Sebbene non esistano correlazioni dirette tra grandi insediamenti urbani e tasso di criminalità, è innegabile che le politiche neoliberiste svuotando le città dei servizi essenziali per la comunità abbiano contribuito all’acuirsi delle disuguaglianze sociali. La penuria di trasporti pubblici, spazi sicuri per l’infanzia e assistenza a persone disabili o anziane spesso pesa principalmente sulle spalle delle donne come già notava Dolores Hayden nel suo saggio del 1980 What would a non-sexist city be like? Speculations on housing, urban design, and human work (https://www.jstor.org/stable/3173814?seq=1).
Indubbiamente la città resta uno spazio difficilmente percorribile dalle donne, la cui paura le spinge a evitare alcuni luoghi o a uscire dopo il tramonto rinunciando quindi anche a occasioni di socialità; come scriveva nel 1999 Hille Roskela (‘Gendered Exclusions’: Women’s Fear of Violence and Changing Relations to Space https://www.jstor.org/stable/491020) la paura delle donne non è un sentimento irrazionale ma è tangibile anche a livello spaziale e sociale.
La registrazione sonora Birdcalls (1972-1981) di Louise Lawler vuole esplorare proprio questa tematica. Il lavoro nasce da un’esperienza personale dell’artista: una sera del 1972 tornando a casa dopo aver allestito le opere di una mostra con l’amica e collega Martha Kite nell’area del porto di New York, all’epoca zona abbandonata e fatiscente, aveva notato che erano stati invitati a esporre solo uomini, la stessa categoria di persone che si sentirebbe al sicuro camminando per strada in tarda notte.
Per esorcizzare la paura e scoraggiare eventuali malintenzionati, lungo il percorso per tornare a casa Lawler e Kite pronunciano ad alta voce i principali nomi (tutti maschili) dell’arte contemporanea di quel momento; i nomi vengono storpiati, resi quasi irriconoscibili, spesso privati del cognome. Il suono così distorto ricorda il cinguettio degli uccelli, da cui deriva il titolo dell’opera, ma è anche un gioco di parole con il termine inglese catcalling che definisce le molestie verbali in strada.
Nel 1981 Lawler registra su disco quest’opera citando i nomi di ventisette artisti, riccamente rappresentati dalle più importanti gallerie del mondo e quotatissimi sul mercato, dimostrando come a distanza di circa dieci anni la situazione non era poi tanto cambiata. Durante la registrazione Lawler imita il verso di molte specie di uccelli diversi, in particolare il pappagallo che quasi diventa un alter ego dell’artista.


Il pappagallo è in grado, infatti, di riprodurre fedelmente i suoni e le voci intorno a lui e così agisce Louise Lawler, le cui opere più note sono fotografie di lavori di altri artisti all’interno di gallerie, musei ma anche appartamenti privati o alberghi, per evidenziare le criticità del mercato dell’arte che offre ancora spazio solo agli uomini.
Nel caso delle collezioni private, fotografando le opere allargando l’inquadratura anche al contesto che le accoglie, Lawler le ridimensiona a semplici elementi d’arredo; i grandi maestri dell’arte non sono visibili in uno spazio pubblico ma reclusi tra le mura domestiche, luogo solitamente riservato alla sfera femminile.
Curiosamente, tra l’altro, nella lingua italiana per definire le molestie verbali da strada si usa il termine “pappagallismo”.
Oggi Birdcalls viene allestita come installazione sonora, spesso in spazi aperti (attualmente è udibile sul tetto-giardino della Pinacoteca Agnelli a Torino), per confondere la voce di Louise Lawler con i veri suoni della natura ma anche per trasmettere la sensazione sottilmente angosciante di percepire dei richiami senza capirne la provenienza, la stessa che si prova camminando in strada di notte da sole.
A questo link si può ascoltare la registrazione integrale dell’opera allestita nel giardino botanico di Meise, poco lontano da Bruxelles, nel 2021. https://www.youtube.com/watch?v=PuRJoGVJtoI

L’ossessione per la sicurezza ha portato alla comparsa di numerosi dispositivi di sorveglianza, spesso più per tutelare attività commerciali o abitazioni private che l’incolumità fisica delle persone.
Le telecamere, ormai parte integrante del paesaggio urbano tanto che non ci accorgiamo più della loro presenza, a volte vengono dimenticate, la loro visuale viene coperta da vegetazione, oppure non riescono a mettere a fuoco perfettamente o alterano involontariamente i colori; in questo modo si creano immagini inutili per lo scopo a cui dovevano servire ma inaspettatamente poetiche che però spesso finiscono perdute perché questi occhi meccanici sono progettati per cancellare periodicamente ciò che hanno registrato. Irene Fenara hackera questi dispositivi e riesce a visualizzare da remoto le registrazioni, selezionando alcuni fotogrammi, salvandoli dall’oblio e stampandoli in vari formati e su supporti diversi come una comune fotografia.

