«Gli alberi del Sud danno uno strano frutto,/sangue sulle foglie, sangue sulle radici,/un corpo nero dondola nella brezza del Sud/strano frutto appeso agli alberi di pioppo».
Sono alcuni versi della canzone Strange fruit, scritta da un insegnante ebreo comunista del Bronx, Abel Meerepol, con lo pseudonimo di Lewis Allan, e ascoltata per caso da Barney Josephson, proprietario di un night del Greenwich Village a New York, il Café Society, che la propone alla già celebre cantante Billie Holiday, la quale accetta di inserirla nel proprio repertorio. È il 1939: linciaggi ed esecuzioni di uomini di colore, a scopo dimostrativo, sono frequenti nelle città del Sud degli Stati Uniti e approvati da buona parte dei bianchi, il sistema di segregazione razziale è pienamente in vigore e raramente è messo in discussione. Lo stesso padre di Billie – da lei ritrovato dopo l’abbandono qualche tempo prima – muore di polmonite perché gli ospedali di Dallas, Texas, rifiutano di accogliere e curare un nero. L’esecuzione del brano non è scontata: Holiday può eseguirlo solo su esplicita autorizzazione della direzione dei club e dei teatri nei quali si esibisce, praticamente mai negli stati meridionali, perché potrebbe suscitare proteste e disordini. E non lo è neppure la registrazione: la Columbia, l’etichetta per la quale la cantante ha un contratto esclusivo, le concede una deroga per l’incisione con la piccola Commodore Records di Milt Graber; è il 20 aprile 1939. Non è tutto: un funzionario del Fbn (Federal bureau of narcotics), il suprematista bianco Harry J. Anslinger, ordina a Billie di non eseguire più in pubblico la canzone, nella quale la cantante dà prova di tutta la propria straordinaria espressività, e al rifiuto di lei inizia a farla pedinare costantemente per coglierla in flagrante in possesso degli stupefacenti di cui, come di alcool, fa largo uso.
Nota l’attivista Angela Davis che per Billie Holiday Strange Fruit rappresenta un punto di non ritorno, oltre che l’emblema di una vita, come donna di colore povera, connotata ai suoi inizi da mancanza di opportunità e sfruttamento, nella sua interezza e fino alla morte segnata da discriminazione e razzismo.

ricchissimo e documentato, https://eatdrinkfilms.com/2020/12/14/billie-holiday-a-gallery/)
Il vero nome di Billie Holiday è Eleonora Fagan ed è nata il 7 aprile 1915 a Filadelfia da Clarence Halliday, di diciassette anni, e Sarah ‘Sadie’ Fagan, di diciannove, che perde il lavoro come domestica presso una famiglia di bianchi non appena questa scopre che è incinta; la giovane riesce a sopravvivere facendo le pulizie e servendo le pazienti ricoverate in un ospedale cittadino in cambio dell’assistenza per sé e per la piccola che sta per nascere. Il padre, chiamato alle armi e mandato in Europa a combattere nella Grande guerra, al rientro in patria abbandona la famiglia e, come suonatore di banjo e chitarra, entra a far parte prima dei McKinney Cotton Pickers, poi, nel 1928, della celebre orchestra diretta da Fletcher Henderson, con la quale resta cinque anni, ritrovando la figlia che nel frattempo ha intrapreso la carriera di cantante.
L’infanzia non è semplice per la piccola Eleonora, affidata ai nonni materni, che abitano in una casa poverissima, con una cugina più grande, i figli di lei e l’anziana bisnonna, già schiava e madre di sedici figlie e figli avuti dal proprio padrone bianco. Neppure il matrimonio di Sadie con uno scaricatore del porto di Baltimora riesce a garantire stabilità alla bimba: lui si dimostra un padre attento e affettuoso, ma purtroppo muore precocemente. In un ambiente comunque degradato, il 24 dicembre 1926, appena undicenne, Eleonora subisce un tentativo di violenza da parte di un vicino: questo è condannato a cinque anni di prigione, lei è destinata a un istituto religioso fino al compimento della maggiore età; la madre, tuttavia, si rivolge a un avvocato e riesce a riportarla a casa. Subisce un’ulteriore violenza, questa volta consumata, e la denuncia, ma non viene creduta ed è rinchiusa in riformatorio per due mesi. Poi raggiunge la madre a New York e inizia a prostituirsi in un bordello clandestino di Harlem; è arrestata e condannata ad altri quattro mesi di riformatorio. Una volta rimessa in libertà, per non prostituirsi di nuovo, cerca lavoro come ballerina in un locale notturno: non sa muovere un passo, ma è assunta immediatamente come cantante e a quindici anni inizia la sua carriera. È in questo periodo che le colleghe iniziano a chiamarla ‘Lady’ perché, contrariamente a tutte le altre ragazze, rifiuta di ricevere le mance dai clienti nella scollatura della camicetta o alzando la gonna.
La narrazione degli anni difficili, drammatici talvolta, dell’infanzia e della prima adolescenza si legge nell’autobiografia Lady sings the blues, data alle stampe nel 1956 (la traduzione italiana La signora canta il blues data al 1979).
La svolta per la carriera di Billie Holiday (nome d’arte che unisce il nome dell’attrice preferita Billie Dove e il cognome adottato dal padre musicista) avviene nel 1933, quando è notata dal produttore John Hammond, che le organizza una seduta di incisione con il proprio cognato, un musicista in quel momento sulla cresta dell’onda: Benny Goodman; poi, nel 1935, le procura un contratto col pianista Teddy Wilson per una serie di incisioni che incontrano notevole successo. Di lei Hammond dice: «Il suo modo di cantare ha pressoché cambiato il mio gusto e la mia vita musicale, perché è stata la prima ragazza che ho incontrato a cantare davvero come un genio del jazz improvvisato». Seguono importanti ingaggi con Count Basie, Artie Shaw e Lester Young.
Nel 1939 Billie Holiday, artista già affermata, subisce un episodio di discriminazione che segna l’abbandono dell’orchestra di Artie Shaw (nella quale lei è l’unica componente di colore): al Lincoln Hotel di New York le viene chiesto di usare il montacarichi invece dell’ascensore, per soddisfare una richiesta dei clienti bianchi dell’albergo. Lei stessa ricorda: «Non mi è mai stato permesso di visitare il bar o la sala da pranzo come hanno fatto gli altri membri della band, […] mi hanno fatto entrare e uscire dalla cucina».
Con Lester Young nasce, invece, una affettuosa amicizia che li lega per tutta la vita: lei conia per lui il soprannome di ‘Prez’, lui per lei quello di ‘Lady Day’; è lui — altri raccontano sia stata Sylvia Sime, un’ammiratrice a sua volta divenuta cantante — a suggerirle di presentarsi sul palcoscenico sempre con una o più gardenie bianche tra i capelli: questo particolare la trasforma in un’icona indimenticabile.
Nel 1947, Billie è incriminata e condannata per detenzione di stupefacenti; sconta dieci mesi di detenzione nel campo di prigionia federale di Alderson, West Virginia: il suo rientro sulle scene, alla Carnegie Hall di New York, il 27 marzo 1948 è un trionfo.

