Perché viaggiamo?
È una domanda meno banale di quanto si potrebbe pensare di primo acchito. In genere la risposta è il piacere della scoperta, il fascino di vedere posti e persone nuove, stili di vita e culture diverse dalle nostre. A una analisi più profonda, tuttavia, la faccenda si complica: il bisogno costante di muoversi pare radicato nell’essere umano, anche chi non ha mai neanche sognato di spostarsi dal proprio luogo di residenza non riesce a resistere al fascino esercitato dai racconti di terre lontane.
Il tema del viaggio è uno di quegli archetipi comuni a tutte le culture: nell’epopea mesopotamica Gilgamesh l’omonimo eroe si imbarca in numerosi viaggi per poter rendere eterno il proprio nome e sconfiggere così la morte; l’Odissea è forse il racconto di viaggi più famoso della letteratura occidentale, e come Gilgamesh, Odisseo erra fino ai confini del mondo conosciuto, anche se non per sua volontà. Viaggi fantastici sono compiuti da Dante nella Commedia, dalle viscere dell’Inferno fino alle vette del Paradiso, e Ariosto nell’Orlando furioso fa andare il cavaliere Astolfo fin sulla Luna per recuperare il senno del suo compagno. Il peregrinare segna la vita di numerose figure sacre, da Gesù e i suoi apostoli che predicano prima in Palestina e poi in tutto il mondo; a Muhammad e i suoi seguaci, vittime di un esilio forzato, che si allontanano dalla loro Mecca per conquistare nuovi territori e portarvi la parola di Allah, passando per i viaggi di Siddhartha Guatama nell’India orientale. E ancora: Erodoto, che racconta di quanto vede nei suoi spostamenti nelle Storie; Pitea, il primo greco a spingersi nel nord Europa e a descrivere fenomeni come l’aurora boreale e il sole di mezzanotte; Marco Polo, che viaggia a piedi fino in Cina attraversando la Via della Seta, riportando le sue avventure nel celebre Il Milione; Ibn Battuta, considerato uno dei più grandi viaggiatori della storia, che percorse il continente asiatico e parti dell’Africa; i grandi esploratori e colonizzatori del Cinquecento e del Seicento, dal missionario Matteo Ricci a Magellano, il cui equipaggio fece la prima circumnavigazione del mondo; da Willem Janszoon, che “scoprì” l’Australia, a James Cook; dai protagonisti del Grand Tour, i viaggi di formazione affrontati dall’élite europea a scopo culturale, alle conquiste militari e coloniali dell’Ottocento e del Novecento, fino ad arrivare al recente fenomeno del turismo
di massa.

