Roberta Vannucci ha fatto parte della Libreria delle Donne di Firenze dal 1986 al 1997. Nel 1991, per il Centro Documentazione della Libreria, ha ideato e costituito l’archivio Women Music che ha collaborato con centri e riviste specializzate in Europa e negli Stati Uniti. Nel 1994 l’archivio Women Music ha fatto parte del progetto europeo Now coordinato dalla Rete Lilith. Nel 2005 è stata tra le socie fondatrici di Arcilesbica Firenze e dal 2015 al 2017 è stata presidente di Arcilesbica Nazionale. Dal 2008 al 2021 è stata co-direttrice artistica del Florence Queer Festival.
Femminismo/femminismi: è possibile l’unità nella pluralità?
Credo che si debba recuperare la possibilità del confronto anche tra posizioni diverse, come è stato fatto in passato perché dobbiamo poter fare azioni ampie, modificando, intrecciando anche le alleanze, all’interno, ovviamente, di un certo panorama. Non necessariamente si deve essere “tutte insieme appassionatamente”, perché ci sono sensibilità, sfumature, posizioni diverse, che non permettono di essere sempre insieme. La cosa più importante è agire il confronto, che può essere anche conflitto in alcuni casi, perché permette di riconoscere le differenze, di parlarsi, magari anche di cambiare posizionamento, ma sicuramente non è pensabile lavorare come un monolite, non è mai accaduto e, nella realtà, non accade. È pretesa che blocca l’azione politica più efficace.
Negli anni Novanta è parso che l’essere femministe fosse diventato un disvalore. Perché?
Direi piuttosto che il femminismo appariva come qualcosa di superato, non più necessario; contemporaneamente c’era una minore visibilità del movimento delle donne e non c’erano più cortei di piazza, le occasioni che contribuiscono alla visibilità e alla trasmissione delle riflessioni, rivendicazioni, ecc. Come tutti i movimenti sociali, anche il femminismo — per usare la parola in modo più sintetico — ha avuto momenti di emersione/immersione; inoltre, gli anni Novanta hanno caratterizzato in modo molto diverso la società rispetto agli anni Settanta e Ottanta. Se il femminismo è divenuto un disvalore? Forse per le ragazze più giovani. Ognuna di noi ha avuto persone adulte che dicevano “Ai miei tempi”: allontanarsi da un modello dato dagli adulti, in qualche modo, fa parte di un percorso di crescita. Sicuramente abbiamo avuto leggi e avanzamenti e c’è stata la percezione di una libertà maggiore. Le giovani donne non ritenevano più necessario dichiararsi femministe e anche le donne che avevano fatto tante battaglie politiche, o per l’età o per la stanchezza, si riposizionavano. C’era una maggiore apertura ai temi delle donne nelle università, insomma, forse sembrava superata la necessità di stare sul pezzo. Ecco direi, forse, più questo che un disvalore: una minore necessità o un’assenza di necessità.
Nella mia esperienza politica, abbastanza diversificata, ho incontrato ragazze che si consideravano molto libere e che pensavano di poter fare quello che volevano, esattamente come i coetanei maschi, salvo poi scoprire che non era sempre così. D’altronde queste ragazze potevano avere madri che avevano fatto parte del movimento delle donne e forse la loro libertà era veramente maggiore rispetto a quella che avevamo noi, ma poi si scopre che niente è dato per sempre.
Dal punto di vista culturale, in Italia, con il berlusconismo sicuramente c’è stata una ridicolizzazione delle donne. Le bambine e le ragazze sono cresciute bombardate da trasmissioni televisive che rappresentavano le donne come oggetti. Il femminismo non era alla moda e, soprattutto, non era necessario. E le conseguenze di quegli anni le scontiamo ancora adesso.

Si afferma ora il cosiddetto ‘femminismo neoliberale’, che si traduce in un trionfo dell’individualismo, nell’affermazione di diritti e opportunità per sé sola, non per tutte… Che ne pensi?
