In Francia le conseguenze delle ultime elezioni europee sono state molto più forti che altrove.
La sera del 9 giugno scorso, subito dopo i risultati elettorali, Jordan Bardella, presidente del Rassemblement National (Rn, ex Front National, partito nazionalista e razzista fondato da Jean-Marie Le Pen), forte di uno storico successo (31,5%), ha chiesto nuove elezioni legislative. Neanche due ore dopo, il presidente della Repubblica Emmanuel Macron ha annunciato lo scioglimento dell’Assemblée Nationale (la Camera francese) e indetto le nuove elezioni che si terranno il 30 giugno e il 7 luglio.
Le elezioni legislative francesi si svolgono con sistema uninominale a doppio turno: la Repubblica è suddivisa in tante circoscrizioni quanti sono i seggi da attribuire e ogni circoscrizione elegge la persona che ha ottenuto più voti, indipendentemente dal partito di provenienza. Dunque, la composizione dell’Assemblée Nationale non indica la percentuale di gradimento di ogni partito su scala nazionale bensì rispecchia le realtà locali. Questo rende difficile fare predizioni veritiere e affidabili, soprattutto in un momento confuso in cui tutto si evolve rapidamente.
A partire dal giugno 2022, nell’emiciclo dell’Assemblée Nationale si confrontano, anzi si scontrano, tre formazioni – una coalizione di sinistra, una filopresidenziale e un partito di estrema destra, più qualche gruppo minore – nessuna delle quali ha i numeri per governare da sola o per far cadere il governo né la volontà di dialogare con le altre.
Dunque, questa situazione di stallo non è certo una novità degli ultimi giorni. Nel discorso di domenica sera, Macron ha detto che «il Paese ha bisogno di una maggioranza chiara». Viene da chiedersi come mai lo scorso anno il presidente non sentisse il Paese esprimere questo stesso bisogno.
Durante le manifestazioni contro la riforma delle pensioni (gennaio-giugno 2023), “approvata a forza” contro la volontà della popolazione e dei sindacati e senza votazione parlamentare, e durante le rivolte popolari contro le violenze razziste della polizia (giugno-luglio 2023), indire elezioni avrebbe voluto dire rafforzare enormemente la sinistra. Il Paese aveva bisogno di una maggioranza, ma il governo no: per legiferare, bastava l’articolo 49.3 della Costituzione (secondo cui una legge si considera automaticamente approvata, senza votazione parlamentare, a meno che una mozione di sfiducia non faccia cadere il governo entro due giorni) e una buona dose di lacrimogeni.
Già durate la prima settimana dello scorso luglio, quando la Francia ha assistito a una violenza inaudita da parte delle forze dello Stato per reprimere le rivolte spontanee seguite dell’uccisione a freddo di un adolescente di origini algerine nella banlieue parigina di Nanterre da parte di un agente, era chiaro che il governo e l’estrema destra andassero a braccetto: entrambi hanno chiesto la presunzione di legittima difesa degli agenti e l’impunità per i poliziotti anche in caso di abusi gravi, ed entrambi hanno sostenuto la polizia nel braccio di ferro contro la magistratura quando un poliziotto è stato arrestato per aver commesso violenze gravissime e ingiustificate. Dopo di che, il governo ha dimostrato di averla trovata, questa maggioranza: nel dicembre 2023, una legge sull’immigrazione alquanto agghiacciante (prevedeva principalmente il concetto di “priorità nazionale” per l’accesso a lavoro, diritti e servizi, fino ad ostacolare il ricongiungimento familiare e al divieto di accesso in ospedale per persone senza documenti), proposta dal ministro dell’interno Gérald Darmanin, è stata votata dalla coalizione macronista insieme al partito di destra Les Républicains(Lr) e al Rassemblement National(Rn). Buona parte del programma di Marine Le Pen vedeva la luce in quella legge, poi in gran parte bloccata dal Consiglio Costituzionale. La legge fu tanto scandalosa da far dimettere parte del governo stesso.
Eppure, nel 2017 e nel 2022, Emmanuel Macron era stato eletto come alternativa e sbarramento all’estrema destra di Marine Le Pen. Votare leggi insieme alla propria avversaria è una maniera quantomeno bizzarra di sbarrarle la strada.

