Parlare di trasporto pubblico ci sembra doveroso, in primo luogo in relazione alla crisi ambientale che stiamo vivendo. Basta guardare il report 2022 su trasporti e ambiente dell’Agenzia europea dell’ambiente per farsi un’idea di quanto i trasporti incidano sull’inquinamento: circa un quarto delle emissioni totali di gas serra, rappresentate per il 44% dai soli viaggi in macchina. Investire nella mobilità sostenibile, quindi, sarebbe un’arma potentissima nel combattere il riscaldamento globale. Ma non solo. Il trasporto pubblico gioca un ruolo fondamentale anche nell’accesso a istruzione, lavoro e tempo libero per le fasce più povere della popolazione. Tra queste fasce troviamo anche e soprattutto le donne — categoria in cui confluisce e si sovrappone un ampio ventaglio di identità diverse e rispettive diverse necessità — che, per di più, sono proprio le principali utenti dei mezzi pubblici. Stando all’Eurobarometro 2020, infatti, le donne utilizzano di più la bicicletta, si spostano di più a piedi e utilizzano di più i mezzi di trasporto pubblico rispetto alla loro controparte maschile: ne fa uso il 31% contro il 24%.
Se questo succede è per due motivi principali. In primo luogo, come mostra la stessa ricerca, mentre i due terzi degli uomini sceglie di utilizzare la macchina — sia che la possieda sia che la guidi — per i propri spostamenti quotidiani, solo il 59% delle donne si muove con questo mezzo, e molto spesso come passeggere. Non stupiscono, allora, i risultati ottenuti dalla ricerca dell’Eige nel 2020: le intervistate ritengono che il trasporto pubblico sia stato “molto importante” nel determinare sia la loro accessibilità allo studio — il 40% contro il 32% degli uomini – sia al lavoro — il 42% contro il 33%. In secondo luogo, le donne tendono a essere più attente all’impatto ambientale delle proprie abitudini e scelte quotidiane. Questa tendenza è stata definita eco gender gap ed è attestata da diverse ricerche condotte da agenzie di ricerche di mercato come Mintel e Nielsen.
Mobilità della cura su mezzi incuranti
Le differenze tra mobilità femminile e maschile non si limitano, però, alla sola scelta – più o meno condizionata — dei mezzi di trasporto.

Si presentano anche nelle modalità e nei motivi degli spostamenti. Mentre gli uomini compiono in media viaggi più lunghi e più omogenei, gli spostamenti delle donne seguono uno schema non lineare, composto da più viaggi, a raggio più breve, spesso realizzati utilizzando mezzi diversi. Questa peculiare modalità di spostamento è stata definita trip chaining, o, come ribattezzata dall’architetta Inés Sánchez de Madariaga, mobility of care, mobilità della cura. Definizione che non lascia spazio a fraintendimenti: la mole di lavoro di cura di cui sono ancora costrette a farsi carico nel nucleo familiare eteronormato, come sappiamo, si espande ben oltre il perimetro delle mura domestiche, tanto che, stando alla ricerca spagnola condotta nel 2019 dalla stessa architetta, questi lavori di cura rappresentano, contro un misero 9% della popolazione maschile intervistata, il motivo di ben il 40% degli spostamenti giornalieri femminili. Quindi, vista la dimensione della mobilità femminile nel trasporto pubblico, sarebbe sensato immaginare che mezzi e tratte siano stati disegnati pensando anche alle esigenze delle loro maggiori utenti. Invece, la struttura delle città e, conseguentemente, la mobilità sono state ricalcate dagli uomini sulle loro specifiche necessità, attraverso un disegno del trasporto pubblico che segue le loro modalità di spostamento, e che costa alle donne più soldi e più tempo. Vengono, infatti, privilegiati gli orari di punta e le tratte sviluppate lungo direttrici che vanno dalla periferia al centro. E questo gioca a tutto svantaggio delle utenti, le cui modalità di spostamento sono in media più circolari che radiali e, tendenzialmente, più lontane dagli orari di maggiore traffico.
Il servizio di trasporto pubblico, comunque, si rivela inadatto alle esigenze femminili anche per altri motivi. In primo luogo, nell’ambito della sicurezza: stando a una ricerca Istat del 2018, le donne vengono molestate in assoluto più di frequente proprio sui mezzi pubblici, nel 28% dei casi, e, a seguire, in strada, nel 16%. E per quanto riguarda le impiegate nel settore, ha dichiarato di esserne stata vittima ben l’82% delle intervistate della ricerca condotta dall’Organizzazione mondiale del lavoro nel 2017.
Parlando di donne trans e crossdresser donne, un’indagine condotta nel 2012 dall’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (Fra) ha dimostrato che le sole violenze perpetrate sui mezzi pubblici sono state le ultime subite nel 9% dei casi e le più gravi nel 7%.
Un’altra enorme problematica è rappresentata dall’accessibilità fisica ai mezzi: ascensori non funzionanti nelle stazioni, autobus non idonei alla salita di carrozzine e passeggini e insufficienza di indicazioni in Braille sono solo alcuni esempi. Secondo una ricerca Istat del 2013, dichiarava difficoltà di utilizzo dei mezzi di trasporto pubblici il 77,3% delle intervistate e degli intervistati con soli problemi alla vista, il 65,2% con soli problemi all’udito e l’88,3% di chi presentava entrambi i problemi.