Che sia reale o immaginario, il viaggio ci accompagna sin dalle origini, quando i nostri antenati lasciarono il continente africano e si diffusero in tutto il mondo, diventando la specie dominante in quasi tutti i climi e ambienti. Insomma, non siamo capaci di star fermi in un unico posto e se non possiamo muoverci fisicamente usiamo allora la fantasia. L’umano è sempre stato un animale migratorio: l’essere stanziale è un fenomeno relativamente recente della nostra storia, e la convenienza che ne deriva non ha comunque impedito a migliaia di persone di abbandonare le loro radici per esplorare un luogo ignoto, a prescindere dalla ragione per cui intraprendano il viaggio.
Questa voglia di conoscere, tuttavia, spesso si scontra con la nostra istintuale avversione per l’alterità: siamo sì animali curiosi ma non amiamo il cambiamento, il nuovo. «Dal polo sud all’estremo nord, lungo tutta la scacchiera di meridiani e paralleli del geoide Terra, nessuno è esente dal trattare l’Altro o dal concepire il diverso così com’è: uno Straniero che parla una lingua incomprensibile, fa cose bizzarre, mangia cibi pazzeschi e desta sempre, in tutti, un irresistibile sentimento misto di curiosità e diffidenza.» dice Brunella Bonetti, antropologa culturale presso l’università di Parigi 7 Diderot. L’Altro è un qualcosa da tenere se possibile lontano. Eppure, è solo attraverso il diverso che possiamo conoscerci, ed è forse qui la chiave per comprendere l’attrattiva del viaggio: non viene spesso detto che è solo visitando altri luoghi che possiamo realmente comprendere noi stessi e noi stesse? Quelle diversità che tanto fanno paura, perché fanno comprendere quanto si è realmente piccole/i rispetto alla vastità e varietà del mondo, non sembrano più così importanti quando si interagisce con l’alterità, quando si comprende che si possono creare rapporti e relazioni nonostante i muri creati dalla cultura e dalla società. Viaggiare implica sempre il conoscere e il conoscersi; non possono essere scissi. E se alcuni e alcune temono l’esplorarsi dentro, altri e altre lo anelano, un desiderio abbastanza forte da spingere loro ad abbandonare il luogo d’origine anche qualora non ci sia possibilità di ritorno.
Torniamo quindi alla domanda iniziale: perché viaggiamo? Perché è l’unico modo per capire realmente chi siamo, perché ci mette di fronte quanto diverso sia il mondo e piccola e misera la nostra prospettiva, ci forza a vedere il punto di vista dell’Altro, ad adattarci a nuove situazioni. Questo era vero per l’antichità ed è vero oggi, tempi in cui viaggiare non è più un’esclusiva delle élite o una forzatura dettata da fattori più grandi.
Eppure, nonostante oggi spostarsi non sia mai stato così facile, mai come ora siamo chiusi nei nostri preconcetti. Tra i paradossi della contemporaneità c’è anche questo: il viaggio non è più lo scardinamento della nostra visione del mondo, ma una sua conferma. Il fenomeno del turismo ha reso possibile il movimento anche a chi non ha a disposizione grosse somme ma pone una barriera all’interazione con l’Altro, sia perché in genere sostiamo poco tempo in un luogo, sia perché non c’è interesse a comunicare con le persone locali: si viaggia per mostrare al mondo dei social media che ce lo si può permettere, non per mettere alla prova le proprie convinzioni – anzi, pare ci sia sempre più fastidio all’idea di concepire il viaggio al di fuori del semplice svago (a tal proposito si consiglia la lettura di Filosofia di viaggio di Franco Riva). Non si fa certo la morale, ognuno ha i propri motivi per viaggiare ed è anzi solo un bene che al giorno d’oggi sempre più persone abbiano modo di farlo senza doversi indebitare; e tuttavia non si può fare a meno di avere la sensazione che si stia perdendo una preziosa opportunità. Nell’epoca della comunicazione istantanea mai è apparso più chiaro quanto siamo in realtà soli; similmente nell’epoca del low cost mai siamo stati meno invogliate/i a conoscere l’Altro.

del mondo in bicicletta
Come si pone la donna in tutto questo? Per lungo tempo viaggiare è stato un affare prettamente maschile: andare in giro da sola per una donna era considerato sconveniente in molte culture, figurarsi l’andare in giro per il mondo.
Ci sono ovviamente le eccezioni, numerose abbiamo imparato a conoscerle anche su Vitamine vaganti, dalle viaggiatrici del Grand Tour e quelle del Grande Nord al crescente fenomeno del turismo femminile, per non parlare dei numerosi casi di donne che si sono vestite da uomo per potersi muovere indisturbate.
Lucie Azema in Donne in viaggio. Storie e itinerari di emancipazione, nota: «Il patriarcato ha, in effetti, operato a valle (rendendo le loro storie invisibili), ma anche a monte, rendendo sfavorevoli, a livello materiale, le condizioni di accesso al viaggio. […]
Rendendo invisibili per secoli il loro vissuto, la letteratura di viaggio cosiddetta “classica” ha creato un vero e proprio angolo morto nel racconto del mondo».

Oggi viaggiare per le donne è molto più semplice: possono guadagnare soldi per sé e metterli da parte per un’esperienza che non è più proibitiva dal punto di vista economico e sociale; internet ha permesso di organizzarsi e rendere gli spostamenti più sicuri, condividendo itinerari da seguire e luoghi da evitare; l’uso di lingue franche come l’inglese e il francese, per quanto sia un fenomeno con le sue problematicità, rende più facile comunicare tra viaggiatrici e con i locali dei luoghi che si visita. Certo, lo stigma è sempre presente: viaggiare è più pericoloso se si è donna e si è da sole, e non tutti o tutte vedono di buon occhio le viaggiatrici, trovando sconveniente che non siano accompagnate da una qualche figura maschile che le possa proteggere o garantire per loro ― lo abbiamo visto nel caso di Katharina von Arx e di Erika Fatland; sempre in Donne in viaggio, poi, Azema fa notare la grande differenza che intercorre tra termini come avventuriere e la loro declinazione al femminile: questi ultimi hanno nell’immaginario comune un significato assai meno nobile di quello maschile e che in parte persistono ancora oggi.
La storia è sicuramente piena di donne che hanno viaggiato ma che non hanno avuto la possibilità di lasciare ai posteri la loro esperienza; oggi, grazie al web e a una maggiore libertà e consapevolezza, anche le donne possono lasciarsi guidare da quell’istinto per la scoperta dell’ignoto che è in loro in quanto esseri umani, e lasciarne una traccia indelebile per i posteri.

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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.
