Femminismo/femminismi. Intervista ad Anna Curcio

Anna Curcio è una studiosa militante, nel senso che piega l’analisi teorica alle domande politiche sul presente e viceversa. Sociologa di formazione, studia attraverso la lente del marxismo eterodosso e dell’operaismo politico i conflitti e le trasformazioni del lavoro di produzione e riproduzione, con un focus sui rapporti di genere e sulla questione razziale. Coordinatrice del percorso di formazione politica “Input di pensiero critico” a Bologna, cura per DeriveApprodi la sezione “Vortex” di Machina e dirige la collana “hic sunt leones”. Ha curato la traduzione italiana di gran parte del lavoro di Silvia Federici ed è autrice, tra altri, di L’Italia è un paese razzista (DeriveApprodi 2024) e Introduzione ai femminismi (a cura di, DeriveApprodi 2019 e 2023).

Femminismo/femminismi: è possibile l’unità nella pluralità?
Io declinerei la parola sicuramente al plurale, ‘femminismi’, perché nella sua declinazione storica il femminismo è stato molte cose e cose anche molto diverse tra loro. Il femminismo di Olympe de Gouges non è quello delle suffragette, né è comparabile al femminismo degli anni Settanta. Se poi guardiamo all’Italia di quegli anni, ci sono due tradizioni diverse di femminismo, distinte nelle pratiche e nei discorsi, forse inconciliabili, sicuramente non comunicanti: mi riferisco al femminismo dell’autocoscienza da una parte e a un femminismo marxista materialista che guarda ai rapporti sociali di produzione e riproduzione dell’altra. Sempre negli anni Settanta, si afferma il black feminism, proprio in contrapposizione al discorso femminista di quegli anni, come critica all’idea di sorellanza universale. Anche oggi, il femminismo, che si declina come transfemminismo, ha una connotazione diversa dal cosiddetto “femminismo della seconda ondata” e fa a pugni con il femminismo “della differenza”.
Nell’impossibilità, dunque, di definire un universale femminista, credo che sia meglio parlare di ‘femminismi’ al plurale. Poi, se la domanda è se questi femminismi possono trovare una unità nelle differenze, occorre chiedersi innanzitutto se esiste un obiettivo comune e qual è. Se la risposta è la sorellanza universale, non è uno spazio politico che mi interessa praticare. Piuttosto, mi sento di condividere la critica del femminismo nero. Il discorso “Siamo tutte sorelle in quanto donne” non funziona, perché non abbiamo tutte gli stessi obiettivi e la stessa visione del mondo e soprattutto non facciamo tutte le stesse esperienze né godiamo delle medesime opportunità o possiamo avere le medesime aspettative.

Il Combahee River Collective (organizzazione militante di femministe nere, lesbiche e socialiste, 1974-1980), presenta il Manifesto del Black Feminism, Boston (Massachusetts) aprile 1977; alla destra della speaker Barbara Smith

Per me, nella lotta femminista, una discriminante è la domanda di cambiamento, che non è l’emancipazione (fare le cose che fanno gli uomini, l’uguaglianza formale dei diritti), ma la liberazione da un ruolo sociale svalorizzato, che naturalizza le donne al lavoro di riproduzione e alla cura, e lo fa in un modo fortemente pervasivo, che ha a che fare con la procreazione e la cura di bambine e bambini, ma anche con la formazione scolastica e con le agenzie sociali culturali (largamente appaltate alle donne e tra i lavori peggio retribuiti) e che interessa la sfera emotiva, del linguaggio e dell’affettività e non da ultima la sessualità. Interessa, cioè, l’intera esperienza sociale e soggettiva delle donne (biologiche o socializzate come tali), ricondotta a rapporti di potere di subordinazione e sfruttamento, che sono indispensabili al funzionamento del capitalismo.

Il Comitato Wages For Housework di New York, negli anni della campagna internazionale Salario al lavoro domestico, 1972-1977; al centro dell’immagine (con la camicia chiara) Silvia Federici

Per questo, l’unico femminismo che mi interessa è quello che intende cambiare materialmente la condizione sociale delle donne e ripensare radicalmente i rapporti sociali di produzione e riproduzione. Ma questo non sempre è l’obiettivo delle battaglie femministe, a volta ci si ferma al piano dei diritti formali o diventa battagli identitaria senza il minimo interesse per il cambiamento. Il piano di unità di cui mi chiedi, lo vedo praticabile nel momento in cui è possibile condividere questo obiettivo di cambiamento radicale.