Per indire le nuove elezioni, nonostante l’instabilità durasse da due anni, Macron ha aspettato che il partito suo rivale (apparente) raggiungesse un record storico in elezioni, quali quelle europee, che sono di fatto un sondaggio.
A giugno del 2022, la coalizione di sinistra nota come Nouvelle Union Populaire Écologique et Sociale (Nupes) era in testa al primo turno delle elezioni legislative e a un passo dalla maggioranza assoluta. In molte circoscrizioni, anche l’estrema destra aveva buoni risultati. Due mesi prima, Macron era stato rieletto grazie al “fronte repubblicano”, ovvero al meccanismo per cui, davanti al rischio di vittoria dell’estrema destra, tutte le formazioni si coalizzano in appoggio all’altro candidato. Rompendo questo meccanismo, al secondo turno delle legislative del 2022, l’area macronista ha invitato a votare «contro i due estremi» (ovvero a non votare nelle circoscrizioni in cui si fronteggiavano la Nupes e l’Rn) per evitare una maggioranza assoluta di sinistra: l’ex Front National ha perso l’epiteto storico di «nemico della République».
Il risultato è stato il passaggio dell’Rn da 8 a 89 deputati e deputate. Poco, di fronte ai 151 seggi della Nupes, ma abbastanza per imporsi come forza rilevante a livello nazionale. Si può dire che lo spaccamento del fronte repubblicano abbia costituito il primo scandalo del secondo quinquennato di Macron.
Da allora, il governo e i suoi ministri, la presidente dell’Assemblée Nationale Yaël Braun-Pivet, le forze di polizia e i media più obbedienti giocano alla caccia alle streghe contro i membri della Nupes, in particolare gli e le esponenti de La France Insoumise(Lfi) – l’ala maggioritaria, più radicale e combattiva della coalizione – e al tempo stesso tendono a normalizzare le frasi razziste della destra. Bersagli di numerose sanzioni disciplinari per violazione del regolamento parlamentare (le cui infrazioni consistono nell’esporre in aula bandiere o cartelli, mentre gli avversari colpevoli di ingiurie razziste subiscono pene più lievi) o per aver partecipato a manifestazioni non autorizzate, i deputati e le deputate Lfi costituiscono di fatto il capro espiatorio di tutto l’arco politico con l’appellativo (un tempo usato contro il Front National) di «nemici dei valori repubblicani». Nel frattempo, sotto Macron, l’ex nemico pubblico è diventato un partito rispettabile. L’ultimo argomento usato per screditare La France Insoumise è quanto sta accadendo nella Striscia di Gaza: davanti al genocidio, commesso con armi europee e nordamericane, la formazione creata da Jean-Luc Mélenchon chiede l’interruzione della vendita di armi a Israele e qualifica Hamas come «gruppo armato di resistenza a una tragedia e a un’occupazione che prosegue dal 1948», pur denunciandone i «crimini di guerra». Invece, subito dopo la condanna dell’Onu, la televisione nazionale francese ha invitato Benjamin Netanyahu in quanto «alleato dell’Europa nella guerra al terrorismo» e la polizia ha sparato lacrimogeni su chi protestava. Il governo si conferma ferreo alleato di Israele, non riconosce la gravità del genocidio in corso e, insistendo sul diritto di Israele a difendersi, definisce «terrorismo» la resistenza di Hamas.

Quella palestinese è una questione che tocca da vicino i nervi scoperti della Storia francese: nelle manifestazioni di solidarietà con la popolazione di Gaza molte persone sventolano bandiere algerine, facendo notare che oggi Hamas ha la stessa legittimità che aveva il Front de Libération National durante la liberazione dell’Algeria. Può essere questo il motivo per cui da un lato il governo e dall’altro il Rassemblement National, nonostante sia sempre stato un partito storicamente antigiudaico, antiarabo e antisemita (il suo fondatore Jean-Marie Le Pen, responsabile di crimini di guerra in Algeria, fu condannato per aver detto che «le camere a gas sono solo un dettaglio della storia della seconda guerra mondiale»), sono oggi ferventi sionisti e accaniti persecutori di chi chiede a Israele il rispetto del diritto internazionale. Durante la campagna in vista delle elezioni europee, solo a La France Insoumise è stato impedito dalla polizia di tenere comizi e conferenze, accusando varie candidate di «antisemitismo e apologia di terrorismo» per aver pronunciato frasi come «oggi la Spagna, la Norvegia e l’Irlanda riconoscono lo Stato di Palestina, è fondamentale che anche la Francia lo faccia, che non sia tra i complici di un genocidio». Questo tema ha spaccato anche la ex Nupes, di cui facevano parte insieme il partito socialista (sionista), e Lfi (sostenitrice della resistenza palestinese), di fatto rimasta isolata a anche a sinistra.
