Democrazia, economia, cura. Parte Quarta 

L’altro libretto prezioso a cui ho attinto a piene mani è quello della filosofa politica Giorgia Serughetti, secondo la quale la pandemia ha riportato al centro il bisogno di respirare, cioè vivere, condurre una vita buona e degna di essere vissuta e la necessità di un nuovo lessico della politica, al cui centro stia la parola cura. La cura deve essere posta al centro del progetto politico che chiamiamo democrazia. La pandemia ha messo a nudo a livello globale un gigantesco, diffuso bisogno di cura, al quale nessun sistema pubblico, in nessuna parte del mondo, ha saputo dare risposte. Democratizzare le attività di cura e l’accesso alla cura significa realizzare, in senso sostanziale, l’eguale libertà di cittadine e cittadini a realizzare l’unico diritto definito fondamentale dalla nostra Costituzione, un diritto che è anche interesse della collettività. Possiamo ricostruire le nostre società come società che curano. Quello della pandemia è stato un tempo di sovversione delle priorità a livello pubblico e privato, un tempo di prevalenza del collettivo sull’individuale oltre che del materiale sull’immateriale. Fenomeni come l’informatizzazione, la finanziarizzazione, il trionfo della produzione immateriale avevano fortemente ridotto, nella percezione comune, il peso dei corpi al lavoro; le attività relative al corpo, alla cura, all’educazione e al sostentamento erano andati sempre più incontro al deprezzamento sociale e alla marginalizzazione culturale. Questo anche senza considerare il lavoro riproduttivo non retribuito, che non ha mai goduto della necessaria considerazione e che, se fosse calcolato nel Pil anche solo forfettariamente come avviene per l’economia sommersa e quella illegale, porterebbe a una riduzione del rapporto debito pubblico/pil. 

Elena Pulcini, La cura del mondo

Che cosa abbiamo appreso in pandemia? Che senza corpi in salute e al lavoro, in casa o negli ospedali, in fabbrica o nei campi, negli esercizi commerciali o nella ristorazione, nei teatri o nelle tipografie, anche le produzioni immateriali perdono quasi ogni valore, scrive Serughetti. Riflettiamoci: le attività più svalutate o malpagate sono quelle che ci hanno impedito di morire. Sono state definite essenziali e non più risorse destinate alla produzione del profitto. La filosofa politica si chiede e ci chiede: «Può davvero il dopo Covid continuare a ignorare i corpi nella loro pesante e vulnerabile fisicità? Può chiudere gli occhi di fronte alle condizioni disumane in cui lavora chi ha permesso ai raccolti agricoli di arrivare nelle case? Può accettare il supersfruttamento che subiscono categorie come i lavoratori della logistica e delle piattaforme? O i rider che hanno portato il cibo nelle nostre case durante la pandemia e continuano a farlo? Può continuare a negare diritti alle lavoratrici domestiche e alle assistenti familiari – spesso migranti – spesso irregolari, quasi sempre sottopagate che suppliscono incessantemente alle carenze del Welfare per bambini e anziani?» Molte/i di loro e molti altri sono stati dimenticati, cancellati dal discorso pubblico, tutto proiettato nella cosiddetta ripresa, arrestata quanto inaspettatamente non si sa, dalla guerra per procura Russia-Ucraina-Nato. Per non parlare del costante de-finanziamento del Ssn i cui effetti sono stati l’incapacità di far fronte all’epidemia, allo smantellamento dei presidi di sanità territoriale, allo sbilanciamento tra pubblico e privato.  

Elena Pulcini

Un altro aspetto che la crisi ha evidenziato è stato il ruolo di primo piano svolto dalle donne in questa fase storica. Un carico, quello domestico, che per molte donne si è aggiunto a quello di smart working, nonché alle occupazioni extradomestiche. Le donne costituiscono i due terzi del personale sanitario. Non per caso è stata un’infermiera sfinita di lavoro a fine turno a diventare una delle immagini simbolo della lotta contro il virus in Italia. Quando le donne lavorano fuori casa, sono spesso altre donne a svolgere lavori domestici e di cura. La crisi pandemica ha funzionato come un pettine che ha portato tutti i nodi in evidenza. Ha portato a galla la divisione sessuale del lavoro in tutti gli ambiti e l’intersezione tra le disuguaglianze di genere e quelle di classe, di nazionalità, di status migratorio. Ha rivelato la dipendenza del lavoro produttivo da quello riproduttivo, ha messo in luce la nostra vulnerabilità e la nostra fragilità, quello che da tempo sostengono, tra gli altri, filosofe e filosofi come Elena Pulcini e Levinas. Eravamo di fronte a una grande opportunità per il pensiero e per la politica: fare tesoro di questi elementi di consapevolezza per costruire una società migliore, ricostruire un sistema sanitario universalistico, reinventare il welfare, mettere al mondo quella società della cura che scardina il primato della produzione sulla riproduzione e archivia l’etica della prestazione e della concorrenza. Purtroppo sappiamo che non è andata così. Non se ne parla quasi più, soprattutto nel discorso pubblico, che si occupa di altro. Che fare? 

Giorgia Serughetti

Serughetti suggerisce di offrire visioni alternative che possano generare cambiamento. Abbiamo letto studi che collegano l’epidemia all’emergenza ecologica, alla distruzione degli ecosistemi che induce contatti inediti tra gli esseri umani e altri animali (basti per tutti la lettura di Spillover di Quammen), ai cambiamenti climatici. Una rete di 3mila intellettuali, tra cui Thomas Piketty e Nancy Fraser, hanno firmato un appello, Democratizing work, in cui hanno chiesto di far partecipare i lavoratori alle decisioni economiche e alla de-mercificazione del lavoro. (Ci pensa già la nostra Costituzione, completamente disapplicata, all’articolo 46). Trasmissioni necessarie come La Fabbrica del mondo di Paolini e Pievani ci hanno raccontato i rischi dell’Antropocene o Capitalocene. Nella pandemia siamo stati tutti fragili e vulnerabili, tutti dipendenti gli uni/le une dagli/dalle altre. E tutti/e responsabili per gli altri (articolo 2 della Costituzione). Cura è anche care, il preoccuparsi di qualcuno, parola che non significa solo il lavoro di accudimento cui in Italia colleghiamo la parola cura. Joan Tronto, studiosa di riferimento per la società della cura, scrive per rispondere alla domanda «Di chi e di che cosa dobbiamo prenderci cura?» E così si risponde: «Nel senso più generale la cura è un’attività della specie che comprende tutto ciò che facciamo per mantenere, per perpetuare, riparare il nostro mondo in modo da poterci vivere al meglio. Questo mondo include il nostro corpo, il nostro io e il nostro ambiente, che cerchiamo di intrecciare in una rete complessa e vitale, un sistema complesso di manutenzione del vivente.» Non è così lontano dal pensiero di Praetorius quello di Tronto. È necessario ricomprendere tanto il lavoro domestico, quanto quello dell’educazione, della sanità e della protezione dell’ambiente nell’economia.  

(continua)

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Articolo di Sara Marsico

Giornalista pubblicista, si definisce una escursionista con la e minuscola e una Camminatrice con la maiuscola. Eterna apprendente, le piace divulgare quello che sa. Docente per passione, da poco a riposo, scrive di donne, Costituzione, geopolitica e cammini.

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