Donne in Afghanistan

Nel 2021 ho assistito a due eventi sconvolgenti. Il primo: dopo quasi due anni di incertezze e reclusioni, l’emergenza dovuta al Covid 19 è finalmente rientrata; e il secondo: i talebani sono entrati a Kabul per la prima volta dalla fine dell’operazione internazionale Enduring Freedom.
É il 15 agosto e sono a cena con i miei genitori, fa un caldo infernale e la televisione è accesa sul telegiornale che di solito ci fa da sottofondo. Mentre mangiamo cerco spunti per ultimare una tesi praticamente finita, poi la notizia bomba (gioco di parole intenzionale): l’Afghanistan non esiste più e al suo posto l’Emirato Islamico dell’Afghanistan fa il suo gran debutto nel panorama internazionale sotto la guida del Mullah Abdul Ghani Baradar.
Inutile dire che il giorno dopo ho contattato la mia professoressa comunicandole che avremmo dovuto ricominciare da capo, perché ritenevo doveroso almeno riconoscere la gravità e la rilevanza di quel particolare momento. Notizia accolta con estremo entusiasmo devo ammettere. Giorno dopo giorno quindi, tramite le testate giornalistiche abbiamo visto le donne afghane spogliate, neanche troppo lentamente, dei propri diritti, della propria cultura e delle libertà faticosamente acquisite. Dopo l’avvio di un processo di emancipazione iniziato con le concessioni elargite a partire dagli anni Settanta, le donne afghane si sono ritrovate catapultate in una realtà cupa e incerta.
L’insofferenza verso la prospettiva di una nuova dominazione talebana è data dal fatto che, tra le tre fedi monoteiste, l’Islam è l’unica che non ha mai vissuto, al suo interno, la rigenerazione insita nei movimenti di riforma. È comunque nato il fenomeno del “femminismo islamico”, a opera di studiose che, lavorando alla decostruzione e contestualizzazione – anche attraverso una corretta traduzione – di quei versetti che paiono indicare l’inferiorità della donna, riescono a dimostrarne la scarsa valenza fondante. Grazie allo studio del Corano e al ritorno alle origini, ovvero al pensiero di Maometto, esse sono riuscite ad affermare l’uguaglianza fra i generi. Infatti, la condizione di inferiorità in cui si trovano a vivere moltissime donne nei Paesi islamici non dipende, secondo le femministe islamiche, da quanto affermato nel Corano, ma dalle strutture sociali che hanno istituzionalizzato la negazione femminile.
Al giorno d’oggi, dunque, esistono organizzazioni femministe islamiche che non vogliono negare la validità del testo coranico, ma alcune interpretazioni dello stesso. Il fine ultimo di attiviste e attivisti è di riformare le leggi in alcuni Paesi islamici, per armonizzarle con il vero spirito del Corano. Proprio per questo, con Amina Wadud si è iniziato a parlare di “gender jihad”. L’offensiva talebana, partita nel maggio 2021, ha visto le milizie conquistare le principali città fino ad arrivare a Kabul, approfittando del ritiro delle truppe statunitensi e della Nato. Ai talebani sono bastati pochi scontri per riconquistare il potere che avevano perso nel 2001, quando una coalizione di Paesi, guidata dagli Stati Uniti, rovesciò il regime talebano alleato di Osama Bin Laden leader di Al-Qaeda, ritenuto il principale responsabile degli attentati dell’11 settembre.
Il lavoro si articola quindi in una parte manualistica che comprende i primi due capitoli e in un capitolo finale di stampo umanitario che si concentra sugli interventi sul campo, internazionali e soprattutto, per amor di patria, italiani. L’elaborato si apre con un’analisi sociologica sul processo di socializzazione e l’identità di genere e sulla loro evoluzione, prima in generale e poi con un focus specifico, ripercorrendo le tappe principali della storia del Paese dal 1919 ad oggi, battute d’arresto comprese.
