La figura di Cristina Trivulzio di Belgiojoso è ben conosciuta. Nata nel 1808, da una delle più nobili famiglie lombarde, fu una donna libera e indipendente, capace di scelte assai coraggiose e lontane dalla morale corrente. Tradita dopo pochi anni di matrimonio dal marito, il principe Emilio Barbiano di Belgiojoso, che le aveva trasmesso la sifilide, volle separarsi formalmente, generando nella buona società milanese infiniti pettegolezzi e riprovazione, ma dando prova di dignità e consapevolezza di sé.
Combattè contro il dominio austriaco e per l’indipendenza italiana, giunse ad arruolare a proprie spese un battaglione di circa 200 uomini, impegnati nell’insurrezione di Milano durante i moti del ‘48, partecipò attivamente alla difesa della Repubblica Romana, organizzando il coordinamento dei soccorsi ai feriti. Fu giornalista, saggista e romanziera, fondò case editrici e durante il suo esilio parigino diede vita a un salotto che fu frequentato dalle personalità più in vista del periodo.
Si impegnò attivamente per migliorare le condizioni economiche e sociali dei lavoratori assunti presso la sua tenuta di Locate e per caldeggiare la nascita di un movimento in favore dei diritti delle donne. Dovette pagare di persona tanta coraggiosa indipendenza di pensiero e di azione e, sebbene fosse molto ricca, fu costretta ad affrontare periodi di ristrettezze quando si vide sequestrato il proprio patrimonio dal governo austriaco
che la tenne sempre sotto stretto controllo, costringendola a lunghi periodi di
esilio dall’Italia.

Ritratto di Cristina Trivulzio di Belgiojoso, 1832 circa
Ben noto è pure il ritratto che della principessa fece Francesco Hayez nel 1832. Cristina, ventiquattrenne, ci appare in un abito scuro da cui emerge il biancore dell’incarnato, in una posizione di apparente modestia contraddetta
dallo sguardo, acuto e franco, rivolto all’osservatore.
Accanto alla giovane donna vi è un busto in marmo che rappresenta sua madre, committente dell’opera, Vittoria Gherardini, in dialogo con la figlia esule
e dunque lontana.
Meno conosciuta è forse la propensione di Cristina per il viaggio. Molti dei suoi spostamenti furono dettati dalla necessità di sottrarsi al controllo del governo austriaco che le impose di muoversi attraverso la Penisola e di riparare in Svizzera, a Lugano e Ginevra, e poi in Francia, a Nizza, Marsiglia e, finalmente, a Parigi. Ma il viaggio più significativo nacque da ben diverse motivazioni. Sconfitta la Repubblica Romana, Cristina dovette allontanarsi dall’Italia ma, invece di scegliere nuovamente riparo nella conosciuta e amata Parigi, decise di salpare per Malta con Maria, la figlia decenne, e Miss. Parker, fidata bambinaia. Da Malta l’esule si spostò a Costantinopoli e infine approdò in una piccola proprietà non lontano da Ankara che, nei progetti, avrebbe dovuto diventare un rifugio per i fuoriusciti italiani e una azienda agricola in grado di dare tranquillità economica a Cristina stessa e alla figlia. Le cose tuttavia andarono diversamente.
Nel 1852, poiché la piccola Maria non aveva ancora ricevuto la prima comunione, la principessa organizza un viaggio fino a Gerusalemme, dove la ragazza potrà comunicarsi durante la settimana santa, allestisce dunque una sorta di carovana di quasi venti persone che viaggeranno a cavallo per circa undici mesi, attraversando l’attuale Turchia, la Siria, Israele e parte della Giordania. Da questa avventura, faticosa e coinvolgente, nasceranno numerosi articoli in francese, dapprima pubblicati sulla Revue des deux mondes, in seguito raccolti in volume nel 1855 con il titolo La vie intime et la vie nomade en Orient e poi, nel 1858, pubblicati con il titolo Asie Mineure et Syrie. Souvenirs de voyages con l’aggiunta dei testi dedicati al percorso di ritorno da Gerusalemme.
