Le statue femminili nel paesaggio urbano

Del caso milanese sulla statua di Vera Omodeo, Dal latte materno veniamo.
Non vi è quasi piazza nelle nostre città, che non abbia una statua al centro. Non alzi più nemmeno gli occhi: sai che è quella di un condottiero, di un poeta, forse di uno scienziato, comunque di un uomo. Da poco, ancora con stupore, puoi imbatterti in una figura femminile e ti chiedi quale mente illuminata abbia compiuto quella scelta: perché lo scenario delle nostre città sono ancora gli uomini a disegnarlo, così come sono stati gli uomini, per millenni, a raccontare la Storia.

A Milano, in questi giorni, la famiglia della scultrice Vera Omodeo ha offerto alla città una statua: è quella di una tenera madre che tiene sollevato, davanti a sé con entrambe le mani, un piccolo infante. Il volto è inclinato verso di lui, in una tensione di conoscenza e protezione, come fanno le madri. Il seno, fonte del nutrimento, è scoperto; la parte inferiore del corpo è avvolta in un drappeggio simile a quello di una dea greca… Lei è la dea mater, l’emblema della vita; del significato più profondo e universale dell’esistenza.
Dal latte materno veniamo, questo è il titolo dell’opera, banalizzato dai media in “donna che allatta”, definizione riduttiva e, per qualche aspetto, mortificante. “Venire dal latte materno” ha come significato primario quello di rappresentare la donna come origine della vita, come fonte di nutrimento non solo fisico.
Valutata l’opera anche dal punto di vista artistico e simbolico, il suo inserimento in uno spazio pubblico è stato sin dagli inizi fortemente sostenuto da autorevoli associazioni femministe, fra cui, tra le prime promotrici, le associazioni impegnate nell’empowerment femminile Toponomastica femminile e DonneinQuota.
È la madre che segna (che dovrebbe segnare) il perimetro esistenziale di ogni essere umano; ma, nel tempo, quel perimetro è stato disegnato dal patriarcato: ed è divenuto recinto di voluttà di potere, di sopraffazione, di violenza, di morte. Non sto parlando del genere maschile in senso lato: piuttosto di un sistema di potere caratterizzato dalla distruzione, piuttosto che dalla cura dell’altro, in cui l’archetipo del cacciatore che uccide la preda e se ne ciba non è ancora stato dimenticato.
Ma la Commissione del Comune di Milano, preposta a giudicare le opere destinate all’arredo urbanistico, ha rifiutato il marzo 2024 l’offerta della statua, con la seguente motivazione: «La Commissione esprime all’unanimità parere negativo, sia per la tipologia dell’opera proposta, sia per la posizione. Si suggerisce invece che l’opera venga proposta in donazione a un Istituto privato (ad es. un ospedale o un istituto religioso), all’interno del quale sia maggiormente valorizzato il tema della maternità, qui espresso con delle sfumature squisitamente religiose. Si è infatti discusso di come la scultura rappresenti valori certamente rispettabili ma non universalmente condivisibili da tutte le cittadine e i cittadini, tali da scoraggiarne l’inserimento nello spazio pubblico».
Chiudiamo allora la maternità in un luogo chiuso, oscuriamola perché non crei imbarazzo… È necessaria, a questo punto, una riflessione che dovrebbe spingerci a esigere che statue di donne siano collocate al centro delle piazze, alla pari delle statue equestri che le popolano da troppi secoli.
«Tipologia dell’opera proposta»: forse la tipologia non è la stessa della Pietà Vaticana di Michelangelo o della Madonna Sistina di Raffaello? Durante il Rinascimento l’innalzamento di statue aveva una misura sacra con un deciso significato morale ed educativo, sì che lo struggente realismo di Michelangelo o di Raffaello poteva essere interpretato come una sorta di ‘correlativo oggettivo’, in grado di attribuire a figure religiose o mitologiche i tratti di una umanità immediatamente riconoscibile, ma trasfigurata in una identità che trascendeva la natura umana ed era virtuosamente esemplare.