Negli anni Novanta è parso che l’essere femministe fosse diventato un disvalore. Perché?
Negli anni Novanta avevo vent’anni, vivevo da studentessa fuori sede in una città del centro-nord Italia e facevo militanza nei centri sociali. Il femminismo non era tra le tematiche politiche a cui ero interessata. Anzi, trovavo naif e a tratti ideologiche quelle istanze, come uno scimmiottare altre stagioni politiche. Mi era soprattutto indigesto il maternalismo con cui le femministe si rivolgevano a noi donne più giovani e non vedevo alcuno spazio per l’agire antagonista in un femminismo declinato, in quegli anni, soprattutto come “politica delle quote” oppure istituzionalizzato nei dipartimenti di Women Studies. Anche nei centri sociali erano nate esperienze femministe, costruite come gruppi separati. Non ne ho mai fatto parte. Vedevo una profonda contraddizione tra quell’esigenza di separatismo e l’aderire, forse inconsapevolmente, ai ruoli socialmente stabiliti “per le compagne”: spillare le birre (i ciclostili degli anni Novanta) e fare le pulizie. In un processo di socializzazione tutto al maschile (lo dico col senno di poi e con la consapevolezza dei limiti e delle ragioni di tale esperienza) preferivo, invece, stare nei servizi d’ordine o fare gli attacchinaggi notturni. Erano quelli i ruoli militanti socialmente riconosciuti, quelli che mi davano il riconoscimento del gruppo e non mi importava (lo avrei compreso più tardi) se durante le assemblee i miei interventi erano spesso ignorati oppure l’occasione per alzarsi a sgranchire le gambe. Socializzata in una società maschilista, lo imputavo a una mia scarsa capacità politica o all’inesperienza e non alla misoginia che attraversa i movimenti antagonisti, che avrei imparato a riconoscere solo con il tempo.

Il movimento della Pantera a Roma, nei primissimi anni Novanta

Negli anni Novanta, insomma, io e il femminismo seguiamo percorsi differenti. Ricordo che nel 1996 o 1997, le compagne di Cosenza (la città in cui sono nata e cresciuta anche se in quegli anni vivevo a Firenze) avevano organizzato la manifestazione ‘Riprendiamoci la notte’, con uno slogan molto anni Settanta. Anche in una città di provincia come Cosenza, già altre donne, prima di noi, si erano riprese la notte che noi, a quel punto, ci stavamo largamente godendo. Era questo genere di iniziative che mi restituivano l’idea di un femminismo di natura ideologica, arretrato nelle rivendicazioni oppure ingenuo. Sempre in quella occasione, ricordo anche un’assemblea con le donne dei centri antiviolenza che, con un atteggiamento insopportabile, volevano insegnarci come fare una manifestazione. Io credo che sia anche mancata la possibilità, o la capacità, di costruire una comunicazione di qualità tra le generazioni. Per questo tante donne, che come me facevano militanza attiva, non si ritrovavano nelle posizioni e nei discorsi del femminismo in quegli anni.

Si afferma ora il cosiddetto ‘femminismo neoliberale’, che si traduce in un trionfo dell’individualismo, nell’affermazione di diritti e opportunità per sé sola, non per tutte… Che ne pensi?
Il femminismo neoliberale è oggi la distopia femminista dispiegata, il mondo di plastica che abbiamo visto a Barbieland, con i Ken ridotti a un orpello sociale e la riproduzione rovesciata dei rapporti di potere e sfruttamento. Non è questo il tipo di cambiamento a cui alludo. Ecco un’altra ragione per parlare di ‘femminismi’ al plurale. Se l’obiettivo del femminismo neoliberale è quello di raggiungere le posizioni di potere occupate dagli uomini, conciliando maternità e carriera, non stiamo affatto parlando di cambiare il ruolo sociale della donna. Al contrario, come ci aveva già avvertito il femminismo marxista negli anni Settanta, si dispiega in questo modo un doppio sfruttamento: nel lavoro di riproduzione in casa e in quello di produzione nel mercato del lavoro, che accresce l’oppressione piuttosto che aprire percorsi di liberazione. È la trappola dell’empowerment, per dirla con uno slogan. Un punto di vista che è sì individuale, ma che vive e si riproduce come fenomeno sociale e culturale, come tendenza. Un femminismo che mobilita le donne (non in termini collettivi militanti ma sicuramente come modalità diffusa di pensarsi come donna) per una migliore collocazione all’interno di gerarchie sociali e del lavoro, che non prevedono uno spazio di uguaglianza ma solo nuovi rapporti di potere. Una prospettiva che non si pone minimamente il problema del cambiamento ma è mera ricerca (questa sì, individuale) di una condizione sociale migliore. D’altra parte, è questa la filosofia neoliberale e il ‘femminismo neoliberale’ ne riassume la prospettiva dal punto di vista delle donne.