Il modello imperante socioeconomico neoliberista produce questo effetto su tutto. Se ciò che bisogna tenere in conto è l’io, anche la rivendicazione rischia di diventare una rivendicazione dell’io; si slitta dalla richiesta di diritti collettivi alla richiesta di diritti dettata dal “io lo desidero”, ma questo non si può certo trasformare in una rivendicazione di diritti. C’è una frammentazione estremamente pericolosa, c’è un modello di riferimento, economico, finanziario, che fa da cornice a questo. Una visione d’insieme è stata spazzata via. Certe rivendicazioni partono da “Io voglio, io desidero”, e non perché va bene per tutta una serie di altre donne, se si parla di femminismo, ma perché per me va bene così. Non sono singolarità che si mettono insieme, ma sono singolarità che rimangono tali, di difficile prospettiva.
Rispetto al femminismo degli anni Settanta, la società è profondamente cambiata. È una società così individualista e precaria che si rischia di disintegrare sempre più ciò che invece dovrebbe essere collettivo. In campo lavorativo si tende a privilegiare il rapporto del singolo lavoratore e lavoratrice con il datore di lavoro, e si capisce bene il perché, perché l’individuo da solo ha meno potere contrattuale; rivendicare questa prospettiva è preoccupante e soprattutto pericoloso, perché non conduce al miglioramento della condizione individuale, o anche quando questo accade, è sempre a rischio di peggioramento. Non si va avanti con ‘io’ ma con ‘noi’, per quanto sfaccettato e diverso; è importante essere consapevoli che non tutto ciò che si desidera corrisponde in modo automatico a una richiesta di diritti. Siamo su due piani diversi: uno è quello del desiderio della realizzazione personale (che è giusto avere l’opportunità di ottenere), l’altro è quello della contrattazione, tra il diritto di cittadinanza e lo Stato.
A partire dagli anni Dieci del Duemila si assiste a un ritorno del femminismo tra le giovani donne (vedi Non Una Di Meno). Quali le ragioni?
Come dicevo prima, il femminismo è un movimento sociale, quindi è inevitabile che abbia periodi più o meno lunghi di emersione. Vero è che ci siamo allontanate dal periodo di massima visibilità del movimento delle donne e in questi anni di distanza, di fatto, non solo non c’è stata una sicura affermazione di una condizione migliore delle donne, ma c’è stato addirittura un arretramento: quel modello di neoliberismo individualista ha fatto sì che in realtà vi fosse un arretramento della condizione della vita di tutti e di tutte, quindi anche delle donne, e ha fatto emergere una violenza maschile sulle donne sempre più brutale; penso ai femminicidi, ma non solo, perché sulle donne vi è una violenza diffusa che pure non emerge sempre in modo così netto, e questo ha fatto sì che le giovani, e non soltanto loro, riprendessero la via della lotta più visibile, con le manifestazioni e i cortei. La violenza sulle donne ha riportato in piazza le donne.

Firenze 2019
È possibile, a tuo parere, accomunare donne (e persone non binarie) di diverse comunità, culture, classi sociali sulla base di una piattaforma comune? Per intenderci, dall’Iran all’Afghanistan, dagli Stati Uniti all’Italia?
Penso che una piattaforma di questo tipo sia un po’ velleitaria. Si rischia di far parlare le voci più forti, come spesso accade. Si può tener conto delle differenze, e sicuramente si deve prestare attenzione, si può lavorare insieme, ma l’ambizione di una piattaforma comune è utopica: si rischia di fare, come per certe piattaforme di manifestazioni, un insieme onnicomprensivo di qualsiasi ipotesi, talvolta anche in contraddizione. Bisogna essere oneste: non tutto ci unisce, i percorsi talvolta si incrociano, ma sono differenti, separati, e tutto questo non ha niente a che vedere con contrasti, se non pretestuosi.