Nella statua di Vera Omodeo la figura femminile è una madre, una qualsiasi, una di noi, senza alcuna connotazione religiosa o ideologica; ma la lettura dell’opera è la stessa: immagine sacra, con un potente significato morale ed educativo. Educare a che cosa? A cambiare con fermezza e tempestività visione del mondo, e riportare questa povera umanità in balìa di folli assetati di potere, a una radice più naturale, certo più femminile. E non possono essere piccoli giardini, o ameni scorci urbani a rispondere a questo bisogno!
Benjamin (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica) sottolinea il “valore espositivo” dell’opera d’arte: non è più sufficiente che essa esista all’interno del rito. Le statue delle divinità o dei defunti potevano essere conservate in luoghi chiusi (la cella del tempio, la tomba); oggi no: essa deve essere vista, deve essere disponibile alla fruizione del pubblico, così come può esserlo una statua al centro di una piazza. La statua è un simulacro, un’opera che “raffigura in forma simile”, quindi uno strumento o, per usare un termine che appartiene al linguaggio moderno, un “dispositivo” che, seguendo la definizione di Giorgio Agamben (Che cos’è il contemporaneo e altri scritti), si può riassumere in tre punti:
a. è un insieme eterogeneo, che include virtualmente qualsiasi cosa, linguistico e non-linguistico allo stesso titolo: il dispositivo è la rete che si stabilisce tra questi elementi;
b. il dispositivo ha sempre una funzione strategica concreta e si iscrive sempre in una relazione di potere;
c. come tale, risulta dall’incrocio di relazioni di potere e di relazioni di sapere.
Il dispositivo è sempre iscritto in un gioco di potere e, insieme, sempre legato a dei limiti del sapere, che derivano da esso e, nella stessa misura, lo condizionano. Il dispositivo è appunto questo: un insieme di strategie di rapporti di forza che condizionano certi tipi di sapere e ne sono condizionati.
Dunque si tratta di relazione: la finalità della statua a figura umana è quella di testimoniare un legame tra due fisicità, l’umanità presente di chi guarda e l’umanità assente di chi è rappresentato. La statua è l’elemento più riconoscibile e diffuso per replicare l’essere di un corpo in sua assenza, per mostrarne il potere, per simularne la forza: e rimanda a una serie di significati che vanno al di là di ciò che rappresenta e che possono essere variamente estrapolati. Ogni statua, coi valori cui rimanda, ha un preciso valore educativo, come ricordavamo: e suscita in chi la guarda comportamenti e modi di pensare indirizzati in modo subliminale e porta alla formazione di una precisa visione del mondo. La presenza di una statua nel centro di una piazza non è mai indolore: il suo valore, che in teoria appartiene al momento in cui è stata forgiata ed eretta, in realtà permane nel presente. Ed è un presente belligerante, quello che adesso vogliamo? Non ne abbiamo abbastanza di violenza, di sopraffazione, di volontà di distruggere l’altro?
Credo che, con forza, dovremmo chiedere un cambio di paesaggio urbano, dove altri valori siano rappresentati e contribuiscano al cambiamento di weltanschauung e collocati in luoghi strategici e ben visibili.
La visione del mondo contenuta nella statua di Vera Omodeo, Dal latte materno veniamo, è quella che vorremmo dominasse nello scenario del nostro quotidiano: abbiamo tutti la stessa origine, e della stessa natura è il nostro nutrimento; per questo, è pura follìa che gruppi di uomini o individui si ritengano superiori, schiavizzino, uccidano i propri simili. La statua di Vera Omodeo, che sarebbe magnifico potesse sostituire la statua equestre di Vittorio Emanuele II in Piazza del Duomo a Milano, è emblema della possibilità per il sapiens sapiens di una possibile convivenza (e sopravvivenza) della specie, e simbolo potente di una spiritualità disinteressata, in un mondo dominato dall’avidità, dalla violenza, da un miope egoismo.

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Articolo di Giuliana Nuvoli

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Docente di Letteratura Italiana presso l’Università degli Studi di Milano. Autrice di oltre duecento pubblicazioni, ha dato vita a Dante a teatro e al sito Dante e il cinema. Organizza attività culturali e di formazione presso il Centro nazionale di Studi Manzoniani e la Casa della Cultura. È attiva da sempre su temi di genere e di diritti.

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