Femminismo/femminismi. Memorie di una femminista della seconda ondata

Sono stata – lo confesso – una femminista della seconda ondata. E sono stata – confesso sommessamente – una femminista della differenza, ben prima di avere contezza della definizione (e già vedo sopraccigli alzati, e sento riprovazioni severe, e forse anche odoro carne bruciata…).
Erano gli anni Settanta, lo ricordo bene, la prima eco sonora è del 1972: «Tremate, tremate, le streghe son tornate», quell’8 marzo, in Campo dei Fiori, a Roma («qui ove il rogo arse»), ai piedi della statua di Giordano Bruno, il filosofo «d’ogni fede nemico e d’ogni legge» che, anni più tardi, avrei amato al pari di tutti i liberi pensatori del ‘mio’ Seicento.

Ida Rentoul Outhwaite, illustrazione per The Red Witch, 1919

Più che il femminismo – confesso anche questo – mi attrasse allora il richiamo alla stregoneria femminile: avrei compiuto quattordici anni di lì a pochi giorni, strega e sirena erano i modelli di donna che già avevo scelto per istinto e passione, creature belle e libere (come la giovane strega disegnata dall’illustratrice Ida Rentoul Outhwaite, come l’agile sirena concepita dal grande Oscar Wilde), anche se, a dire il vero, complici le letture trasmesse da papà, sognavo di attraversare al volo, in abiti maschili e per mezzo di una robusta gomena, il ponte di un vascello della filibusta in navigazione nel mar dei Caraibi (ah, il Corsaro Nero…).

Clara Miller Burd, illustrazione per The fisherman and his soul di Oscar Wilde, 1913

«Tremate, tremate, le streghe son tornate» scandivano dunque le femministe della seconda ondata nel 1972; e avrei scandito io pure di lì a pochi anni – studente liceale prima, universitaria poi – consapevole dell’importanza della campagna a favore del divorzio e ancor più di quella a favore dell’aborto (ricordo bene i referendum abrogativi del 1974 e del 1981), dell’urgenza di affermare e conquistare pari opportunità e pari diritti. Eravamo allegre e colorate, capelli sciolti e sabot, gonnone e scialletti, anche questo ricordo bene, e non era soltanto apparenza: rivendicavamo una filiazione ribelle e maledetta, serbavamo memoria delle donne uccise perché non conformi alla modestia e alla remissività, come voleva la società del loro tempo (e del nostro), dichiaravamo il diritto di essere libere di decidere di noi stesse. Agivamo con convinzione la capacità di essere insieme pur con idee e pensieri differenti (così mi pareva allora), per il fine alto di essere più forti, singolarmente e collettivamente, per cambiare il mondo, per un mondo migliore.

Daniela Piegai, Cortona, gennaio 2023. Foto di Camilla Frattini

Una tensione che ho ritrovato, molto tempo dopo, nel bel romanzo di Daniela Piegai e Nicoletta Vallorani Strega di sera, bel tempo si spera, non a caso scritto nella seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso (e che pone in esergo proprio l’indimenticato «Tremate, tremate, le streghe son tornate»): «Di solito tutte noi cominciamo a parlare prima dei maschi, guardiamo il mondo con occhi più curiosi, siamo più indipendenti, impariamo prima. Siamo apprendiste streghe felici e irresponsabili», allegre e colorate, poi, però… Già, gli anni Ottanta. Il mio sguardo che si volge a guardare il cammino non lineare che ho compiuto, cercandone il senso, individua proprio questo decennio come punto di svolta, in negativo.