A partire dagli anni Dieci del Duemila si assiste a un ritorno del femminismo tra le giovani donne (vedi Non Una Di Meno). Quali le ragioni?
Dobbiamo considerare che tra gli anni Novanta e i primi dieci anni del Duemila cambiano tante cose, dal punto di vista sociale e politico. Le politiche economiche neoliberiste si dispiegano, c’è lo smantellamento del welfare, in Italia abbiamo il decennio del berlusconismo e la Seconda Repubblica inaugura un modo nuovo di fare politica. Si vive una profonda crisi della rappresentanza che ha investito i partiti e poi, con l’inizio del nuovo millennio, i movimenti. Gli anni Dieci sono anche quelli della crisi economica (infinita); in Italia si aprono con gli scandali sessuali di Berlusconi Presidente del consiglio e la rappresentazione di un femminile degradato a macchina per il piacere sessuale. L’esito quasi scontato di decenni di Veline e Letterine che in Tv, in prima serata, hanno esposto come merce al mercato il corpo della donna, ma anche di una libertà sessuale male interpretata, o forse potremmo dire tradotta nel linguaggio neoliberale, che ha reso sottilissima la faglia tra autodeterminazione e sfruttamento sessuale.
Già prima degli anni Dieci, una grande manifestazione a Roma, il 25 novembre 2006, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sessuale, aveva portato in piazza centinaia di migliaia di donne che prendevano parola su una questione estremamente delicata nel paese (l’Italia ha impiegato sedici anni ad approvare la legge sulla violenza sessuale, che solo nel 1996 ha trasformato il reato contro la morale in reato contro la persona). Era la scintilla di un nuovo movimento che prenderà compiutamente forma dieci anni dopo, nel 2016, con Non Una Di Meno.

Manifestazione di Ni Una Menos, Buenos Aires (Argentina), giugno 2016

Non Una Di Meno è un movimento che recepisce una domanda femminista che arriva da un contesto geografico e sociale distante e molto diverso, quello argentino. Lì, Ni Una Menos, ha costruito una rete militante transnazionale, proprio contro la violenza di genere, declinata anche come violenza economica e culturale. In Argentina, il femminismo ha, negli ultimi anni, prodotto una radicale trasformazione della società che ha riguardato anche il ruolo sociale delle donne, in un processo di cambiamento che, per tanti versi, appare analogo a ciò che è avvenuto in Italia grazie alle istanze femministe negli anni Settanta. Ni Una Menos è un movimento reale, che interroga la condizione delle donne dentro casa (nei rapporti familiari), sui luoghi di lavoro, per le strade, nelle organizzazioni politiche. In Italia queste tematiche hanno fatto subito presa, anche a partire dalla condizione di precarietà lavorativa ed esistenziale di intere generazioni di donne soprattutto. Tuttavia, la mia impressione è che nonostante le migliori intenzioni degli inizi, il movimento si sia un po’ perso per strada. Ferma restando la lotta contro la violenza sessuale che continua a essere il tema centrale delle battaglie femministe oggi, ha via via messo in secondo piano la domanda di cambiamento articolata sul piano dei rapporti sociali materiali per seguire altre piste, più legate alla autodeterminazione sessuale che, in alcuni casi, ha significato un ripiegamento identitario delle istanze della lotta e, altre volte, un mero esercizio di autoriproduzione del gruppo dirigente (secondo il più tradizionale dei cliché della politica). Il fatto che si tratti di un movimento transfemminista, che considera, cioè, anche le istanze di chi non è biologicamente donna, non credo sia il problema. Sarebbe come sostenere che solo con la vagina si può domandare il cambiamento dei rapporti sociali di genere e io non lo credo. Ho piuttosto l’impressione che viviamo in un mondo in cui è più facile astrarre le questioni che guardare ai problemi concreti. È più facile discutere del pronome che mi identifica che delle condizioni del mio sfruttamento: la prima è una questione che risolvo richiamando il buon senso o l’ideologia, la seconda richiede invece un impegno di lotta a medio-lungo termine e forse, per questo, appare meno appetibile, sicuramente meno gratificante nell’immediato. Tuttavia, è quest’ultimo il senso che ha per me il femminismo: un metodo teorico politico per cambiare i rapporti sociali di genere.

