Il cameriere stava prendendo l’ordinazione. Tutte le/ i commensali avevano deciso cosa avrebbero mangiato nel giro di pochi minuti; io, come d’abitudine, prendevo tempo per valutare le singole pietanze e scegliere quella più succulenta.
«Lei cosa prende signorina?»
Non ero ancora del tutto convinta ma comunque risposi: «Per me le fettuccine ai porcini, grazie».
Il cameriere, dopo uno sorriso di convenienza, sparì dietro l’angolo della sala. Si riprese a parlare. Sentivo il vociare ma non ascoltavo; le mie orecchie erano colme di quel “signorina”. Sbottai: «Ma è possibile che ancora si usi “signora” o “signorina” per rivolgersi a una donna? A me non va proprio giù che sia un anello al dito a qualificarmi. Come se poi fosse solo questo; vogliamo parlare della nenia del “sei diventata signorina” quando arrivano le prime mestruazioni? Quindi, la logica è che divento signorina nel momento in cui posso biologicamente diventare madre e poi mi innalzo allo stato di signora solo se un uomo mi nobilita sposandomi? Follia!»
«Tu sei proprio fissata co’ ste’ cose femministe!», fu la risposta di un commensale.
Rimasi di stucco. Forse a lui, che non era mai stato apostrofato come “signorino”, se non ironicamente o per rimprovero, la mia riflessione sembrava solamente una delle mie tante polemiche – così le definiva lui; per me erano solo legittime prese di coscienza. Mi rivolsi a lei, convinta di ricevere la sua approvazione.
«I ruoli sono importanti! Hai visto quante persone divorziano oggi? E lo sai perché? Perché ora le donne pretendono di fare gli uomini. Io non dico che non debbano lavorare; io lavoro e sono contenta di farlo, ma è naturale che poi mi debba fare carico anche del lavoro domestico: io sono una donna! E poi vogliamo parlare dei figli? I figli sono delle madri! Come gli sto appresso io, come lo curo e lo tutelo io, non lo fa nessun altro. Lui è un buon padre ma se il bambino ha bisogno, è naturale che venga da me», fu quanto disse lei.
Ero spiazzata. Da dove sarei dovuta partire? In quel buio di stereotipi e prigionia io non trovavo una via di uscita. Avrei potuto controbattere, replicare a ogni sua affermazione, ma non lo feci. Sentivo che le mie parole non sarebbero state ascoltate.
Le pietanze vennero servite. Loro e lei cominciarono a mangiare senza nessun turbamento, tra chiacchiere e risate. Io stavo in silenzio, fissa sul mio piatto, guardando quel cibo diventato indigesto. Le fettuccine sotto ai miei occhi assunsero la forma di un gomitolo di parole: tutte le più assurde che lei aveva appena pronunciato. Le leggevo chiaramente, colorate di toni accesi: naturale, donna, uomini, figli. Erano tutte lì, intrecciate tra fili che a me apparivano indistricabili.
«Mamma, mamma, mamma», quella voce infantile risuonò per la prima volta. Durante la nostra conversazione, indaffarato come era a giocare con le sue macchinine, non ci aveva degnato di nessuno sguardo o attenzione. Se ne era stato lì, al capo della tavola, mentre, come un suono lontano, la madre prospettava l’uomo che avrebbe dovuto essere.
Aveva un bisogno impellente.
«Giulio, ma possibile che chiami sempre me? Chiama tuo padre ogni tanto; non lo vedi che sto parlando?»
Giulio, come me, assunse una faccia dubbiosa. Le parole pronunciate pochi minuti prima si mostrarono per quello che erano:una gabbia.
La guardai e provai tenerezza. Mi domandai quanto fosse gravoso il peso che portava. Mi chiesi se riuscisse a respirare in quella minuscola prigione ereditata che lei aveva fatto propria, ammobiliata con vecchi arredi, evidentemente senza troppa convinzione. Pensai che ci si fosse ritrovata suo malgrado. La società, la cultura, la famiglia d’origine, l’avevano imprigionata prima che potesse sperimentare e capire che donna volesse essere.
Presi il bambino e lo portai al bagno. Per qualche minuto avrebbe potuto respirare.
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Articolo di Sveva Fattori

Diplomata al liceo linguistico sperimentale, dopo aver vissuto mesi in Spagna, ha proseguito gli studi laureandosi in Lettere moderne presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza con una tesi dal titolo La violenza contro le donne come lesione dei diritti umani. Attualmente frequenta, presso la stessa Università, il corso di laurea magistrale Gender studies, culture e politiche per i media e la comunicazione.
