Tai Chi, perché no?

La prima volta che lo vidi praticare pensai: facile! Ero stata invitata al corso da un’amica che lo esercitava da anni; me ne parlava spesso con un tale entusiasmo che mi incuriosì. Conoscevo qualcosa sia delle arti marziali asiatiche sia dei relativi ambiti culturali e filosofici. Avevo praticato Aikido e letto qualcosa sul Buddismo; così mi trovai a osservare un piccolo gruppo di donne, guidate dal maestro, che si muovevano in silenzio e con grande lentezza. Lo trovai poco impegnativo per le scarse energie che avevo in quel momento a disposizione e questo era un punto a favore. I movimenti affascinavano per la loro armonia, quasi fosse una danza; mi incuriosì proprio per essere diverso dalle altre arti marziali e ginnastiche che avevo praticato fino ad allora e, soprattutto, facile. Mai pensare cose simili del Tai Chi! I primi testi che parlano di questa arte marziale si ritrovano tra alcune documentazioni militari dell’Impero cinese: qui l’arte del combattimento aveva carattere formativo e puntava a rendere più abili e agili i soldati. Ancora oggi è un’arte marziale ma è considerata anche una disciplina per il benessere della persona dove l’applicazione delle mosse di combattimento favorisce pure l’equilibrio psicofisico, ma l’origine è quella. Ogni gesto richiama una parata o un colpo, uno schivare e un avanzare, rifacendosi ad alcuni princìpi del Taoismo: non forzare la natura delle cose e muoversi come l’acqua che si adatta a ciò che incontra, superandolo. All’inizio della pratica, queste informazioni non ti servono se non per non mollare: “fare la palla”, un gesto che nello stile Yang riassume la circolarità di tutti i movimenti, non sembra subito comprensibile e ti senti un po’ una palla che aspetta di entrare in azione. Passano diverse lezioni prima di intravedere il senso di quello che stai facendo e ogni volta l’idea, che ti fai, viene smontata, per provare a rimontarla in modo diverso: niente forza se spingi, niente rigidità dei muscoli se premi, niente resistenza. Accogliere e fluire, indietreggiare per avanzare, essere morbidi per tirar fuori la forza lo capisci con il tempo, con molto tempo. Inoltre, la codificazione di forme, ovvero di sequenze di movimenti, che ripeti e perfezioni nella tecnica, inizia ad affascinarti, a sentirti danzare nella meditazione. La concentrazione rimane sul respiro, che dà il tempo al fluire della vita; la mente si svuota e accoglie tutto ciò che si anima intorno, senza nulla trattenere. 
Piano piano si acquisisce una consapevolezza maggiore del proprio corpo, di come si muove, dei blocchi e delle apnee che inseriamo nel nostro dinamismo fisico; di pari passo la concentrazione mentale e la memoria migliorano. Alcuni studi, effettuati su piccoli gruppi, sembrano evidenziare risultati significativi sul metabolismo, la pressione sanguigna, la prevenzione delle cadute, la mobilità articolare e tendinea, il drenaggio linfatico, la modulazione del sistema immunitario. Insomma, il Tai Chi ammorbidisce ciò che è rigido. La cosa che più meraviglierà è che ti troverai a muoverti in cucina con gli stessi passi o nello stesso modo in cui lo pratichi: fai quel mezzo passo spostando il peso da una gamba all’altra, fai perno ora sulla punta ora sul tallone, ti allunghi mantenendo il baricentro. Ecco, quello è un momento in cui ti senti capace di giocare con il tuo corpo e con la vita. 
Ho solo sedici anni di pratica e tanto da scoprire, ma lentamente questa meditazione in movimento ha cambiato il modo di guardare al mio mondo, quello interiore. Non ho ancora abbracciato appieno il motto “rilassati e affidati all’universo” ma ci provo sempre più spesso. Si concilia al mio femminile e accoglie forza e debolezza senza aver bisogno di mostrarlo e dimostrarlo. Alcuni che lo praticano devono superare molti pregiudizi prima di appassionarsi. Non c’è da dimostrare la potenza dei muscoli, né la cattiveria con cui combattere; si può invece perseguire la ricerca dell’armonia con sé stessi. A livello culturale, si tramanda che, accanto al Tempio Shaolin dei monaci che praticavano le arti marziali, 1500 