Le porte del Palazzo delle Esposizioni di Roma si aprono e l’arte di Carla Accardi si mostra, articolata e trasparente come la Triplice Tenda che accoglie i visitatori e le visitatrici. La sapienza e la maestria con cui le curatrici, Daniela Lancioni e Paola Bonani, hanno disposto i lavori si concretizza in un percorso artistico in cui il pubblico trasmuta il suo ruolo di fruitore e fruitrice dell’opera per diventarne parte integrante. L’assunzione di questa consapevolezza è facile e istantanea: ti rendi immediatamente conto che il Palazzo è un ulteriore strato di quella matrioska a cui l’artista si rifece nella realizzazione della Triplice tenda, concatenazione di forme geometriche distinte, realizzazione materiale dell’inconscio femminile. Intorno ad essa si dispiega il vissuto artistico di Accardi.

Tra le righe della sua vita e i manifesti d’avanguardia, l’autoritratto sembra essere l’unica opera didascalica della sala. Eppure, anche nella posa raffaellesca in cui la donna si ritrae si scorge l’animo sovversivo di chi la produce: si tratta infatti dell’ironica risposta dell’autrice alla sentenza di suo padre, secondo cui «non si è mai vista un Raffaello donna». Dal realismo di contestazione si passa velocemente a un’espressione artistica personalissima, evoluzione individuale della rinnegazione di «ogni esperienza tendente ad inserire nella libera creazione d’arte fatti umani», dichiarata nel manifesto di Formula 1 tra i cui firmatari, insieme ad Accardi, si annoverano Pietro Consagra, Piero Dorazio, Ugo Attardi, Mino Guerrini, Achille Perilli, Antonio Sanfilippo e Giulio Turcato.
La fase pittorica dominata dalle tinte accese e dai colori pastello, trionfanti in opere
come Scomposizione (1947) e Isola (1951), cede velocemente il passo alla fase di
maggiore sperimentazione.


A partire dagli anni Cinquanta, Accardi si dedica alla componente segnica della sua pittura, la cui espressione si manifesta in quadri con elementi contrapposti e intrecciati in composizioni in bianco e nero, nelle quali solo raramente si unisce il rosso: «Il segno da solo non vale per sé, ma esso esiste in rapporto ad altri segni dal momento che forma con essi una struttura e diventa espressione artistica (nella struttura) allorché porta (in una comunità compatta) il suo valore simbolico e individualistico, e perdendo ciò che ha di arbitrario acquista nel tutto un magico e intelligente significato di rigorosa necessità ma insieme di gioco imprevedibile (e ambiguo)».
La serie delle Integrazioni (tra cui Grande integrazione del 1957 e Integrazione dello stesso anno) è la realizzazione materiale e simbolica del compimento della struttura artistica ingenerata dai segni, che prende forma in una dialettica bianco-nero nella quale l’autrice si avvale dell’uso di grandi tele e di tempere alla caseina.


La lancetta dell’imponente orologio di cui la rotonda del Palazzo delle Esposizioni è diventato il simbolo e il contenitore, scandisce i tempi e segna il passaggio alla fase di produzione artistica successiva: siamo negli anni Sessanta e il colore torna a dominare le opere di Accardi. Connubio perfetto tra l’arte dalle forti cromie della fine degli anni Quaranta e quella di sperimentazione del segno degli anni Cinquanta, le opere che vanno dal 1963 al 1966 tornano a essere dominate dal colore. La tela si tinge di sfondi monocromatici sui cui risaltano i segni, ora più sottili e meno intricati, disposti per ripetizioni così da formare alfabeti immaginari (volutamente incomprensibili) e dare ampio respiro al colore sottostante.
Opere come Verderosso (1963) e Rosa Verde (1964), in cui i segni si moltiplicano unendosi in rettangoli obliqui, sono il frutto di questo bilanciato contrasto.


Materializzazione simbolica dell’ulteriore svolta artistica e del nuovo interesse dell’autrice per le superfici inusuali, la parete opposta della sala accoglie le prime opere realizzate su tele in sicofoil. Procedendo in senso orario e rispettando l’ordine cronologico dell’allestimento, le due pareti sembrano infatti essere la rappresentazione materiale, armonica integrazione, delle due grandi esperienze artistiche vissute dall’artista nella prima e nella seconda metà del decennio. «Un giorno mi portarono in studio questo materiale. (…). Mi incuriosì quel materiale. Pensai: voglio provare a usarlo perché così svelo i misteri che sono dietro l’arte». Da lì le prime sperimentazioni con il sicofoil, plastica in acetato di cellulosa, che sotto le mani sapienti di Accardi perde la sua rigidità e si trasforma in quadri e sculture in cui la pittura si fonde con il supporto trasparente lasciando spazio all’emergere della luce. Attraverso l’assemblaggio o semplici rotoli di sicofoil, successivamente adornati con segni di vernici sgargianti, nascono opere come Rotoli (1965- 69) e Nero Rosa (1967).