Nicoletta Vallorani, Bologna, settembre 2022. Foto di Roberto Del Piano

Sì, perché è da lì che tutto è cambiato, quasi senza che ce ne rendessimo conto, senza che me ne rendessi conto, assorta com’ero in quella vita nelle mie relazioni affettive, nel desiderio di autonomia e stabilità, nelle mie pubblicazioni secentesche. È allora che il femminismo (come l’antifascismo e altri ‘ismi’) ha iniziato a sbiadire nella coscienza collettiva e a perdere valore nel dibattito pubblico, sopraffatto da un clima di disimpegno edonistico e modaiolo (ricordate la «Milano da bere»?), di indifferenza e di egoismo. Alla mia riflessione sulle cause che hanno portato le adolescenti degli anni Novanta a guardare al femminismo con sospetto, quando non con ostilità (come da vecchia insegnante ricordo bene), l’amica Danila Baldo si unisce sicura, pur utilizzando un’espressione dubitativa: «Forse l’onda di riflusso degli anni Ottanta?». Le sue parole consuonano con quelle di Antonio Scurati in Fascismo e populismo (2023): quell’onda «ci aveva trascinati a galleggiare mollemente in un mare calmo, piacevole e all’apparenza sconfinato. Il mare di un’eterna vacanza. […] In quella tiepida fin de siècle l’intero Occidente s’illuse […] di essere entrato in un’età dell’oro: la Guerra fredda era stata vinta dal capitalismo liberale, i profitti crescevano in modo esponenziale, la globalizzazione si allargava all’intero orbe terrestre sotto gli auspici di divinità benigne». In questo «cambio d’epoca gaio e menzognero» ci fu anche chi (il politologo statunitense Francis Fukuyama fu il primo) giunse a sostenere che, dopo la caduta dei muri, la storia avesse esaurito il proprio compito.

Danila Baldo, Libera Università di Alcatraz (Perugia), 2016. Archivio Danila Baldo

È in questo clima che il femminismo non ha più ragione d’essere, diventa anzi un disvalore, una “cosa da vecchie”: così credono tante giovani donne, dimenticando o ignorando che i diritti non sono per sempre, vanno coltivati, tutelati, promossi. La frammentazione del movimento delle donne, poi, non ha aiutato (è il mio punto di vista, certo): le incomprensioni, i distinguo, le litigiosità (chi di noi non ricorda le estenuanti discussioni di quegli anni?) ci hanno fatto perdere di vista il fine primo e ultimo, quel mondo migliore che è concepibile soltanto grazie a un’azione comune di tutte e per tutte (femminile ‘inclusivo’, come lo definì Alma Sabatini, o ‘sovraesteso’, come ora di tendenza). Certo, sappiamo bene che le differenze sono, o, meglio, possono rappresentare una ricchezza (dipende dalle differenze: essere misogini e omofobi è una differenza, non una ricchezza); tuttavia, come amavo affermare quando ero attivista per l’intercultura, preferisco privilegiare ciò che unisce rispetto a ciò che divide. È, del resto, l’insegnamento di Madre Terra, che sviluppa la vita (ogni vita) in un tessuto di relazioni di cui è opportuno comprendere le connessioni piuttosto che distinguere, catalogare, gerarchizzare gli elementi di separazione. È bene, credo, «dare parola alle contraddizioni, alle contrapposizioni e ai nodi irrisolti del dibattito femminista, che non è mai stato un soggetto unitario, bensì un mondo eterogeneo ed estremamente diversificato», scrive con lucidità l’amica Anna Curcio nel suo Introduzione ai femminismi (2023). Sì, è vero, ma proprio per questo, I have a dream, ho un sogno, il sogno che sia possibile trovare l’unità nella molteplicità, per noi, per tutte.

Alma Sabatini, anni Ottanta del Novecento.
Foto di autore non noto

Nella vita che vivo ora, coltivo la passione per la fantascienza delle donne, scritta da donne, con una predilezione per le autrici che definisco ‘femministe’ (e me ne assumo la responsabilità): tra queste, la grande fantascientista statunitense Alice Sheldon, alias James Tiptree Jr., che nel 1983, in un’intervista rilasciata a Charles Platt, ammoniva: «Le donne semplicemente hanno il livello di libertà che ora abbiamo grazie a circostanze sociali del tutto aleatorie; la gentilezza verso i deboli non regge quando inizia la guerra di tutti contro tutti. Le nostre libertà e i nostri diritti saranno i primi ad andarsene. E, come per Roma antica, si dirà che la caduta dell’impero è stata causata dalle nostre libertà». Con nostro danno, ce ne siamo accorte, eccome se ce ne siamo accorte.

