«La rivoluzione va fatta senza che nessuno se ne accorga».
Bruno Munari
Non è bastata la pandemia, c’è voluta la guerra per capire che il sistema capitalistico neoliberale è al capolinea. Per affrontare la quadrupla crisi, economica, sanitaria, climatica, digitale che stiamo vivendo, c’è bisogno di politica, nel suo significa più alto: ripensare la cura attraverso le procedure e i principi della democrazia. Joan Tronto distingue diverse fasi della cura che corrispondono ad altrettante possibilità contenute in questa parola.
La prima fase è caring about, il riconoscimento di bisogni che richiedono attenzione.
La seconda è caring for, l’assunzione di responsabilità per rispondere a tali bisogni
La terza è quella più concerta di care-giving, cioè la cura effettiva erogata a chi ne ha veramente bisogno.
La quarta è il care-receiving e riguarda la risposta alle cure da parte dei beneficiari.
Queste quattro fasi ci rendono attenti/e, responsabili, competenti e reattivi/e.
Ma non basta. Occorre anche una fase ulteriore in cui sia possibile discutere di chi si prende cura di chi, preoccupandosi di far corrispondere l’analisi dei bisogni ai principi democratici di giustizia, uguaglianza, libertà per tutti e tutte. Questo è il caring with, la pratica che vede tutti e tutte, cittadini e cittadine, partecipare a processi democratici di allocazione delle responsabilità di cura, assicurando che chiunque possa avere voce in queste decisioni. Questo è curare una democrazia, che si sta allontanando sempre più dalla partecipazione, suo motore propulsore.
Che cosa significa, allora, curare la democrazia? Significa porsi le domande giuste. Quali sono i bisogni vitali delle nostre società? Quali sono riconosciuti e quali quelli ignorati? Chi dovrebbe esserne responsabile? A partire da queste domande una cittadinanza attenta e attiva potrebbe concorrere a un ripensamento dei modelli di accudimento e contribuire a costruire una democrazia della cura in cui questo aspetto della vita individuale e collettiva non sia condannato all’invisibilità; bisogna valorizzarlo smantellando l’opposizione tra lavoro produttivo e riproduttivo e superando l’attuale disuguaglianza di genere, classe e razza nella distribuzione dei compiti di accudimento. «Mettere la cura al centro significa anche investire nelle linee di difesa e promozione di una vita umana piena, che includono i servizi per la salute, l’educazione, i servizi per l’infanzia e la vecchiaia, il contrasto alla violenza, ma anche le tutele occupazionali, il reddito di base, la tutela ambientale». Mettere al centro la cura significa anche curare la democrazia, che nelle nostre Costituzioni prevede una società mite, inclusiva, rispettosa dei diritti di tutte e tutti e che garantisca a tutte e tutti la libertà. Oggi le nostre democrazie — sostiene Serughetti — vedono scontrarsi due modelli in conflitto: quello individualista e competitivo, modellato sulla logica dell’impresa e del mercato, e quello relazionale — in cui l’altro/a non è il limite, ma la condizione di possibilità per la realizzazione di sé nella pienezza delle proprie capacità.
Se qualcuno ha parlato durante la pandemia di scelte tragiche su chi continuare a curare e chi lasciar morire, è perché il modello economico dominante negli ultimi 30 anni ha subordinato le ragioni della vita a quelle dell’economia, promosso lo sfruttamento della vita a fini economici, favorito l’espansione del mercato privato a scapito del pubblico, anche in campi delicati e preziosi letteralmente vitali come la sanità.
Altre importanti considerazioni sono svolte da Serughetti in un suo recente libro pubblicato per la collana “tempi nuovi” di Laterza: La società esiste, titolo che vuole essere il contromessaggio all’affermazione di Margaret Thatcher secondo cui «la società non esiste». In questo mondo di policrisi riemerge dal basso il desiderio di scelte radicali che parlino di solidarietà, di responsabilità collettiva, di uguaglianza. E gli esempi nel libro non mancano. Avremo tempo di ricordarle in una prossima recensione. Un altro testo fondamentale che contiene un’analisi spietata del sistema in cui viviamo è quello della filosofa Nancy Fraser: Capitalismo Cannibale. Anche in questo libro troviamo suggerimenti utili per cominciare a democratizzare la cura e curare la democrazia.
Diffondiamo un pensiero diverso, diamo voce alle persone, ai movimenti contro la guerra e per la difesa del pianeta, ai movimenti dei lavoratori e delle lavoratrici che difendono le loro fabbriche, come la Gkn, ai movimenti femministi e alle associazioni. Seguiamo la strada indicata dalla seconda parte dell’articolo 2: “agiamo” noi per primi/e, unendoci «in social catena», i doveri inderogabili di solidarietà politica. Cominciamo noi stessi/e nel nostro piccolo, con azioni quotidiane di contrasto al pensiero unico dominante, mettendo in atto quelle che potremmo chiamare sovversioni pacifiche o trasformazioni silenziose, come organizzare corsi sulla Costituzione nelle nostre città o battersi contro il taglio di alberi ancora vivi e profumati. Senza trascurare di chiedere che nel dibattito pubblico siano portate le vere domande di senso e siano prese le giuste decisioni, lottando non solo per la cura nella sanità, ma anche per la cura del metodo democratico. Chiediamo leggi elettorali che ci diano la vera rappresentatività e mobilitiamoci affinché i partiti, che nel tempo hanno occupato le istituzioni e allontanato i cittadini dalla vita politica, diventino il luogo dell’ascolto delle istanze delle persone e della cosiddetta società civile. Lo richiede una democrazia consolidata secondo cui i partiti, anziché gli usurpatori spesso corrotti delle istituzioni, lontani sideralmente dai bisogni delle persone, ritornino a essere, insieme a nuovi soggetti politici come i movimenti delle donne e le tante associazioni, la vera cinghia di trasmissione tra popolo e istituzioni.
È arrivato il momento di decidere che priorità ci diamo come società: la vita delle persone o la guerra? Salute, istruzione gratuita, un lavoro dignitoso e protezione o fame e sofferenza per molti?
Sia Serughetti che Fraser che Gino Strada, nel suo bellissimo libro Una persona alla volta, non a caso dedicato al diritto alla salute e al ripudio totale della guerra, sia Praetorius che tutte le ecofemministe, le femministe ambientaliste e della cura che qui non si possono ricordare, suggeriscono quello che già l’articolo 2 ci invita a fare: costruire un mondo dove siano riconosciuti a tutte e tutti in ogni luogo tutti i diritti. Non lo faranno i politici e le politiche, non lo farà chi ci governa, ammonisce Strada. «Sii tu stesso il cambiamento che vuoi vedere nel mondo» diceva Gandhi. Cominciamo da noi a essere una penisola contro la corrente, a praticare il futuro, a partecipare alla scelta delle priorità della società in cui viviamo, in primis nelle nostre città. Una cosa però è chiara: la solidarietà che metteremo in campo si dovrà necessariamente esprimere non solo «per» gli altri e le altre e «tra» gli altri e le altre, ma anche «contro» l’ordine sociale vigente, senza temere di prendere posizioni radicali. (Serughetti).
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Articolo di Sara Marsico

Giornalista pubblicista, si definisce una escursionista con la “e” minuscola e una Camminatrice con la “C” maiuscola. Eterna apprendente, le piace divulgare quello che sa. Procuratrice legale per caso, docente per passione, da poco a riposo, scrive di donne, Costituzione, geopolitica e cammini.