È in questo contesto che le elezioni sono state convocate, con una sinistra frammentata, un centrodestra fagocitato da Macron, e di fatto imploso, e un’estrema destra all’apice storico del consenso. Soprattutto, le elezioni sono state convocate a sorpresa, senza dare a nessuno il tempo di prepararsi. Difficile che la decisione sia casuale: sembra quasi uno schiaffo a quella sinistra che si è permessa di strappare due anni fa la maggioranza al presidente.
Cosa ci si può aspettare dalle imminenti elezioni legislative?
I risultati del 9 giugno danno la coalizione macronista al 14%, la metà del risultato di Macron al primo turno delle presidenziali di due anni fa. È improbabile che nelle prossime settimane il presidente, al centro di tutte le ostilità, recuperi il consenso e la maggioranza. A meno che non speri in un “effetto secondo turno”, facendosi di nuovo votare per disperazione davanti alla crescita del “mostro”. Ma questa strategia potrebbe non funzionare più: per molte persone ormai il “mostro” è lui.
Visto che di fatto, tra riforme liberiste e repressione, sta già conducendo in maniera sempre più palese una politica di estrema destra, la differenza fra lui e l’estrema destra “ufficiale” si fa sempre più sottile. Se Macron riuscisse di nuovo a impedire all’estrema destra di ottenere la maggioranza, costituirebbe davvero un’alternativa alle sue politiche razziste e autoritarie? In molti si chiedono se valga ancora la pena scegliere una destra estrema di fatto per evitare un’estrema destra di nome. È dal 2002 che il già citato “fronte repubblicano” sbarra la strada alla famiglia Le Pen e che “l’alternativa all’estrema destra” attua politiche sempre più vicine all’estrema destra facendo lievitare il Front National e i suoi derivati. Così facendo, tutte le peggiori leggi sono state legittimate e accettate in nome del rischio di altre ancora peggiori. Nel 2002, Jean-Marie Le Pen arrivò al secondo turno (che poi perse contro Jacques Chirac) con il 16% dei voti; oggi il partito di sua figlia ha ottenuto circa il doppio: non si può dire che questa strategia di sbarramento stia funzionando. Macron è gradualmente e abilmente arrivato a sdoganare l’indicibile e a farlo accettare. Non sarà quindi sorprendente l’astensione della sinistra nelle circoscrizioni in cui la coalizione presidenziale andrà al secondo turno fronteggiando l’estrema destra. Cantava la rapper marsigliese Keny Arkana nel 2006: «nel regno dei ciechi gli orbi sono re come un fascista al primo turno».
Inoltre, giocare a «c’est moi ou l’extrême droite» («o io o l’estrema destra») rischia di rovesciare i rapporti di forza e di trasformarsi in «c’est nous de l’extrême droite ou lui» («o noi dell’estrema destra o lui»): questo ricatto elettorale, ripetuto fino allo sfinimento da un personaggio tanto detestato, può dar forza all’estrema destra in quanto “voto utile” per cacciare l’insopportabile Macron.