Alice Sheldon, alias James Tiptree Jr., McLean (Virginia), 1977. Foto di James Reber

Per mia parte, la consapevolezza è giunta tra la fine degli anni Novanta e l’inizio dei Duemila, quando, dopo l’immersione in apnea delle maternità, ho guardato nuovamente al mondo intorno a me (la maternità ‘cool’? o mie dee…). E così è stato per le mie studenti: ultimato il liceo, conclusa l’università, constatavano con amarezza che non basta essere brave (e, a scelta, diligenti o creative) per aver pari opportunità, stipendio, tempo rispetto ai compagni maschi; che non è scontato riuscire a conciliare vita privata e carriera professionale. Dunque, a partire forse dagli anni Dieci di questo secolo, ecco le giovani donne riaccostarsi al femminismo, ai femminismi. Una delle mie allieve più brillanti, ora prossima alla laurea, mi ha detto ridendo con i suoi begli occhi di essere «una femminista intersezionale» (ne ho gioito) e sempre più sono le giovanissime protagoniste delle manifestazioni che si svolgono nella Giornata internazionale dei diritti delle donne.
Non senza contraddizioni, però. Il pink-washing è in agguato, e valga per tutti questo esempio: la T-shirt con la scritta ‘Feminist’ di un brand che notoriamente contribuisce allo sfruttamento di manodopera infantile e femminile nel sud del mondo è un’ipocrita operazione di mercato. Ed è in agguato anche la retorica celebrativa: non è un caso che la prima donna premier in Italia abbia scelto di declinarsi al maschile (e sia stata riconosciuta da un quotidiano della sua parte politica “uomo dell’anno”) ma si dica ‘donna’ soltanto quando ne trae vantaggio, per esempio vittimizzandosi; la sua affermazione, poi, vale per lei e per lei sola, non serve a liberare tutte noi, a rivendicare opportunità e diritti per tutte.
Avanza invece, e trionfa, il femminismo neoliberale, che altro non è che una operazione di marketing, che paga, e paga bene, donne già di successo e di potere, per le quali qualche affermazione pseudo-femminista contribuisce a incrementare popolarità e influenza. “Ce l’ho fatta perché sono brava” è quello che, in brutale sintesi, dicono donne di successo e potere (delle quali, intenzionalmente, non menziono i nomi), che, quasi sempre, sono belle, bianche, occidentali, etero, altolocate. E lo dicono secondo un malinteso concetto di libertà che ignora le condizioni di partenza, che uguali non sono. È, questo, un presunto femminismo che «risulta innocuo alle logiche capitaliste neoliberali. – scrive Eleonora Meo in Il femminismo neoliberale che avanza – Non mette in discussione lo status quo, ma diventa funzionale all’assimilazione e depoliticizzazione dei temi centrali del femminismo, sussumendoli all’interno della razionalità neoliberale»: un pensiero individuale e individualista, che trasforma l’istanza femminista in una questione privata, sottraendola allo spazio pubblico, capace di mutare la speranza collettiva di un futuro migliore possibile nella visione miope di un presente avulso dalla storia, nel quale ciascuno, ciascuna, è sola, e sola può affermarsi, in competizione e a danno delle altre, degli altri.
Nello scenario della grande storia, invece, nessuna, nessuno si salva da solo: così come la Resistenza ha aperto a un mondo nuovo (che purtroppo non si è realizzato), il femminismo, i femminismi sono per il riscatto di tutte. Ed è per questo che noi che abbiamo a cuore il destino delle donne, delle persone non binarie, degli ultimi, possiamo, e dobbiamo, unirci, privilegiando ciò che ci accomuna, accettando ciò che ci divide ma non enfatizzandolo, senza sfaldarci in identità parziali e rivendicative, consapevoli che il nostro tentativo di coniugare parola e attivismo non può non darsi, è indispensabile. Anche perché, se non restiamo unite, il patriarcato, semplicemente, ci spazzerà via.

Gioconda Belli, fine anni Ottanta o inizio anni Novanta del Novecento. Foto di Charles Castaldi

E poiché queste non sono che minute memorie di una femminista della seconda ondata, è cosa saggia dare parola ad altre voci, altre sensibilità, altre donne, a ricomporre un insieme multiforme: e sarà la nuova serie Femminismo/femminismi, accolta con generosità da Vitamine vaganti nelle prossime settimane. Coltiviamo la memoria delle antiche donne, proteggiamoci con parole e alberi, restiamo unite: come Gioconda Belli, ve lo chiedo «in nome di tutte noi».

In copertina: Roma, Campo dei Fiori, 8 marzo 1972: Jane Fonda partecipa alla manifestazione per la Giornata internazionale della donna (foto di autore non noto).

La galleria fotografica di donne qui presentata rappresenta una ideale linea matrilineare o, come si diceva negli anni Settanta, “di sorellanza”.

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Articolo di Laura Coci

Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.

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