Manifestazione di Non Una Di Meno, Roma, 23 novembre 2019

È possibile, a tuo parere, accomunare donne (e persone non binarie) di diverse comunità, culture, classi sociali sulla base di una piattaforma comune? Per intenderci, dall’Iran all’Afghanistan, dagli Stati Uniti all’Italia?
Non lo so… Le potenzialità e i limiti dell’internazionalismo li abbiamo già visti in altri ambiti e momenti storici. Non Una Di Meno ha un’ambizione transnazionale ma con i limiti di cui ho parlato, cioè l’articolarsi in contesti sociali, produttivi e culturali anche molto diversi.
Per esempio, lo sciopero femminista, che è diventata la pratica di punta di Non Una Di Meno, assume una forma a Buenos Aires e un’altra più edulcorata nelle città italiane. Funziona come una parola d’ordine transnazionale ma colpisce il sistema di produzione e riproduzione in modi radicalmente differenti, bisogna esserne consapevoli.

Femminismo/femminismi: mi chiedo se sia opportuno (e strategico) privilegiare ciò che divide e distingue (che pure non nego e a cui riconosco legittimità) rispetto a ciò che unisce e accomuna. Che ne pensi?
Il problema della composizione delle lotte è da sempre il nodo politico da sciogliere, non solo per il femminismo. Occorre trovare quel minimo comune denominatore che ci tiene insieme verso il cambiamento radicale dei rapporti sociali di produzione e riproduzione: per me è questa la discriminante. La domanda sarebbe allora: chi sono le mie “compagne”? Con chi posso condividere questa domanda di cambiamento senza rinunciare alla mia e all’altrui specificità e differenza? In termini ideali, la risposta sarebbe: le streghe, che alle origini della modernità capitalista hanno incarnato il rifiuto alla naturalizzazione a un ruolo sociale subordinato, quello della cura e della riproduzione nelle case. In termini concreti, la domanda rimane aperta.

Silvia Federici e Anna Curcio alla presentazione di Caccia alle streghe e capitale (Silvia Federici, DeriveApprodi 2022), Bologna, settembre 2023

Quali sono state le ragioni profonde e quale l’occasione spinta che ti hanno portato al femminismo?
Io arrivo al femminismo da adulta, ho più di trent’anni di cui una buona decina spesi nella militanza nei centri sociali e nei movimenti antagonisti degli anni Novanta. È una fase di ‘bassa’: i movimenti hanno perso la capacità analitica e di penetrare il tessuto sociale dei decenni precedenti. Questo avviene soprattutto dopo Genova 2001, non soltanto per la repressione ma più probabilmente perché Genova 2001 è il punto conclusivo di un ciclo della soggettività e di movimento, il punto di massima espressione di un’esperienza militante che nonostante un grande sforzo di mobilitazione non consegue alcun cambiamento. E dopo la grande mobilitazione internazionale contro la guerra in Iraq nel 2003 si scontrerà definitivamente con l’incapacità di influenzare la politica in un modo ormai radicalmente cambiato.

