Dissentire è un diritto. Esprimere il proprio pensiero — con rispetto e non violenza (precisazione non pleonastica, di questi tempi) — è una libertà fondamentale tutelata dalla Costituzione repubblicana, negli ultimi mesi più volte richiamata dal Presidente Sergio Mattarella, che della Costituzione è garante: esiste dunque un diritto al dissenso, nei confronti del potere costituito e nei confronti di gruppi di opinione, a maggior ragione quando questi si dimostrano capaci di inibire la parola a chi semplicemente non si dichiara d’accordo con alcune loro posizioni.
È accaduto, accade, anche nella galassia democratico-progressista, anche nell’ambito dei femminismi, quasi a letteralizzare il minaccioso «chi non è con noi è contro di noi» ripreso dall’evangelio e fatto proprio da Benito Mussolini in un discorso del marzo 1924, alla vigilia delle drammatiche elezioni di quell’anno. Nella logica (perversa) degli schieramenti contrapposti accade che alcune rivendicazioni espresse da minoranze connotate da forte identitarismo siano assunte in modo acritico dall’intera area progressista e che, al contrario, chi tenta di operare qualche distinguo si trovi aggredita e silenziata come reazionaria (femminile inclusivo o sovraesteso, come oggi si dice), respinta nello schieramento avversario, quest’ultimo definito escludente, odiatore, transfobico e quant’altro.
Ma di che cosa stiamo parlando, di quali temi e problemi? La risposta è nel volume Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi, edito da Castelvecchi per la cura di Daniela Dioguardi, in libreria dal giugno scorso.
«Alcune donne, unite dalla passione per la differenza e la libertà femminile, — scrive Francesca Izzo nell’Introduzione — hanno deciso di mettere in fila questi temi cosiddetti “divisivi” e di sottoporli alla discussione con franchezza, senza reticenze e timori, perché solo così si rispetta la forza e la maturità dei movimenti delle donne». (Donne, donna? — mi chiedo — è ancora possibile pensare e osare nominare questa parola? Oppure sarà espunta dal vocabolario della neolingua di orwelliana memoria tanto da divenire inconcepibile e impronunciabile, sostituita da ‘persona che mestrua’, o che non mestrua più, al fine di non ‘escludere’ altre soggettività?).
Per chiarezza: esprimere dubbi sui bloccanti della pubertà non significa legittimare l’omotransfobia; pronunciarsi contro la Gpa (Gestazione Per Altri) non vuol dire negare la genitorialità; rifiutare la logica della prostituzione non equivale a disprezzare chi la esercita. La somma delle rivendicazioni (che a sua volta non è sovrapponibile all’insieme dei diritti) non è un unicum da accettare o rifiutare in toto: operare con discernimento nella complessità è, anzi, cosa saggia.
Un caso esemplare è quello dell’iter del disegno di legge Zan sul contrasto all’omotransfobia (poi bloccato in Senato nel 2021): a suo tempo, non fu possibile articolare in modo sereno alcuna obiezione al concetto di identità di genere contenuto nel testo, certamente teso a riconoscere dignità e uguaglianza di diritti alle minoranze lesbica, gay, transgender, queer, ma con l’effetto collaterale (non secondario) di cancellare il femminile, facendolo confluire in un neutro irrealistico. «Se non diamo alcun valore o senso alla differenza sessuale (impropriamente identificata con l’ordine eterosessuale) — scrive ancora Izzo — scompare anche la differenza tra una donna di sesso femminile e una donna di gender femminile, vale a dire una persona di sesso maschile non operata e non in transizione che si dichiara donna. E nello sforzo allucinato di evitare ogni discriminazione si prova a sostituire la parola donna con “persona con utero”». Va da sé — lo affermo come filologa — che nella lingua italiana non solo non esiste il genere neutro (che per altro, in latino, era utilizzato per indicare l’inanimato), ma che il tentativo di dissoluzione dei generi, attraverso la cancellazione della differenza biologica tra i sessi, riconduce ancora una volta al maschile, unico soggetto del pensiero e del linguaggio, alla negazione dell’identità femminile naturale, al disconoscimento della corporeità femminile. L’abbattimento dei confini tra uomo e donna (e non solo: umano e animale, organismo e macchina, fisico e non fisico, naturale e culturale, sociale e tecnico, pubblico e privato) non è nuovo: il post-umanesimo è stato ipotizzato già all’inizio degli anni Novanta da Donna Haraway, nel segno di una presunta universalizzazione che opera, in realtà, come annullamento delle differenze; il risultato è quello di enfatizzare le diversità, le identità specifiche e parziali, spesso connotate da una rivendicatività aggressiva di cui, ancora una volta, sono vittime le donne (o dovrei scrivere ‘persone con utero’? E se l’utero non l’hanno più?). «Io trovo — così conclude Francesca Izzo — che vi sia qualcosa di profondamente misogino in questa idea di libertà e di inclusione che punta sul neutro. Nei fatti ciò che viene dissolto è la “donna” (dell’uomo non se ne parla) per raggiungere una eguaglianza secondo imperativi sociali pensati e voluti dagli uomini per gli uomini».