Le possibilità espressive offerte dal supporto plastico verranno sfruttate dall’autrice per la realizzazione di nuove dimensioni spaziali anch’esse capaci di significarsi come arte in movimento, integrazione della vita e delle sue situazioni spaziali.

Realizzazione concreta di questo nomadismo è la Tenda, le cui pareti trasparenti, adornate con tratti di accesi colori rosa e verdi, sono il filtro tangibile ma inconsistente che divide l’esterno dall’interno, rendendo visibile a entrambi la vita che scorre simultaneamente dentro e fuori. La tenda, con la sua logica vedo/non vedo- spazio privato/spazio pubblico potrebbe essere un richiamo o un riferimento accennato alla questione femminile-femminista che di lì a poco avrebbe coinvolto Accardi. Così come le singole opere, tutta la produzione dell’artista si manifesta in una continua oscillazione tra colore e bianco-nero, e i loro contrasti. Questa librazione riguarda anche l’utilizzo del sicofoil con cui l’integrazione oppositiva chiaro-scuro diviene piuttosto trasparente/luce-nero.
Sopra lo sfondo bianco della parete, A Gent abbiamo aperto una finestra fa entrare la luce nella stanza: agli occhi dello spettatore e della spettatrice (o almeno agli occhi dell’autrice di queste righe) le ante della finestra appaiono braccia che accolgono e invitano all’atto di guardare, di liberare lo sguardo verso la luminosità.
Ma il sentimento di libertà che scaturisce dalla visione dell’opera, sollecitato anche dai segni che quasi sembrano stilizzazioni di uccelli in volo, trascende l’atto del vedere, assorbendo tutti i sensi di chi osserva fino a far scomparire i margini del telaio di legno e, estendendosi oltre, le mura del palazzo.

(1971-1986)
L’arte diventa vita e viceversa. Non stupisce quindi che entrando e uscendo dalla sala si attraversi Origine (dell’arte? della vita? dell’arte nella vita?), unica opera dichiaratamente femminista, in cui le due realtà si fondono in un gioco di alternanze tra liste di fotogrammi, ritraenti Accardi e sua madre, e strisce di sicofoil che intervallano le immagini disposte verticalmente una sotto l’altra.

Negli anni Ottanta e Novanta, Accardi ritornerà all’uso della tela. Durante i due decenni l’autrice sarà impegnata nella produzione di grandi dittici e trittici, realizzati sia su tela grezza (come nel caso di Animale immaginario, 1987), sia su sfondo monocromatico (Vortice del vento verde 1998). Con il nuovo secolo, riprenderà a lavorare sul connubio tra arte e architettura realizzando, nel 2006, Si dividono invano, installazione di legno ricoperto di smalto grigio in cui, ancora una volta, l’autrice fa dialogare
esterno e interno.


Al termine della mostra, di nuovo al centro del grande orologio del Palazzo delle Esposizioni, le lancette si fermano nell’immortalità di un’artista straordinaria come Carla Accardi: l’àrcade ribelle, complessa e trasparente.
Scultori muscolosi, ideologi
Pretesero da Carla, chiarimenti;
anche il luogo di provenienza,
e strabiliarono alla vista
della sua mirabile risposta.
“Sbarco dall’Arcadia”,
c’era del velo nell’assonanza
col suo cognome: Accardi,
ma lei era un’àrcade ribelle.
(Valentino Zeichen, A Carla Accardi)
La mostra antologica dedicata a Carla Accardi nel centenario della nascita è stata promossa dall’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e dall’Azienda Speciale Palaexpo che l’ha ideata, curandone la produzione e l’organizzazione. L’esposizione è stata realizzata in collaborazione con l’Archivio Accardi Sanfilippo e con il sostegno della Fondazione Silvano Toti. Il Palazzo delle Esposizioni, sito in Via Nazionale 194, a Roma, accoglierà le opere dell’artista fino al 9 giugno 2024.
In copertina: Rotoli (1966-1971).
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Articolo di Sveva Fattori

Diplomata al liceo linguistico sperimentale, dopo aver vissuto mesi in Spagna, ha proseguito gli studi laureandosi in Lettere moderne presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza con una tesi dal titolo La violenza contro le donne come lesione dei diritti umani. Attualmente frequenta, presso la stessa Università, il corso di laurea magistrale Gender studies, culture e politiche per i media e la comunicazione.