Nel suo racconto Cristina vuole innanzi tutto rappresentare il mondo che ha incontrato con la massima franchezza, lontana dal velo di mistero e di favola che ancora avvolgeva l’Oriente agli occhi degli occidentali. Lombarda e di salda formazione illuminista – fu amica di Giulia Beccaria – la principessa non soggiace all’infatuazione romantica per l’esotico e l’oscuro, osserva invece con attenzione le condizioni di vita, gli ambienti, le abitudini, le credenze, ciò che si alleva e si produce. Si interessa alla gestione di alcune miniere di piombo e pone domande talmente puntuali che né il proprietario né il suo intendente sono in grado di rispondere. Con acume e dispiacere nota che l’importazione di stoffe occidentali, a basso costo, distruggerà la produzione delle manifatture di Aleppo, destinate dunque a scomparire.
Il suo desiderio di chiarezza la spinge a infrangere i luoghi comuni e gli stereotipi e a render conto della complessità delle società che incontra e dei diversi atteggiamenti. Ad esempio, riguardo alla famosa ospitalità orientale, tema affrontato più volte e analizzato con attenzione, se in alcuni casi apprezza la sincerità e la prontezza nell’offrire, che arriva a mettere a disposizione dell’ospite beni e denaro, tanto che Cristina stessa per proseguire il viaggio deve ricorrere a una tale generosità, in altri casi le appare evidente che l’offerta è solo apparentemente gratuita e mira invece a far pagare con gli interessi quanto proposto.
Naturalmente il punto di vista dell’autrice ne rispecchia la formazione e l’estrazione sociale: la fede cristiana viene spesso contrapposta all’Islam, che pure Cristina conosce e per certi versi apprezza, alcune abitudini e tradizioni locali le appaiono incomprensibili, irride superstizioni e credenze che considera sciocchezze ingenue, come quando le viene raccontato che la malattia di una fanciulla, giunta a lei per essere guarita, ha origine dall’incontro con un gatto nero.
Ciò nonostante non vi è nella narratrice alcun preconcetto nei confronti del mondo che va esplorando, ma piuttosto una curiosità partecipe che la spinge all’incontro e alla scoperta. Cristina avvicina con il medesimo entusiasmo autorità locali, che la alloggiano riccamente nelle proprie stanze, nomadi turkmeni, nelle cui tende si intrattiene, e poveri contadini. Osserva con interesse i comportamenti dei suoi ospiti, a cui è sempre grata, e coglie con sottile ironia ciò che per lei sono stranezze, ma è pronta a riconoscere la bellezza dei costumi, come quando incontra uno stuolo di fanciulle intente a prendere acqua, o la dolcezza di certi comportamenti lontani dalle asprezze europee, come quando sottolinea con quanta gentilezza gli orientali trattano i loro animali che, forse per questo, appaiono sempre miti e sottomessi.
Non si sottrae alle novità: è pronta a fumare hashish, spinta dai racconti che ne magnificano gli effetti, finendo con il lagnarsi dei modesti risultati ottenuti. Accoglie in una delle sue dimore temporanee, con grande accorrere di pubblico, un famoso spettacolo di danza, sostiene le danzatrici, in là con l’età, con offerte di tabacco e acquavite, ma non può fare a meno di osservare quale distanza vi sia tra ciò che si considera attraente nella sua patria lontana e quanto piace in queste società. Accetta di buon grado l’offerta di un abito da cerimonia in stile orientale quando, invitata a un ricco matrimonio ad Aleppo, si rende conto di non avere nel suo bagaglio nulla di
adatto alla situazione.
Il percorso si rivela molto faticoso, Cristina insiste perché ci si muova a cavallo, rifiutando di essere trasportata in una sorta di portantina a cui farà ricorso solo in una occasione, pentendosene immediatamente. L’amore per gli animali spinge la principessa ad annotarne spesso i comportamenti, siamo così informati della stoica resistenza mostrata dal bel mastino che la accompagna e che, pur ferito, segue zoppicando la carovana fin quasi a morirne e non mancano commenti soddisfatti sulla agilità e determinazione del cavallo bianco che monta, coraggioso e impavido quanto
la sua padrona.