Ed ecco declinati i dieci temi ‘scomodi’ da dodici autrici, attiviste e militanti della galassia femminista, in altrettanti brevi saggi, nell’ordine nel quale sono presentati nel volume Vietato a sinistra.
In La misura della parità Silvia Baratella ripercorre la legislazione in materia introdotta in Italia in poco più di cinquant’anni: il divorzio, la tutela delle madri lavoratrici, la riforma del diritto di famiglia, la parità di retribuzione, l’aborto… Norme che tuttavia «si inquadrano in un sistema […] perfettamente compatibile con l’esclusione femminile senza rimetterlo in discussione alla radice», tant’è che la loro applicazione pare non essere mai completa, e, anzi, finisce per rivoltarsi contro le donne: si vedano a riguardo la legge sull’affido condiviso (con il trasferimento dei figli da una casa all’altra quasi sempre a carico delle madri), quella su rappresentanza politica e vertici aziendali (il sesso meno rappresentato deve ottenere almeno un terzo delle posizioni disponibili), quella che vieta alle associazioni di sole donne (Udi e ArciLesbica, per limitarsi a due nomi) di ottenere finanziamenti pubblici: «in breve, la parità è una risposta restrittiva alla libertà femminile», all’interno della quale le donne sono costrette ad adeguarsi a parametri imposti dagli uomini.
«Esiste un modo sicuro per ottenere il silenzio delle vittime: l’intimidazione. La paura impedisce di parlare, impedisce di far valere i propri diritti, impedisce di lottare»: è l’incipit del saggio di Marcella De Carli Ferrari intitolato La cancellazione della madre attraverso la legge sull’affido condiviso. Una legge in vigore dal 2006, proposta dalle associazioni dei padri separati, che non solo «annulla le differenze nei ruoli genitoriali» ma, anche, cancella la centralità del ruolo materno e obbliga bambini e bambine a «ritmi di vita centrati sui bisogni degli adulti», e legittima il controllo maschile sulla ex moglie attraverso quello sui figli, in particolare nelle situazioni di maltrattamento e violenza (che i giudici spesso non colgono, più preoccupati di salvaguardare l’ordine formale-burocratico della bigenitorialità piuttosto che di tutelare le parti più deboli), confermando il sistema di «abuso del potere maschile sulle donne».
C’era un’assemblea civica sulla genitorialità sociale a Milano è la cronaca dolorosa e puntuale, redatta da Lorenza De Micco e Anna Merlino, dell’assemblea organizzata da Eumans che si è tenuta il 19 e 20 ottobre 2023 presso l’Università Statale di Milano. Le autrici dimostrano che l’esibito meccanismo dell’estrazione a sorte delle persone partecipanti non ha garantito alcuna rappresentatività, poiché nella realtà è stato disatteso; che, di fatto, non è stato possibile esprimere, o far verbalizzare, pareri difformi rispetto a quelli degli organizzatori (tutti favorevoli) in materia di Gpa; che le raccomandazioni da inviare alle istituzioni italiane ed europee sono state evidentemente predeterminate dalle modalità operative descritte. De Micco e Merlino premettono alla cronaca una considerazione che vale per ciascuno dei temi affrontati da Vietato a sinistra: «C’è uno spazio assai frequentato in cui vengono spesso rinchiuse le opinioni di chi ritiene che il corpo delle donne sia un luogo sacro, inviolabile, non mercificabile. Ed è lo spazio dove regna l’accusa che meglio tacita e dileggia, l’accusa di moralismo. Lo spazio e l’accusa funzionano meravigliosamente, perché l’accusa di moralismo sposta immediatamente le posizioni contrastanti da un piano che dovrebbe essere di parità antagonista a un piano dove una delle due è automaticamente preminente: l’una progressista, l’altra retrograda».