Ogni soggettività politica necessita di propri spazi, io credo che le donne abbiano necessità di spazi separatisti. Credo che questo tipo di esperienza sia importante perché dà potenza; credo che si debba avere l’onestà intellettuale e politica di dire che l’esperienza di un corpo, con tutte le aspettative, i problemi, i ruoli, è un’esperienza fondante. Le persone non binarie hanno un tipo di esperienza diversa dalla mia, non credo che si debbano cancellare le esperienze diverse, ma che queste servano a raccontarsi, prima sul piano personale, perché si va nel mondo partendo da noi, e poi per trovare delle parole collettive.
Credo anche che non si possa essere inclusivi a tavolino, così come non si può cambiare una lingua a tavolino, non è efficace. Se riusciamo invece ad avere momenti di scambio, di esperienza, di prospettiva politica, possiamo pensare di avvicinare anche altri. Nella realtà essere inclusivi non vuol dire cancellare, ma aggiungere. Sostituire il maschile sovraesteso con il femminile sovraesteso, con un ribaltamento automatico, credo che non ci porti a grandi cambiamenti.

(archivio Roberta Vannucci)
Femminismo/femminismi: mi chiedo se sia opportuno (e strategico) privilegiare ciò che divide e distingue (che pure non nego e a cui riconosco legittimità) rispetto a ciò che unisce e accomuna. Che ne pensi?
Io credo che se c’è uno spazio dove si può agire un discorso politico che faccia emergere le differenze, si può litigare, e che sia qualcosa che arricchisce. Altra cosa è dire “Andiamo in piazza” (in senso ampio) e allora ci andiamo su questioni su cui siamo d’accordo: questa è una forma sensata di guardare avanti, ma non si può pretendere che vi sia una piattaforma dettagliata sulla quale essere tutte d’accordo altrimenti non si sta in piazza insieme, e non si può pretendere che le donne di un movimento non scendano sulla scena pubblica ognuna con le proprie particolarità, e anche con le proprie parole e i propri nomi.
Non Una Di Meno, per esempio, pretende che in corteo il 25 novembre ci siano soltanto striscioni e cartelli con la scritta ‘Non Una Di Meno’ e cancella tutte le altre esperienze politiche; sinceramente non capisco perché ognuna delle donne che va in piazza quel giorno non possa mostrare dove, per tutto l’anno, costruisce pezzi di società italiana, facendo parte di gruppi, esperienze… Se la pretesa è che devi essere d’accordo su tutti i punti, è inevitabile che emergano le differenze come la cosa più importante e che certe situazioni pubbliche non siano praticabili per tutte. Questo è quello che ci sta bloccando adesso: ci sono esperienze politiche quotidiane diverse, che non riescono a trovare elementi di sintesi su alcuni punti, se questa è la premessa. Per arrivare alla sintesi occorrerà, forse, aspettare un’altra ondata di movimento; è anche vero che ci sono esperienze, a livello locale, che permettono di lavorare insieme su alcuni aspetti. Sul piano generale, si rischia di vedere solo la piazza.
Per mia pratica politica ho sempre privilegiato situazioni in cui sia sufficiente aprire una porta ed entrare, non ho mai molto amato i gruppi che si incontrano in privato, per me la pratica deve permettere a un’altra donna di raggiungermi sulla piazza, intesa come spazio pubblico. Vero è, però, che se quello che le persone vedono è solo la piazza, è chiaro che si vede soltanto un pezzo o si fa finta di non vedere che c’è altro.
Quali sono state le ragioni profonde e quale l’occasione spinta che ti hanno portato al femminismo?
Ho incontrato i collettivi femministi a scuola, a quattordici anni. Una certa passione per la politica mi era stata trasmessa in famiglia, e capivo che certi ruoli delle donne li sentivo poco consoni a me. Certo, essere andata a quattordici anni in una scuola dove c’erano due collettivi, uno femminista e uno politico composto soltanto da ragazze, è stato determinante: la mia era una scuola linguistica, tradizionalmente femminile, insomma tutto questo ha facilitato la mia partecipazione alla politica femminista. Era il 1977, per le strade c’erano i cortei, e io sapevo che era lì che volevo stare.
