Fin da bambina, e in seguito durante l’adolescenza, mio padre amava farmi dei regali, anche al di fuori delle solite ricorrenze e, a prescindere dall’oggetto che ricevevo in dono, mi riempiva di gioia il semplice fatto che lui avesse pensato di regalarmi qualcosa. Penso per questo, e non solo per questo, di avere avuto un’infanzia felice, mi sentivo la “cocca” di papà.
Passavano gli anni e la vita procedeva serena, io ero apprezzata in casa e anche nel contesto sociale in cui mi muovevo, per i buoni risultati scolastici, per i miei atteggiamenti virtuosi, per i miei comportamenti ben educati di brava ragazzina.
Vivevo in un paese del sud, né troppo piccolo, né troppo grande. Intorno ai dodici anni avevo cominciato a capire che nel mio paese agiva, nella testa di ciascuno, un’idea dominante per ogni atteggiamento, per ogni comportamento, per ogni “sentire” e per ogni “agire” nella propria vita e quella idea era l’unica accettabile e accettata dal consenso sociale.
Chiunque avesse cercato di seguire un diverso, originale modo di vivere avrebbe rischiato la critica, la condanna, l’espulsione dal corpo sociale.
Questo cercava di insegnarmi mia madre quando mi diceva “cosa dirà la gente”, ogni volta che io maturavo un pensiero, un’idea, un desiderio non confacente con il ruolo che i miei genitori avevano confezionato per me e ogni volta mi sembrava che aderire a quel pensiero dominante volesse dire imbalsamare la mia anima.
Era il tempo in cui mi stavo appassionando alla musica che ascoltavo e riascoltavo alla radio e mio padre mi regalò un mangiadischi e, almeno una volta la settimana, mi portava un 45 giri delle canzoni che più amavo.
Ero poco più che una bambina nei miei dodici o tredici anni, non ricordo bene, e con le mie amiche decidemmo di fare una festa a casa di Anna. Io proposi di portare il mio mangiadischi con i dischi che avevo e questo suscitò un grande entusiasmo nella combriccola. Eravamo vicine di casa, e quando andai a prenderlo, Anna mi accompagnò e mi aspettò sull’uscio. Mentre uscivo incrociai mio padre che mi chiese dove andassi e cosa stessi facendo.
«Andiamo a casa di Anna, facciamo una festa e ascoltiamo le canzoni».
Mio padre mi gelò dicendomi che dovevo lasciare il mangiadischi perché lui non mi dava il permesso di portarlo fuori.
Non capivo il senso di questa proibizione, mi sembrava ingiusto, mi sentivo mortificata, avvilita, umiliata davanti alla mia amica e allora mi ribellai. Gridai che il mangiadischi era mio e potevo farne quello che volevo. La discussione si accese ma mio padre la concluse ben presto con la frase che ho per sempre odiato e che non ho potuto mai più dimenticare:
«Adesso comando io, e quando sarai grande e ti sposerai comanderà tuo marito».
***
Articolo di Martina Speziale

Nata nel 1952 a Crispiano, medica del lavoro, ha svolto la professione nell’ASL di Firenze. Ha fatto parte dell’associazione Medicina Democratica, prestando la propria assistenza a lavoratrici e lavoratori con problematiche legate a disagio lavorativo; ha partecipato come relatrice ad alcuni convegni organizzati dall’università e dal comune di Firenze sul tema mobbing.

Assicuro che, almeno nel dopoguerra (e, vogliamo dire fino almeno al ’68), non occorreva vivere al Sud per vivere questo essere una figlia femmina. Mio papà non mi ha mai detto che, un giorno, sposata, avrebbe comandato mio marito: era, implicito (per lui).
Talvolta ci penso, e mi pare di non aver vissuto i miei attuali settantasette anni: mi pare di aver vissuto secoli.
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