Il rispetto per il corpo delle donne e la contrarietà alla sua mercificazione sono al centro di Mercato, libertà e censura del pensiero di Daniela Dioguardi: «Se io scelgo di vendere il mio corpo o di permetterne l’uso per una gestazione — scrive — confermo, qualunque sia la motivazione personale, l’imposizione patriarcale che ha fatto del corpo femminile uno strumento di servizio funzionale alla riproduzione e un oggetto del piacere sessuato degli uomini» (quello che a me pare evidente, ahimè, non lo è per tutte). E prosegue: «L’idea che il corpo sia un oggetto in nostro possesso di cui possiamo fare ciò che vogliamo è la nuova frontiera del neoliberismo». Il peggio è che questo delirio di onnipotenza individuale è presentato come inclusivo (dunque chi dissente discrimina), assoluto, progressista: delirio di onnipotenza, sì, perché «desideri illimitati» sono «trasformati in diritti», nel segno di un individualismo egoista che è misura di tutte le cose, sono tacitate le voci di dissenso in un’atmosfera di intolleranza alle visioni opposte e chi dissente finisce per tacere per non incorrere in dileggi, accuse di arretratezza, censure. «Che idea di mondo, di società, di convivenza hanno quelli, quelle che rifiutano il confronto, la libera espressione di opinioni, considerando una nemica chi la pensa diversamente o che si sentono offese e offesi da argomentazioni opposte alle proprie?». Un’idea fascista, forse?
Riprende il tema del corpo delle donne Caterina Gatti in Prostituzione, pornografia e libertà. Quale libertà offre alle donne il sex work (espressione di tendenza, quasi che l’inglese possa celare la mercificazione del corpo)? La libertà sessuale equivale alla libertà di vendere il proprio corpo? Vorrei chiederlo alle giovanissime trafficate dall’Europa orientale che ho incontrato negli anni Novanta, in una vita precedente, grazie a un progetto di cooperazione decentrata… «[…] ricacciare le donne in quel posto lì, del “non desiderante”, della sottomissione, dell’“ho pagato io e faccio come dico io” è l’ultima frontiera dell’illusione maschile, quella di tenere le donne in scacco perenne». Una dinamica di potere maschile, ancora una volta, alla quale consentono e addirittura inneggiano, ed è tanto più doloroso, anche alcuni femminismi, alcune che si dicono femministe.
La “rivoluzione gentile” non è più gentile: lo affermano a ragione, con una impressionante sequenza di esempi, Cristina Gramolini e Roberta Vannucci: «La comunità Lgbt+ liberata tuttavia è anche cambiata, oggi avanza nuove richieste sulle quali non tollera critiche, è intollerante nel senso stretto del termine». I nuovi presunti diritti sessuali in parola sono «la surrogazione di maternità, il blocco della pubertà, il lavoro sessuale»; proprio per aver criticato la Gpa, «l’associazione ArciLesbica nel 2018 è stata cacciata dal Cassero di Bologna, sede di proprietà comunale che condivideva con Arcigay dal 1996». Uomini contro donne, uomini che minacciano donne, uomini che espellono donne: l’orientamento sessuale non c’entra nulla, la storia si ripete tristemente. «Per noi, — scrivono le due autrici — che sosteniamo l’apertura delle adozioni, non è un diritto introdurre contratti che consentano a una donna di farsi volontariamente corpo di servizio e merce, contratti che autorizzino i committenti a disporre di una donna come mezzo di produzione»; e non solo: che autorizzino i committenti, in base alla propria disponibilità economica, a scegliere un ‘programma’, ovvero un pacchetto il cui costo in euro varia da 43.000 a 59.000, anzi no, 57.000 con lo sconto (dal sito VittoriaVita ‘agenzia di maternità’ in Ucraina, consultato il 20 giugno scorso), all inclusive. E si è analogamente etichettate come odiatrici quando si esprime contrarietà alla prostituzione e alla pratica di blocco della pubertà mediante trattamento ormonale effettuata su minori undicenni ritenuti affetti da disforia di genere. «Cosa hanno in comune Gpa, ormoni, sex work? — concludono Gramolini e Vannucci — oltre al deprezzamento delle donne, hanno in comune di promettere un mondo luccicante, retto dal win win capace di soddisfare il desiderio di vivere nei sogni, pagando farmaci, medici, legali (o chiedendo di farlo al sistema sanitario nazionale)».