Gender mainstreaming
Ampliare e migliorare il trasporto pubblico basandosi sulle necessità delle categorie più svantaggiate della popolazione farebbe, allora, un’enorme differenza. Ed è proprio su questi presupposti che alcune città dell’Ue hanno voluto rivoluzionarsi. Dal 2006 a Berlino è stato introdotto un Gender Check, che assicura vengano prese in considerazione le necessità di diverse categorie di utenti e che ha modificato la città con accorgimenti tanto semplici, quanto efficaci: l’istituzione di più fermate — in base alla densità di popolazione — e più direttamente accessibili, attraverso sia percorsi pedonali sia piste ciclabili, e una migliore accessibilità fisica ai mezzi per persone con disabilità.
Il cambiamento è stato all’insegna di semplicità ed efficienza anche a Malmö, in Svezia, dove è dal 2011 che si lavora per incentivare l’adozione di una mobilità più sostenibile. La semplice rimozione di cespugli e arbusti nelle vicinanze delle fermate, l’eliminazione delle entrate meno illuminate e l’istituzione di fermate a richiesta durante la notte hanno migliorato sensibilmente la vita di ogni utente. Uno degli aspetti più interessanti emersi dalle indagini condotte in proposito è stato il grande impegno necessario a convincere gli uomini perché adottassero comportamenti più simili a quelli femminili, andando a confermare il sopracitato fenomeno dell’eco gender gap.
Infine, a Vienna, che si interessa alla mobilità specificatamente femminile da più di trent’anni, sono stati ampliati i marciapiedi, soprattutto in prossimità di scuole e altre istituzioni pubbliche, introdotte più fermate, più panchine, più filari alberati e più semafori che privilegiano i pedoni, fungendo anche da deterrente alla mobilità su ruote. Nella capitale austriaca, però, non si è voluta modificare la sola mobilità, ma rivoluzionare l’intera città. Per farlo è stato adottato il cosiddetto gender mainstreaming: la pratica, cioè, di progettare, attuare, monitorare e valutare politiche e programmi, in tutti gli ambiti politici, economici e sociali in una prospettiva di genere. È, allora, stato istituito un ufficio di coordinamento composto da sole donne, il Frauenbüro, che si occupa di gestire e controllare che le procedure della progettazione urbana siano, come dal 2002, in linea anche con le necessità femminili. Questo è stato possibile grazie all’architetta Eva Kail, pioniera del gender mainstreaming in ambito urbanistico, che, partita da un solo condominio — il Women-Work-City — è poi passata a un intero quartiere, il Mariahilf, distretto centrale e densamente popolato divenuto progetto pilota per quella che viene ora definita una pink city.
Quello che auspichiamo, allora, è che ogni centro urbano prenda esempio dalla capitale austriaca. Sia per le donne, sia per l’ambiente, che ogni città diventi rosa!
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Articolo di Dana Moda

Studente di Editoria e scrittura e dottora in Mediazione culturale. Giovane e appassionata lettrice, nonché meticolosa scrittrice, crede nel potere delle parole e auspica una società della cura. Soccombe alle fusa delle sue gatte.