Anna Curcio nella redazione di Radio Gap, Genova, 19 luglio 2001

È in questa fase che mi avvicino al femminismo, dopo aver messo più chiaramente a fuoco il machismo e la misoginia di cui ho fatto esperienza nei movimenti cosiddetti misti, ma soprattutto ragionando politicamente sulle trasformazioni del lavoro e la precarietà di vita di tante e tanti, me compresa. Per leggere la condizione precaria, alla metà degli anni Zero, la critica femminista al lavoro di riproduzione si rivela uno strumento utilissimo. Il femminismo marxista di Alisa Del Re prima e Silvia Federici e Maria Rosa Dalla Costa subito dopo mi fanno da bussola per leggere le trasformazioni del lavoro alle soglie del nuovo millennio, ma anche per orientarmi nel dibattuto femminista, attraverso le diverse piste analitiche e genealogie. In quegli anni faccio parte di un collettivo femminista, di quelli detti di “terza generazione”, che agisce all’incrocio tra precarizzazione della vita e gerarchie del genere, il collettivo Amatrix, e svolgo un dottorato di ricerca in Sociologia politica, all’università della Calabria, studiando i conflitti sociali.
È attraverso questo percorso sui generis che arrivo al femminismo e non sono sicura che tutte le femministe possano riconoscerlo come tale.

Alisa Del Re, 16 maggio 2022

Quale istanza vorresti fosse prioritaria nel femminismo, nei femminismi?
Un percorso teso a ripensare e agire discorsi, immaginari e pratiche di cambiamento rispetto alle gerarchie sociali del sesso e del genere a fondamento delle nostre società, per decostruirle e abbatterle. Siccome difficilmente prenderemo il Palazzo d’Inverno del patriarcato, occorre iniziare a lavorare nel quotidiano, non solo individualmente ma collettivamente, per mettere in discussione quelle gerarchie. Come ha affermato la studiosa abolizionista afroamericana Ruth Wilson Gilmore, il capitale per vivere ha bisogno delle differenze, la razza e il razzismo gli danno lo strumento per alimentare queste differenze. Io credo che, in parallelo, il discorso si possa fare per le differenze sessuali e di genere: il capitalismo ha bisogno di differenze e il sessismo gli dà gli strumenti per costruirle. Combattere queste gerarchie è il senso della lotta femminista.

Come vedi il futuro per i diritti delle donne e delle persone non binarie?
Non soltanto le nefaste politiche di questo governo ma complessivamente le politiche neoliberiste che governano il mondo da ormai quarant’anni hanno messo sotto attacco i diritti, quelli delle donne e delle persone non binarie e i diritti nel loro insieme. Se abbiamo pensato che fosse possibile conquistare i diritti una volta per sempre, abbiamo sbagliato: i diritti non sono mai dati ma vivono nei rapporti di forza tra le parti sociali, e oggi i rapporti sono decisamente a nostro sfavore. Per questo, occorre tenere alta l’attenzione. In questi giorni abbiamo visto andare in scena in Parlamento l’arrogante attacco del governo al diritto di aborto.

Détournement di un manifesto antiabortista, Non Una Di Meno 2021

C’è, senz’altro, da preoccuparsi dato anche un clima sociale e culturale asfissiante che, per governare una situazione sociale complessa, prende di mira diritti e libertà. Non dobbiamo però dimenticare che il piano formale dei diritti va sempre accompagnato da un piano sostanziale di occasioni e possibilità capaci di modificare materialmente il contesto in cui viviamo. Se, rispetto all’aborto, il nodo, come credo, è quella dell’autodeterminazione delle donne rispetto alla propria capacità riproduttiva, alla presenza dei movimenti antiabortisti nei consultori mi preoccupa altrettanto, e forse di più, la precarizzazione e l’impoverimento di un’intera generazione di donne che ha perso le condizioni di possibilità per la maternità.
L’Italia è il paese che negli anni Settanta aveva lo Statuto dei lavoratori più forte dell’Europa occidentale e che oggi, senza che nessuno di “chi conta” volesse accorgersene, ha assunto la precarietà come dato strutturale e introdotto forme contrattuali capestro come il contratto a chiamata. Ecco, la lotta per il diritto all’aborto deve essere accompagnata da una lotta per le garanzie sociali e del lavoro di tutte e tutti. È questo il piano del cambiamento da praticare.

In copertina: Anna Curcio all’Università estiva di Attac Italia sul tema Lavoro e non lavoro, Cecina Mare (Livorno), settembre 2017.

La galleria fotografica qui presentata è stata composta da Anna Curcio coerentemente con la riflessione sul proprio attivismo e sui propri riferimenti.

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Articolo di Laura Coci

Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.

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