Muove dall’esperienza del primo gruppo di autocoscienza in Italia (Pinerolo, 1993) e dall’organizzazione di due cortei, uno di donne e l’altro di uomini, per la giornata del 25 novembre, il saggio di Doranna Lupi I sessi sono due come oltraggio all’inclusività: l’esistenza di due cortei, dal forte valore simbolico, è messa in discussione nella cittadina piemontese nel 2021 in quanto «“escludente” di tutte le persone che non si riconoscono appartenenti a uno dei due generi». È noto che il transfemminismo ritiene necessario il superamento del binarismo di genere ai fini dell’inclusione e rappresentazione delle altre soggettività, tuttavia «sovrapporre la “nozione” di “violenza di genere” a quella di violenza maschile sulle donne modifica di colpo l’orizzonte in cui ci muoviamo», un orizzonte nel quale — senza oscurare la violenza transomofobica — in Italia ogni tre giorni una donna è uccisa da un familiare, preferibilmente marito o ex marito, compagno o ex compagno, fidanzato o ex fidanzato. Per mia parte, come soggettività femminile, vorrei non solo essere libera di vivere, ma anche di esistere ed essere nominata.
Così, come, per mia parte, vorrei essere libera di dirmi ‘donna’: Vietato dire donna è infatti il titolo del saggio di Laura Minguzzi, che ricorda (a me e a tante altre) quanto «abbiamo a lungo lavorato e scritto per trasformare il lessico e dare visibilità alle desinenze femminili, per non essere incluse nel maschile universale e dare alla luce la potenzialità della lingua materna». Sì, la lingua materna, la forza dell’origine, — penso con commozione — la voce della madre nella sera… «E ora che è venuta al mondo la libertà femminile e il patriarcato è morto, ci vediamo rappresentate da un neutro indifferenziato che si propone di cancellare la madre, e con lei il sesso femminile, ricacciandoli “nel cono d’ombra” dell’insignificanza “delle forze oscure della vita”». Eppure, in un tempo in cui l’individualismo egoista trionfa, non ne sono sorpresa: perché la maternità, per quanto io l’ho sperimentata, è relazione tra due, accettazione senza condizioni dell’altro, generato e lasciato libero, libera di realizzarsi nel mondo. «Finito l’ordine patriarcale, —si interroga l’autrice — rimane forse la misoginia, con la cancellazione delle “donne di sesso femminile” che non si adeguano?».
Il femminismo al tempo del RUNTS, di Laura Piretti, punta l’attenzione sulle norme imposte dal Registro Unico Nazionale del Terzo Settore, nello specifico dell’Emilia-Romagna: alcune Udi della regione sono state invitate ad adeguare i propri statuti poiché, in quanto afferenti all’Unione Donne in Italia, questi non prevedono la presenza di uomini, che risulterebbero dunque discriminati. «È dunque chiaro: — commenta Piretti — “socie” non va bene perché discrimina, “soci” invece ci può stare, perché il maschile, si sa, vale doppio, magari triplo. Insomma “di più”». Ancora una volta, il gender fluid cancella il femminile, e alle donne non è dato neppure di rappresentare sé stesse.