anni fa, sorse il monastero femminile di Buddismo Zen. Yong—Tai, che lo fondò, era una donna di grande forza fisica e mentale e insegnò alle monache il Wushu e il Tai Chi nella sua prima forma, con il messaggio di usare l’arte marziale non per aggredire ma per difendersi. La struttura feudale dell’Impero cinese non dette loro il giusto riconoscimento, considerando le donne deboli e incapaci di combattere; inoltre, il messaggio che partiva da questo monastero era il rispetto dell’avversario, l’uguaglianza di tutti gli esseri umani, l’armonia delle componenti femminili e maschili dell’universo. Nel tempo lo studio e la pratica del Tai Chi divenne privilegio assoluto di alcuni clan famigliari cinesi e poteva essere praticato solo dai suoi membri. Furono create forme e stili partendo proprio dai nomi delle famiglie: all’inizio lo stile Chen, poi lo Yang che attualmente è il più praticato in Occidente, lo stile Wu e via via altri. L’uso delle cosiddette armi si aggiunge alle diverse sequenze, dette forme, che oggi hanno un ordine di complessità crescente. Esteticamente sono molto eleganti, anche quando usi spada e ventaglio. Quest’ultimo era l’unico “accessorio difensivo” ammesso alla presenza dell’imperatore: ogni altra arma da taglio, bastone o asta non veniva accettata. Il guerriero portava con sé un ventaglio da guerra trasformato da strumento di cortesia ad arma micidiale perché “armato” con punte taglienti. Nella pratica la sua eleganza rimase, nonostante fosse usato per percuotere e tagliare. I movimenti sono dolci e potenti, morbidi e veloci allo stesso tempo. 
Fu proprio la bellezza dei movimenti di questa arte marziale della cultura cinese che incantò due donne occidentali. Negli anni Cinquanta, Sophia Delza, che aveva studiato danza e si esibiva come ballerina, accompagnò il marito a Shangai. Divenuta la prima istruttrice di danza moderna in Cina, conobbe il Tai Chi in stile Wu, lo imparò e, una volta tornata negli Stati Uniti, lo fece conoscere in un mondo molto lontano dall’Oriente, anche se in quel periodo vi era un’iniziale apertura delle comunità cinesi al mondo americano. Fu un’altra donna che lo diffuse nel Regno Unito. Gerda Pytt Geddes, norvegese, imparò il Tai Chi a Shangai e introdusse nel suo modo di danzare alcuni movimenti di questa disciplina. Dopo la Rivoluzione Culturale, Mao diede sviluppo alla conoscenza e alla codificazione del Tai Chi come arte marziale e pratica per il benessere per tutto il popolo, togliendo l’esclusiva alle famiglie storiche. Così anche in Occidente si definì come pratica sportiva all’interno del Wushu. Ma il Tai Chi senza Qi Gong non è completo: quest’ultima è una disciplina con esercizi per potenziare la propria energia interna attraverso il respiro e il movimento. Nella medicina tradizionale cinese, molti esercizi di Qi Gong sono curativi o a sostegno della terapia con una visione legata allo Yin e allo Yang. Tutto viene classificato in base a queste energie: dai cibi caldi e freddi, agli stati emotivi, ai movimenti, agli organi, alle stagioni… Ma l’armonia che si crea con un equilibrio non è mai statica e, muovendosi, deve ogni volta cercarne una nuova. 
In questi anni di pratica di Tai Chi e Qi Gong, ho avuto molte compagne di corso con cui condividerne gli effetti benefici e solo negli ultimi anni un po’ più di uomini. Al contrario, le grandi famiglie che in passato lo praticavano in Cina e che lo passavano, fino a un secolo fa, ai figli maschi, adesso hanno rappresentanti femminili di grande competenza. Al centro c’è la persona e, se tutto si cura con il movimento, anche i nodi emotivi interiori guariscono con gli esercizi fisici. E, allora, perché non provare?

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Articolo di Carla Cristini

Entrata in un’altra fase della vita, adesso si dedica a nuove attività dopo aver svolto la professione d’insegnante elementare seguendo progetti riguardanti la genitorialità, l’educazione alla legalità, la diversità di genere. Attualmente si dedica alla scrittura creativa, alla pratica del Taijiquan…

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