Nei primi mesi i viaggiatori sono costretti ad affrontare i rigori dell’inverno, in seguito dovranno attraversare zone desertiche in estate, soffrendo la sete e il dardeggiare del sole. Per limitare il disagio la carovana parte alle prime luci dell’alba, sostando nelle ore più calde, queste pause consentiranno a Cristina di godere del paesaggio e di osservarlo, per poterlo descrivere con precisione: sono moltissime le pagine dedicate a delineare la varietà degli ambienti naturali che la principessa va incontrando, colpita dal mutare improvviso degli scenari e dall’alternarsi di luoghi aridi, pietrosi e di spazi verdeggianti, ricchi di frutti.
L’idea stessa di iniziare un’avventura così lunga e impegnativa è di per sé prova di coraggio. Cristina è consapevole che chi viaggia non può essere pavida e non deve preoccuparsi oltre misura di ciò che l’aspetta, sa di dover accettare disagi e imprevisti, usa dunque tutta la sua pazienza e la sua ironia quando si trova a dover dormire in ambienti sporchi e malsani, infestati da pulci, o quando riceve nella notte la visita dei polli del padrone di casa, che entrano dai buchi nella parete, quando, in compagnia della figlia, deve restare a digiuno, dopo aver perduto i portatori, e quando, per il caldo insopportabile, si costruisce un piccolo riparo di pietre che le frana rovinosamente addosso. Si adatta con facilità a dormire nella sua tenda o, addirittura, all’aperto
nelle calde notti orientali, preferendo una tale libertà agli spazi chiusi e
soffocanti degli harem.
Ciò che colpisce maggiormente è la risolutezza con cui Cristina reagisce dinanzi agli ostacoli e, qualche volta, alle provocazioni o i tentati soprusi di cui è oggetto. Si mostra capace di resistere alle richieste di un avido ufficiale e, davanti alla mala parata, sottoscrive una cambiale che fa subito in modo di non onorare. Rifiuta di sottostare alle minacce di un giovane che vuol veder pagati anticipatamente i suoi servizi, rivelando lo spirito battagliero che l’aveva spinta alla lotta in patria. Declina, ogni volta che è possibile, la proposta di essere accompagnata da una scorta, ben sapendo che la presenza di soldati non sempre garantisce sicurezza. Quando, dopo aver somministrato un emetico a un giovane vittima di un’indigestione, il fratello tenta di impedire la partenza della carovana fino alla guarigione del malato, la principessa reagisce con sicura determinazione. Insomma, sebbene a volte Cristina, forse pagando uno scotto alle convinzioni del suo secolo, affermi la superiorità naturale dell’uomo sulla donna, non sembra nei fatti accettare tale primato.

Ritratto di Cristina Trivulzio di Belgiojoso, 1843
Tuttavia Cristina è ben consapevole dei rischi che l’attendono: al momento di lasciare Adana e di affrontare il territorio montuoso del Giaour Dagh, nel sud della Cilicia, infestato da briganti, leggendo inquietudine sul viso dei suoi ospiti, per la prima volta ha paura e teme, non tanto per la propria esistenza, ma per quella della figlia, che forse sarà messa in pericolo dalle sue decisioni avventate. Proprio alla partenza da Adana, dove ha trascorso giorni sereni e acquisito nuovi amici, la scrittrice dedica pagine commosse: alla felice libertà del movimento, che apre nuovi scenari senza la costrizione delle radici, contrappone la nostalgia e il rimpianto di chi, lasciando luoghi familiari, si avvia verso l’ignoto.
Nella sua osservazione delle società turche e arabe, la viaggiatrice torna ripetutamente su di un tema che sembra interessarle particolarmente, il sistema di segregazione femminile nell’harem che, in quanto donna, ha l’opportunità di visitare anche senza la presenza e lo sguardo occhiuto del padrone di casa e che, con l’abituale schiettezza, descrive senza concedere nulla a certo immaginario da Mille e una notte.
In primo luogo Cristina osserva che l’istituzione dell’harem «designa un’entità complessa e multiforme» il cui andamento dipende soprattutto dalla condizione sociale, sottolineando che forse l’unico ménage che assomiglia a un matrimonio europeo è quello del contadino povero, il quale proprio per la sua indigenza non può permettersi più di una moglie e non la può segregare, avendo bisogno del suo lavoro.