L’altro elemento da tenere in considerazione è che, stando ai risultati del 9 giugno, il “voto utile” repubblicano e antifascista non è più quello presidenziale. Su proposta del deputato Lfi François Ruffin, la sinistra (Partito socialista, Verdi, Partito comunista e LFi), colta a sorpresa e spaventata, si è unita in vista delle legislative in una coalizione che porterà il nome di Front Populaire 2024 con l’obiettivo disperato di sbarrare ancora una volta la porta di cui stavolta Marine Le Pen e Jordan Bardella hanno già le chiavi in mano. La differenza rispetto alla Nupes di due anni fa è che la formazione maggioritaria nella coalizione sarà il Partito socialista e non più La France Insoumise, dato che le elezioni arrivano in un pessimo momento per la sinistra radicale. Sarà una coalizione disperata che avrà breve durata dopo le elezioni, più un grido di paura che una vera alleanza, dati i vari dissidi interni (principalmente sull’energia nucleare, approvata da comunisti e socialisti e osteggiata da verdi e insoumis, e su Israele, sostenuto dai socialisti e detestato da tutti gli altri), che difficilmente riuscirà a governare ma che potrà impedire l’incubo storico che l’Rn conquisti la maggioranza assoluta. Anzi, visto il calo e l’antipatia di Macron, il Front Populaire sarà il baluardo antifascista del 2024, nonostante al momento sia la realtà più in difficoltà. Ma in caso di maggioranza (anche solo relativa), Macron sarà disposto a governare con la sinistra?

L’unico dato di fatto evidente è l’ascesa del nazionalismo. L’estrema destra è a un passo dal governare da sola. L’ipotesi più temuta (ma non molto probabile) è che il Rassemblement National conquisti davvero la maggioranza assoluta dei seggi. A quel punto, solo il Consiglio Costituzionale potrà bloccare le leggi peggiori.
In assenza di una maggioranza assoluta, l’Rn può contare sull’alleanza con Reconquête, piccolo partito xenofobo e misogino creato da Éric Zemmour (polemista più volte condannato per «istigazione all’odio razziale»), fino a pochi giorni fa presieduto da Marion Maréchal (nipote di Marine Le Pen), che spera nelle prossime legislative perché al momento non è presente in nessuna istituzione. In vista della possibile formazione di un governo di estrema destra, Marion Maréchal ha lasciato Zemmour per rientrare nel partito della zia.
In caso di maggioranza forte ma non assoluta, il Rassemblement National potrebbe tentare un’alleanza con Les Républicains, storico partito di destra, fondato da Nicolas Sarkozy e oggi guidato da Éric Ciotti (deputato di Nizza vicino alle idee nazionaliste), imploso sotto Macron che potrebbe vedere nell’appoggio a un eventuale governo Rn il modo per recuperare un peso. Il leader ha ammesso che i due partiti «non hanno mai avuto idee così diverse» e proposto un avvicinamento all’Rn; con questa mossa, Ciotti spera di poter arrivare al governo e prendere il posto di Gérald Darmanin e di Christian Estrosi (rispettivamente ministro dell’interno e sindaco di Nizza), ma la maggioranza del partito, per quanto conservatrice e non ostile al razzismo, è fedele alle posizioni repubblicane e vedrebbe come un’onta l’alleanza con l’ex Front National. In tutti questi casi, Jordan Bardella sarebbe nominato primo ministro, cosa che Macron ha sempre fatto credere di non volere ma che ora sembra pronto ad accettare. Il governo di Bardella potrebbe poi infangarsi e perdere credibilità, reggere bene e crescere ancora, o lamentarsi di non poter far nulla e chiedere ancora più potere in vista delle presidenziali del 2027.
Un’ipotesi assai probabile è una ripetizione di quanto accaduto due anni fa: una nuova batosta per il presidente, che continua a sentirsi onnipotente nonostante cresca l’odio nei suoi confronti, e di nuovo una situazione di stallo, dato che nessuna delle tre formazioni sembra in grado di conquistare la maggioranza assoluta da sola.
Cosa accadrebbe in questo caso? Difficile indovinare. Un nuovo scioglimento dell’Assemblée Nationale? Un nuovo governo senza maggioranza che si muove a colpi di 49.3? Una coalizione, stavolta ufficiale, fra Rn, Lr e il gruppo macronista?
L’ago della bilancia sarà chi, agli occhi dell’opinione pubblica, giocherà il ruolo, reale o percepito, di “alternativa”.
Copertina e foto di Andrea Zennaro.
***
Articolo di Andrea Zennaro

Andrea Zennaro, laureato in Filosofia politica e appassionato di Storia, è attualmente fotografo e artista di strada. Scrive per passione e pubblica con frequenza su testate giornalistiche online legate al mondo femminista e anticapitalista.