Conclude la decina Stella Zaltieri Pirola con «Per me le cose sono due», la parola femminista tra svuotamento e risignificazione. Ed eccoci al cosiddetto femminismo neoliberale, che — scrive Eleonora Meo — «non mette in discussione lo status quo, ma diventa funzionale all’assimilazione e depoliticizzazione dei temi centrali del femminismo, sussumendoli all’interno della razionalità neoliberale»: un pensiero individuale e individualista, che trasforma la tensione femminista in una questione privata, sottraendola allo spazio pubblico; secondo questa corrente di pensiero ciascuna è sola, e sola può affermarsi, in competizione e a danno delle altre. Emerge così il tema del corpo delle donne, poiché «l’autodeterminazione viene ridotta a uso del corpo e dell’immagine a scopo di profitto»; non solo: «non basta mettersi al servizio dello sguardo maschile, bisogna anche convincersi che questa sia una valida libertà femminile», e via con Gpa e sex work, come se le donne che vi si sottopongono potessero decidere quali pratiche mediche accettare o quali prestazioni sessuali erogare ai clienti. Se non è violenza questa… E giova ricordare quanto più volte affermato da Luisa Muraro: «il femminismo è un campo di battaglia perché visioni diverse vi hanno sempre acceso conflitti, ma “per me le cose sono due”: se scegli di dirti femminista assumi la responsabilità verso te e le altre di uno sguardo che parta da sé e che si ponga al di fuori di quel che è già dato; altrimenti se si vuole catturare l’approvazione maschile per i propri obiettivi, si usi una parola diversa da femminista».
E così, dopo aver letto i profili delle dodici autrici (che provengono da una galassia femminile variegata: Udi, Arcilesbica, Libreria delle donne di Milano, collettivo Donne di Baggio, gruppi donne delle Comunità Cristiane di Base, Rete Abolizionista Italiana…) chiudo le 92, densissime pagine di Vietato a sinistra.

Privilegiare gli elementi che uniscono e non quelli che dividono è, da sempre, la mia posizione. Ma non al prezzo di rinunciare al confronto e al dialogo, come si usa — o dovrebbe usarsi — tra parti civili, con rispetto e ragionevolezza: riprendendo il lancio di un incontro di presentazione del volume (alla Libreria delle Donne di Milano, lo scorso 12 maggio), non è opportuno confondere «libertà con liberalismo, desideri con diritti, corpi delle donne con servizi pubblici, cancellazione delle donne con inclusività, battaglia delle idee con censura»: farlo non significa essere progressiste (piuttosto significa essere ‘di tendenza’), anzi, lascia alle destre campo libero a riguardo; e ancora, farlo fa male al femminismo, ai femminismi, e soprattutto alle donne, che dovrebbero, potrebbero prendere coscienza dell’essere donna, perché — come avverte in una recente intervista Roberta Vannucci — «È necessario che noi in prima persona sappiamo chi siamo».
E adesso? Ci sarà chi alzerà la voce “Fuori le Terf, o le Swerf, da Vitamine vaganti”? Terf e Swerf: parole della neolingua che significano rispettivamente Trans-Exclusionary Radical Feminist (‘femminista radicale trans-escludente’) e Sex Worker Exclusionary Radical Feminist (‘femminista radicale sex-worker-escludente’), utilizzate come insulti, che marcano a fuoco chi ne è colpita. E mi viene in mente Victor Klemperer, filologo tedesco appartenente alla cosiddetta razza ebraica (fu salvato dalla deportazione dalla moglie ‘ariana’, che rifiutò ostinatamente di divorziare da lui): nel suo LTI. La lingua del Terzo Reich (1947), lo studioso non manca di sottolineare come il nazismo abbia fatto un uso larghissimo di abbreviazioni e acronimi, per etichettare sbrigativamente, in forma strettamente correlata al linguaggio autoritario militare, e soprattutto perché l’uso delle sigle rifiuta il pensiero critico. Sì, mi viene proprio in mente la lezione di Victor Klemperer. Chissà perché…
Nota conclusiva, a proposito di etichette e catalogazioni (catalogare comporta gerarchizzare, discriminare, perseguitare): questo articolo è stato redatto da una donna cis, presumibilmente etero, di ‘razza’ bianca, di classe media.

A cura di Daniela Dioguardi
Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi
Castelvecchi, Roma, 2024
pp. 92
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Articolo di Laura Coci

Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.