Il 10 novembre 1956, Holiday si presenta di nuovo alla Carnegie Hall per due concerti davanti a una platea gremita ed entusiasta: le registrazioni saranno poi parzialmente pubblicate nel 1961, nell’album The essential Billie Holiday. Il critico Nat Hentoff così scrive nelle note di copertina: «Per tutta la notte, Billie era in una forma superiore a quella che era stata in genere negli ultimi anni della sua vita. Non solo c’era la certezza del fraseggio e dell’intonazione, ma c’era anche un calore estroverso, un entusiasmo palpabile di raggiungere e toccare il pubblico. E c’era spirito beffardo. Un sorriso era spesso appena evidente sulle sue labbra e sui suoi occhi come se, per una volta, potesse accettare il fatto che c’erano persone che l’hanno amata».
Dopo il primo tour europeo nel 1954, nel 1958 viene per la prima e unica volta in Italia, a Milano: purtroppo gli organizzatori, del tutto ignari di chi sia e di quale tipo di musica interpreti, la fanno esibire in un teatro a quel tempo riservato all’avanspettacolo, lo Smeraldo. Il pubblico, non abituato al jazz, la fischia da subito e lei è costretta ad abbandonare il palco dopo cinque canzoni; un gruppo di appassionati e intenditori, con la mediazione di Mal Waldron, il pianista che la accompagna negli ultimi anni in tutti i concerti, riesce a organizzare a tempo di record uno spettacolo nel minuscolo Teatro Gerolamo di Piazza Beccaria e qui le viene tributata una vera ovazione.
Del febbraio 1958 sono le registrazioni del suo canto del cigno artistico: sontuosamente accompagnata dall’orchestra di Ray Ellis, registra le tracce che comporranno lo splendido disco Lady in satin.
All’inizio del 1959 la cirrosi epatica di cui soffre si aggrava; tenta di smettere di bere, senza riuscirvi; tra il 3 e l’11 marzo torna in studio di registrazione, ancora con un gruppo diretto da Ray Ellis, ma il risultato è più emozionante che artisticamente valido; l’ultima canzone che registra è Baby, won’t you please come home?; il disco uscirà postumo, col titolo The last recording.
La morte, il 15 marzo di quell’anno, del suo grande amico Lester Young aggrava la situazione. Il 31 maggio viene trovata esanime sul pavimento del suo appartamento newyorchese: è immediatamente ricoverata al Metropolitan Hospital Center, ma contestualmente arrestata per gli stupefacenti trovati nella sua stanza, e – per volontà dell’implacabile Harry J. Anslinger – ammanettata al letto dell’ospedale. Si spegne Il 17 luglio, a quarantaquattro anni.

data e autore

È bello, però, chiudere la vicenda terrena di Billie Holiday ricordando la grande storia d’amore platonica tra lei e Lester ‘Prez’ Young, il grande sassofonista omosessuale che fu l’unico uomo a volerle veramente bene e a restarle vicino per lunghi periodi, a differenza del padre, del marito e degli amanti, e tantomeno di chi si era accanito con ottusa crudeltà contro di lei, donna fragile e geniale. Si erano conosciuti in uno studio di registrazione, lei aveva ventidue anni e lui ventisette. Lester Young era elegante, timido, ironico, immaginifico con le parole come con le note: buona parte dello slang tipico della scena jazz di quegli anni viene da lui. Mentre era a Parigi, pochi giorni prima della propria morte, a chi gli chiedeva di Billie Holiday lui aveva risposto semplicemente: «È sempre la mia Lady».
Qui le traduzioni in inglese, francese e spagnolo.
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Articolo di Laura Coci

Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.