Il primo impatto con l’harem fa sorgere in Cristina un sentimento di repulsione: la viaggiatrice aristocratica guarda con sconcerto gli ambienti poco puliti, bui e afosi, in cui vivono le donne della famiglia, siano esse mogli, sorelle, figlie, schiave o ospiti, così come il loro abbigliamento, il trucco e le abitudini di igiene. La colpisce soprattutto la mancanza di un legame di cura e tenerezza tra le madri e i figli/e, sopportate e, spesso, utilizzate come strumento di potere nei confronti dell’uomo e delle altre mogli. In questa piccola società reclusa regna la noia, l’ignoranza, il servilismo, l’ipocrisia, il desiderio di vendetta.
Ciò che maggiormente colpisce la viaggiatrice è il gioco dei ruoli tra il marito e le mogli: alle donne è imposta la sottomissione, la loro funzione è garantire la prole, ad esse non si richiede forza d’animo, consapevolezza, determinazione, ed esse giocano la loro parte in commedia, mostrando timidezza, riserbo, ubbidienza dinanzi al marito, per svelare il loro vero volto e la loro personalità una volta sole con l’ospite europea.
Cristina dunque osserva con attenzione e disincanto queste donne che l’abitudine a essere prive di responsabilità, in perenne competizione, estranee a ogni vera decisione sulla loro vita le ha rese capricciose, pigre, ipocrite. Ma comprende molto bene come tutto ciò sia il prodotto di un sistema culturale: «Avete voluto che vostra moglie fosse sottomessa come una schiava: che cosa può essere se non una schiava?»
L’autrice più volte sottolinea come la causa di un tale sistema non riposi in una naturale brutalità degli uomini turchi, che invece sono dotati di un carattere gentile e si mostrano, soprattutto quando appartengono alle classi basse, più tranquilli e controllati degli europei, ma piuttosto in un orizzonte religioso e culturale che si tramanda, reso forte dal rispetto per gli usi e le tradizioni. Cristina guarda con partecipazione al destino di queste mogli che, anche quando hanno per marito un uomo colto e generoso come il pacha di Konia, sono totalmente estranee a ogni esperienza del mondo, sottoposte a un’unica volontà.

Ma nella narrazione appare continuamente evidente, anche se non esplicitato, il divario che allontana queste donne, per quanto appartenenti a famiglie altolocate, dalla nostra viaggiatrice coraggiosa, a volte temeraria, capace di prendere decisioni in totale autonomia. Le separa non tanto una condizione sociale, sono persone privilegiate in entrambi i casi, quanto l’educazione, il riconoscimento del proprio ruolo nella società, la libertà di movimento, sebbene vada ricordato che Cristina di Belgiojoso ha costituito una eccezione anche nel mondo occidentale, grazie a una posizione sociale di primissimo piano, ma soprattutto in forza di una educazione raffinata e di un carattere estraneo a ogni pavidità. E tuttavia leggendo le sue parole si impone una riflessione su quanto le pretese maschili abbiano limitato l’orizzonte femminile anche in occidente, ogni volta che alle donne è stato chiesto di essere fragili e accondiscendenti, ogni volta che a esse è stato impedito di istruirsi, di caricarsi di responsabilità, di scegliere.
Dopo undici lunghi mesi la nostra viaggiatrice torna nel luogo da cui era partita, non, come desidererebbe, nella patria lontana da cui è stata esiliata, ma in una terra che può chiamare casa e con orgoglio afferma: «Riportavo indietro quello che mi era caro; io stessa non ero stata vinta né dalle privazioni né dalle fatiche e mi sentivo forte
dei miei ricordi».
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Articolo di Tiziana Concina

Ho insegnato per molti anni italiano e storia negli istituti tecnici e italiano e latino nei licei, mi interesso di letteratura femminile italiana e straniera, in particolare mi sono occupata di Elsa Morante e Anna Maria Ortese. Attualmente rivesto la carica di vicesindaca e di assessora alla cultura in un comune in provincia di Rieti.