La stesura della tesi è stata resa possibile grazie a un lungo e denso processo di raccolta di dati e notizie che – per ovvi motivi – si è basata soprattutto sulla lettura di articoli di giornale e inchieste, più internazionali che casalinghe, apparsi nei siti di informazione dal 15 agosto 2021 fino a poco prima della data di consegna del lavoro, che può dunque definirsi in continuo divenire, almeno fino a quando la situazione nel Paese non si sarà stabilizzata. La situazione in cui versano le donne afghane è complessa. Se da un lato il regime talebano, al fine di cooperare con la Comunità Internazionale, ha dichiarato che verranno garantiti alcuni diritti – come se l’idea di essere titolare solo di alcuni diritti non sia aberrante di per sé –  è anche vero che questi saranno elargiti in relazione alla sharia. La mancata secolarizzazione del Paese e del suo nuovo Governo, quindi, non fa ben sperare in quanto si teme che una volta calmate le acque e distolto lo sguardo internazionale, la situazione delle donne afghane diventerà insostenibile. Nonostante le premesse, dai case studies e dalle testimonianze di chi lavora sul territorio, emerge il ritratto di una donna che non è più disposta a essere relegata ai ruoli esclusivi di moglie e madre. Si tratta di donne che dalla sconfitta del regime talebano nel 2001 erano riuscite a provvedere economicamente per le proprie famiglie in modo autonomo, a lavorare; a cui erano state aperte le porte dell’istruzione superiore e a ottenere cariche politiche, come la sindaca Zarifa Ghafari che dal 2018 è la prima cittadina di Maidan Shahr, costretta a fuggire in Germania insieme alla sua famiglia.
Un barlume di speranza potrebbe risiedere, oltre che negli aiuti internazionali, anche nelle organizzazioni afghane gestite da attiviste locali che promuovono programmi di educazione e alfabetizzazione, a patto che queste non cessino le loro attività e che gli anni di guerra, che hanno segnato questa generazione, non facciano vacillare il loro coraggio. Numerose sono state, infatti, le manifestazioni e i movimenti di protesta a cui le donne afghane hanno preso parte per rivendicare una cultura che negli anni si era rivelata sempre più inclusiva e garantista, il vero volto dell’Afghanistan libero, in cui la religione non è legge di stato ma legge dello spirito e il velo rappresenterebbe quindi la massima espressione di libero arbitrio.
Comunque sia, le notizie che adesso ci giungono nel cosiddetto mondo libero sono frammentarie e incomplete e se al momento dei fatti – a livello internazionale – questo è stato l’unico sconvolgimento degno di nota, adesso con le guerre alle nostre porte a nord e sud, l’attenzione si sta spostando. La speranza è che la Comunità Internazionale tratti tutte le crisi e tutti i conflitti con eguale riguardo, ma l’utopia in questo caso si confonde con la realtà. Questo lavoro nasceva quindi con l’idea di rassicurare, tutte quelle studenti, professioniste, politiche, madri che dal giorno alla notte hanno assistito al violento arresto della loro faticosamente raggiunta emancipazione. Di far sapere loro, anche solo nei pensieri di chi scrive, che non sono sole, che sono importanti, che le vediamo. Ovviamente questo non basta, c’è bisogno di interventi concreti per quanto riguarda la ricostruzione tanto delle infrastrutture quanto delle menti, ma spero che possa rappresentare un inizio. Per tutte e per la sottoscritta, «Perché […] tu invece devi essere pronta, […] tu dalle guerre devi tornare, figlia mia».

Qui il link alla tesi integrale: https://www.toponomasticafemminile.com/sito/images/eventi/tesivaganti/pdf/271_DiLuca.pdf.

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Articolo di Caterina Di Luca

Laureata in Cooperazione internazionale e sviluppo, con una tesi sull’evoluzione della figura femminile in Afghanistan dall’instaurazione del primo regime talebano a oggi, è studente in Progettazione sociale per la sostenibilità, l’innovazione e l’inclusione di genere presso l’Università La Sapienza di Roma. Si diletta nella scrittura di articoli di carattere sociale, con una spiccata tendenza femminista.

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