Il fascino del true crime

Per chi ama il genere horror/slasher il nome di Laura Palmer suonerà sicuramente familiare. Nonostante sia la vittima del brutale omicidio che sconvolge la tranquilla cittadina americana di Twin Peaks, Palmer è l’effettiva protagonista della serie I segreti di Twin Peaks, ideata da David Lynch e Mark Frost.
Il mistero che aleggia attorno alla sua morte la rende una presenza costante nella vita di protagonisti e protagoniste, impossibile da ignorare anche per spettatori e spettatrici.

Laura Palmer da I segreti di Twin Peaks

Laura Palmer è, per certi versi, l’archetipo della vittima perfetta: bellissima, giovanissima, morta; la sua fine è un enigma da risolvere, non solo per scoprire chi sia il colpevole, ma anche per vederne le motivazioni, ciò che ha spinto lui o lei a togliere la vita a un’altra persona in un modo così crudele.
Il successo di I segreti di Twin Peaks, all’epoca della sua uscita (1990-91) come oggi, e di altri prodotti simili è sintomo di una questione molto più ampia: la morbosa fascinazione per la morte brutale, specie quando la vittima è una donna.

True crime è il nome del genere di media che si occupa di analizzare minuziosamente i retroscena dei casi di cronaca nera. Quello che più sorprende è che le principali consumatrici e produttrici di questo genere di contenuti sono altre donne.

Elisa True Crime, alias Elisa de Marco, è una delle narratrici di true crime più famose d’Italia

Solo in Italia si possono citare ad esempio: la youtuber Elisa True Crime, al secolo Elisa de Marco, che racconta di casi di cronaca nera da tutto il mondo ― seguita da quasi un milione di follower; il duo di Bouquet of Madness, formato da Federica Frezza e Martina Peloponesi, che nel loro podcast trattano di delitti irrisolti e sparizioni anomale; il programma televisivo Un giorno in pretura, ideato e condotto da Roberta Petrelluzzi, che porta le telecamere nelle aule dei tribunali per seguire i casi di cronaca, da Tangentopoli al Maxiprocesso di mafia passando per il processo al mostro di Firenze, divenendo uno dei programmi più longevi della Rai.

Martina Peloponesi e Federica Frezza hanno portato il loro podcast Bouquet of Madness anche in spettacoli dal vivo
Roberta Petrelluzzi

A cosa è dovuto il successo di un genere così cruento presso un pubblico prettamente femminile, specie se si considera che, spesso e volentieri, le vittime sono altre donne? Una possibile risposta ce la dà Jude Doyle in Il mostruoso femminile: «[…] Le donne ossessionate dagli uxoricidi non stanno indulgendo al sensazionalismo da tabloid o applicando complicate metafore psicosessuali, ma sono realmente preoccupate che i loro mariti stiano per ucciderle, e quella paura non è irrazionale […] Le storie dei moderni Barbablù sono utili, perché permettono alle donne di discutere della pervasività della violenza coniugale. Con i film slasher riescono a convertire il trauma privato in uno spettacolo pubblico e a fornire così alle donne un linguaggio del loro dolore».
Doyle nota come l’horror contemporaneo abbia una solida base nel gotico, un genere prettamente femminile sia perché prodotto da donne ― Mary Shelly e il suo Frankenstein, Ann Radcliffe e il suo I misteri di Udolpho ― sia perché consumato soprattutto da giovanissime, una dinamica che vediamo ancora oggi nell’economia del true crime: «Fin dalla nascita le donne vengono educate a ignorare o a perdonare il cattivo comportamento degli uomini, soprattutto all’interno di una relazione; non dovremmo allora sorprenderci delle conseguenze, per quanto strane esse siano».