L’incontro è stato da un certo punto di vista casuale, aveva a che fare con il periodo che stavamo vivendo — la politica mi ha sempre appassionato — , ma pur essendo casuale è stato determinante: un incontro fortuito, ma meno fortuito di quanto io dica, perché la frequentazione dei collettivi è stata una scelta. Sicuramente questo mi ha portata ad approfondire le tematiche e a seguire i dibattiti del momento, che erano prevalentemente su carta stampata, ma anche a frequentare luoghi ove le donne si incontravano per parlare. Successivamente c’è stata la presa di consapevolezza del mio lesbismo, e anche questo ha influenzato il proseguimento della riflessione.

Molto giovane (avevo poco più di vent’anni) sono entrata a far parte della Libreria delle Donne di Firenze, e questo ha comportato un impegno. Erano anni di fervore, di riflessione, di possibilità di incontro, c’era un’urgenza molto diversa da adesso, non c’era la tecnologia attuale e quindi dovevamo muoverci, ognuna nelle proprie possibilità, e lo facevamo; stare insieme anche con donne molto più grandi di me in alcune occasioni è stato inibente, ma è stato comunque stimolante: come per l’apprendimento delle lingue straniere, l’ascolto e l’apprendimento passivo aiutano tanto. Ho incontrato donne importanti per la mia crescita politica, e l’unione di desideri e passioni con la politica hanno fatto sì che non me ne allontanassi.
Quale istanza vorresti fosse prioritaria nel femminismo, nei femminismi?
Che le donne sappiano prendere coscienza dell’essere donna, e su questo dibattere, confrontarsi, non demandare ad altri e non avere timore di non essere inclusive, alla moda. Se non lo facciamo noi, le altre soggettività non lo fanno. È necessario che noi in prima persona sappiamo chi siamo.

Come vedi il futuro per i diritti delle donne e delle persone non binarie?
Io credo che o si lavora in modo serio su quelli che sono i ruoli e gli stereotipi di genere (e chiaramente non è una cosa che si fa in due giorni né che ha efficacia immediata) oppure per le donne, e soprattutto per le persone non binarie, sarà ancora più difficile sopravvivere a una presunta libertà dalla società, quando in realtà è molto stringente l’aspettativa di ognuno e ognuna di noi.
Io credo anche che bisognerebbe anche fare una riflessione sulle differenze di classe delle donne e delle persone non binarie. Non è la stessa vita se sei o non sei abbiente, se abiti o non in una grande città, però aspettative della società ci sono per tutte le donne, in ogni contesto, in ogni classe, l’aspettativa è fin dalla nascita ed è ben strutturata. Anche per le persone non binarie è come per le donne e sinceramente faccio veramente fatica a immaginare che in certi contesti ci possa essere la libertà di dichiararsi non binarie. Se riusciamo a costruire un mondo, o quanto meno un contesto, dove le donne possono stare bene, staranno meglio gli uomini, le persone non binarie, le altre soggettività che vogliono dichiararsi altro. In questa società non stanno bene le donne, le persone non binarie, e anche molti uomini. La società che investe sempre di più sul piano materiale non è una società che possa offrire grandi risorse future, bisognerebbe invertire questa tendenza, senza cancellare le donne.
In copertina: Raise your fist (Alza il pugno), Dyke March, New York City 2013; la Dyke March è la marcia di protesta e visibilità lesbica (fotografia di Roberta Vannucci).
La galleria fotografica qui presentata comprende immagini di Roberta Vannucci e immagini che l’attivista ritiene fondamentali nel proprio percorso femminista.
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Articolo di Laura Coci

Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.