Non occorrono particolari competenze informatiche, le telecamere a circuito chiuso sono fornite di codici di accesso predefiniti dalla casa di produzione sempre uguali; se chi possiede una telecamera del genere non ha l’accortezza di impostare una propria password chiunque può accedere facilmente alle registrazioni. Le immagini così ottenute, che l’artista raccoglie in serie sotto il nome di Supervision, mostrano quanto siano fallaci i dispositivi a cui affidiamo la nostra tranquillità e ci ricordano anche che in ogni momento potremmo essere spiati da occhi indiscreti, non tutti armati di buone intenzioni come Irene Fenara.
Talvolta l’artista decide di dialogare apertamente con le telecamere di sicurezza, le individua, ci si posiziona di fronte guardando l’obiettivo, realizzando così una serie di autoritratti in cui si riconosce la sua figura in piedi, con le mani in tasca, sempre vestita con un lungo cappotto nero (immagine di copertina e figura n. 5). Attraverso questi speciali autoritratti Fenara sovverte il rapporto tra occhio e oggetto dello sguardo, si riappropria della sua immagine “rubata” dalla telecamera, si ribella al sistema di controllo comandandolo a suo piacimento.

Un’altra artista che ribalta i rapporti della visione è Giosetta Fioroni: nel maggio del 1968 la sua Spia ottica inaugura il celebre Teatro delle mostre, una rassegna organizzata a Roma dalla galleria La Tartaruga di Plinio de Martiis il quale ogni sera per un mese permise ad artisti e artiste di sfruttare lo spazio espositivo a proprio piacimento. Giosetta Fioroni delimita una porzione della galleria e vi allestisce dentro una riproduzione fedele della sua camera da letto; chiusa all’interno della stanza l’attrice Giuliana Calandra fuma sigarette, sfoglia riviste sdraiata sul letto, si spoglia, si trucca, ripetendo queste azioni per tutta la sera. Il pubblico è relegato fuori, ma può sbirciare dall’altra parte attraverso uno spioncino.

Calandra interpreta l’alter ego di Giosetta Fioroni ed esegue delle precise indicazioni fornite dalla stessa artista, tra cui quella di muoversi molto lentamente per restituire un effetto straniante simile a quello delle lanterne magiche ottocentesche. Giosetta Fioroni invece osserva compiaciuta le reazioni, divertite o imbarazzate, del pubblico costretto ad assumere i panni di un voyeur frustrato in attesa che avvenga qualcosa dall’altra parte dello spioncino. Fioroni impone a chi entra in galleria di compiere in pubblico un’azione moralmente ripugnante che in genere avviene in un luogo appartato; è la donna che da oggetto passivo dello sguardo diventa regista dell’azione.
La violenza del guardare senza essere visti è anticipata anche nel manifesto realizzato per l’occasione, forato al centro per ricordare uno spioncino ma anche una ferita nella carne viva.


Per definire il voyeur nella lingua inglese si usa il termine Peeping Tom da cui deriva la parola peep show, ovvero delle piccole camere oscure portatili dentro la quale si potevano osservare delle immagini (anche a carattere erotico-pornografico) attraverso uno spioncino. Peeping Tom è il guardone della nota leggenda di Lady Godiva, la nobildonna inglese che, per convincere suo marito ad alleggerire il carico fiscale sulla popolazione, percorre la città di Coventry sul dorso di un cavallo completamente nuda. Per mantenere immacolata la sua reputazione, Lady Godiva aveva chiesto di non essere vista da nessuno durante il suo giro a cavallo ma Pepping Tom volle trasgredire e fu punito con la cecità. Nella storia dell’arte Lady Godiva è spesso rappresentata mentre cerca di coprire il suo corpo nudo con i lunghi capelli; è la sua vulnerabilità ciò che spinge Peeping Tom a spiarla. L’artista croata Vlasta Delimar nella sua performance Walk like Lady Godiva attraversa il centro di Zagabria a cavallo fiera e impettita; alla nobildonna inglese pudica contrappone un’immagine quasi aggressiva, con rossetto e smalto per unghie neri, che non lascia spazio a sguardi morbosi o giudicanti.
Per concludere ancora con le parole di Hille Roskela, se ci facciamo dominare dalla paura restando in casa non facciamo altro che lasciare la città in mano ai soli uomini, l’unica soluzione è occupare lo spazio che ci spetta di diritto rendendolo noi stesse più sicuro.


In copertina: Irene Fenara, Self Portrait from Surveillance Camera, 2018
Le immagini delle opere di Irene Fenara e Vlasta Delimar provengono dai loro siti personali:
https://www.irenefenara.com/
https://www.performer-delimar.hr/index.html
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Articolo di Cecilia Babolin

Studio storia dell’arte contemporanea ma mi interesso anche di museologia, femminismo e postcolonialismo. Dopo aver studiato a lungo l’arte sotto il regime fascista, mi sto dedicando al secondo Novecento, in particolare agli anni Sessanta e Settanta. Da poco ho cominciato a esplorare campi nuovi come l’architettura e il cinema sperimentale.