Elisa de Marco dice a The Wom: «Non posso affermarlo con certezza, ma credo risulti più facile per una donna identificarsi nei casi. Considerando che statisticamente è molto più comune incontrare una donna nel ruolo di vittima, ci identifichiamo in lei, riuscendo meglio ad empatizzare, ma non solo».
I dati Istat, a tal proposito, sono impietosi: basta vedere i numeri da capogiro dei femminicidi, dei centri antiviolenza, degli stupri che vengono denunciati. L’idea che il successo del true crime sia direttamente collegato al clima di violenza percepita ed effettiva contro le donne non pare del tutto infondata: Franca Leosini, conduttrice della serie Storie maledette, in una intervista alla rivista Elle così dichiara riguardo la sua esperienza con queste drammatiche storie: «[…] Che in ognuno di noi c’è un alter ego in incognito, un doppio io e quando prende il sopravvento può indurre a gesti estremi che non ci somigliano. Parlo dei non professionisti del crimine, la malavita è un’altra sezione dell’umanità. I più fortunati di noi non attraversano quella soglia, perché la vita ci ha messo in condizioni di essere più forti, ma potrebbe succedere a tutti».
Secondo Amanda Vicary, psicologa dell’Università dell’Illinois, il fascino che esercitano le storie cruente sulle donne può essere spiegato se le si considera dei “manuali” di sopravvivenza: ascoltando le storie di donne uccise è possibile imparare a riconoscere i segnali che hanno portato alla loro morte, e quindi costruirsi l’illusione di essere preparate ad affrontare simili situazioni per non diventare la prossima vittima e, potenzialmente, la prossima protagonista dei podcast e degli show di true crime. Rimane poi sempre presente il fascino che il male tende a esercitare su di noi: l’essere umano è un animale per natura curioso, vogliamo comprendere e capire il perché delle cose, specie di fenomeni come l’omicidio, un crimine universalmente considerato tra i più efferati e condannato con pene severe eppure terribilmente comune.

Tutto spiegato quindi? Non proprio: i problemi etici legati al raccontare questo genere di storie non sono pochi. Primo fra tutti spesso non c’è il consenso dei parenti della vittima, che non di rado divengono a loro volta il centro dell’attenzione di persone senza scrupoli alla ricerca dello scoop, le quali tendono anche a biasimare la vittima per quanto le è accaduto; c’è poi la questione morale attorno a quanto sia lecito creare programmi di intrattenimento attorno a temi cruenti come la morte violenta ― si veda la problematica relativa al successo della serie Netflix Dhamer, criticata sia dalla comunità queer che dai parenti delle vittime del serial killer Jeffry Dhamer, che hanno dichiarato quanto sia stato traumatico vedere i loro cari morire di nuovo sul piccolo schermo; la tendenza a mettere al centro della narrazione il carnefice ― per cercare di capirne le motivazioni ― relega la sua vittima a mero accessorio; internet ha permesso poi a sedicenti “esperti” ed “esperte” di avanzare le proprie ipotesi attorno a casi rimasti irrisolti, e molti e molte di loro vanno poi a infastidire le forze dell’ordine e perfino i parenti della vittima perché diano loro ascolto ― i cosiddetti reddit detectives, dal nome del sito, reddit.com, dove si riuniscono; è stato poi comprovato che l’eccesivo consumo di simili contenuti tende a rendere le persone paranoiche.

Uno dei problemi legati al genere true crime è la commercializzazione, considerata di poco gusto e offensiva

Non tutto il male vien per nuocere, però: non di rado sono i parenti delle vittime ad avvicinarsi ai produttori e alle produttrici di contenuti true crime, come nel caso della youtuber Kendall Rae. Grazie alla diffusione di una cultura più coscienziosa, le vittime e le loro storie sono sempre più al centro della narrazione, permettendo di promuovere e preservarne la memoria al di là della loro terribile fine; l’interesse per il true crime, inoltre, ha permesso di riportare l’attenzione su vecchi casi, permettendo così la loro risoluzione grazie alle nuove tecniche investigative ― esemplare è il caso di Elisa Claps, risolto molti anni dopo anche grazie all’attenzione mediatica mai del tutto sopita che ha impedito la chiusura delle indagini.
Jennifer Guerra su The Vision scrive: «[…] L’interesse crescente del pubblico femminile verso il true crime può essere quindi letto come il desiderio di riappropriarsi di una storia in cui le donne sono sempre stati oggetti e mai soggetti, provando a riscrivere le regole di un genere che se ne è servito abbastanza». Un’interpretazione del fenomeno convincente ma che non risolve gli elementi problematici.

Anni dopo la prima messa in onda, I segreti di Twin Peaks è ancora una serie cult e Laura Palmer è entrata nella cultura di massa per il fatto di essere stata uccisa, per essere morta.
Toponomastica femminile da tempo si oppone all’intitolazione di luoghi pubblici alle vittime di femminicidio, cercando di non alimentare quella cultura della morte che spesso circonda le donne e che le vuole degne di essere ricordate soltanto per la loro fine. Si batte piuttosto per evidenziare modelli femminili positivi che siano di esempio per le nuove generazioni.
Ed è forse in quella attenzione che possiamo trovare la vera ragione per cui così tante donne, soprattutto giovani, si appassionano ai casi di cronaca nera. Se il true crime sia un modo di alimentare questa cultura, o un modo di elaborarla per poi eventualmente superarla, è però difficile dirlo.

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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.

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