alcuni mesi, quando anche il vecchio precettore scompare, Isabelle torna definitivamente in Africa, a Tunisi, nel Sahara algerino, nuovamente ad Annaba, nella regione di Orano, fino all’oasi El Oued: ancora giovanissima, appena ventiduenne, ormai definitivamente separata dal mondo che l’aveva vista crescere, lontana dall’Europa che le appare «convulsa e morbosa» inizia una vita di vagabondaggi solitari abbigliata da cavaliere arabo, presentandosi come un letterato tunisino, figlio adottivo del grande sceicco Haoussine.
Nei suoi viaggi non cerca l’Oriente esotico, delle ricchezze e degli harem, ma, povera tra i poveri, si avvicina alla semplice realtà degli ultimi, al silenzio e alla pace delle moschee, alle scuole coraniche, agli accampamenti delle tribù del deserto, non può contare su accompagnatori e portatori, è ben lontana dai racconti delle prime viaggiatrici, come Lydia Packov, che avevano nutrito le sue fantasticherie da adolescente.
Deve affrontare il sospetto delle autorità francesi che finiranno con l’espellerla dall’Algeria, ritenendola giustamente pericolosa: nei suoi scritti Isabelle mette in scena la stupida violenza dell’amministrazione coloniale, l’ingiustificato senso di superiorità, la pochezza di questi padroni che non sanno vedere la bellezza e la profondità di un popolo, che si sfiniscono nel ricordo della madrepatria, ciechi dinanzi al fascino di una natura estrema. Nel racconto L’ufficiale medico tratto dalla raccolta Il paradiso delle acque, il personaggio principale, Jacques, come Isabelle, sente il turbamento inebriante di un sole così splendente, della luce magica, del calore che addolcisce e fa languire, della calma, del silenzio e rifiuta di piegarsi alla logica dei suoi commilitoni che pretendono di spiegargli un mondo osservato solo attraverso la lente deformante del razzismo. Come la scrittrice, Jacques rivendica la propria diversità di pensiero e l’indipendenza delle proprie azioni, contro «questa intolleranza, questo proselitismo tirannico della mediocrità», Il paradiso delle acque, pag. 29.

Ma Isabelle deve affrontare anche il sospetto delle popolazioni arabe, che non ne capiscono le motivazioni e non approvano la sua totale libertà, che sono dubbiose riguardo la sua conversione all’Islam, che pure è sincera e duratura ma sa essere critica, soprattutto riguardo alla condizione femminile, e che le permette, anche da credente, di sottrarsi a dettami religiosi che non accetta e non comprende. Nelle novelle, Isabelle rappresenta con partecipazione la segregazione a cui sono costrette le donne, totalmente sottomesse al potere maschile, condannate all’emarginazione e alla prostituzione quando vengono ripudiate, ma nel contempo ne rappresenta anche la bellezza e quella passionalità, quel bisogno d’amore che aveva segnato profondamente anche la sua vita.
Nella novella Yasmina, la giovane protagonista è destinata al matrimonio con un vecchio cui si rassegna ma, imprevedibilmente, diviene l’amante di un giovane ufficiale francese che, dopo averla sedotta, la abbandona e la tradisce con una giovane donna europea, condannandola a essere sola e reietta: non vi è salvezza, non vi è difesa per chi insegue il desiderio e non si sottomette alle leggi del patriarcato. L’avventura terrena di Isabelle Eberhardt appare essa stessa come un romanzo, appassionata, romantica, ricca di colpi di scena, non meno imprevedibile sarà la sua morte, dovuta a un’inondazione improvvisa, in pieno Sahara, che la travolge con le acque torrenziali provenienti dai rilievi dell’Atlante nell’umile abitazione che aveva preso in affitto. La sua opera che, fino allora, era stata pubblicata in modo sporadico, viene raccolta e ricomposta nel 1906, dopo la sua morte,da Victor Barrucand, amicoe caporedattore della rivista Akhbar, dove erano già apparsi i reportage di Isabelle, il quale tuttavia struttura la nuova edizione in modo personale e poco rispettoso dei testi originali che vengono manipolati, censurati e sostanzialmente traditi.

Bisognerà attendere nuove edizioni critiche e l’istituzione di un fondo Isabelle Eberhardt, conservato negli Archives d’outre —mer di Aix en Provence, per potersi confrontare con il lavoro di questa giovane scrittrice.
Le pagine più belle di quest’opera varia e frammentata sono quelle dedicate alla natura impietosa e splendente del deserto: Isabelle descrive con una cura attenta e amorevole il mutare della luce sulle dune, nelle valli, sui muri calcinati e sgretolati delle case e dei monumenti, all’alba chiara e trasparente e al tramonto che tinge di rosa e di rosso, durante le notti serene. Il paesaggio, apparentemente monotono, rivela sua bellezza alla luce accecante del mezzogiorno, nell’estendersi fino all’orizzonte, interrotto dalle macchie scure delle oasi e degli orti e dall’ombra delle palme. Vi è in queste rappresentazioni un senso di magia, una partecipazione stupita e grata al mistero dell’esistenza, la riconoscenza per aver finalmente raggiunto una consapevolezza serena, sebbene al prezzo di lutti e abbandoni, per aver saputo trasformare il dolore dell’apolide, emarginato e senza radici, nella forza orgogliosa e libera della vagabonda solitaria: «Per chi conosce il valore, e il sapore delizioso della solitaria libertà (perché si è liberi soltanto quando si è soli), andarsene è l’atto più coraggioso e più bello», Scritti sulla sabbia, pag. 21.

In copertina: Ginevra, foto di Silvia de Maria.
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Articolo di Tiziana Concina

Ho insegnato per molti anni italiano e storia negli istituti tecnici e italiano e latino nei licei, mi interesso di letteratura femminile italiana e straniera, in particolare mi sono occupata di Elsa Morante e Anna Maria Ortese. Attualmente rivesto la carica di vicesindaca e di assessora alla cultura in un comune in provincia di Rieti.
