Una signorina vittoriana scopre l’Africa occidentale

Devota, paziente, modesta, consapevole dei propri doveri: così deve essere apparsa Mary Kingsley nei lunghi anni durante i quali si è presa cura della madre malata. 
Nata nel 1862 a Islington, presso Londra, da un matrimonio riparatore tra George Kinsley, medico personale e amico di esponenti della nobiltà, che accompagnava nei loro viaggi, e di Mary Bailey, cuoca al suo servizio, fu il primo frutto di un’unione poco felice tra coniugi molto diversi: l’uno proveniva da una famiglia di intellettuali, scrittori ed esploratori ed egli stesso era un uomo colto, curioso, dotato di spirito di avventura, mentre l’altra, di estrazione popolare e piuttosto semplice, dovette pagare a caro prezzo, con la solitudine e l’isolamento, la fortuna di essere stata resa “rispettabile” grazie a un “buon matrimonio”, tanto da cadere ben presto in uno stato di prostrazione e di malattia che la accompagnò per tutta la vita. 

Mary Kingsley

La piccola Mary, subito catalogata come “la figlia della cuoca” e ignorata dalla famiglia paterna, crebbe in compagnia della madre, eternamente malata, mentre il padre, eternamente assente, viaggiava attraverso il Mediterraneo, il Nord Africa ed il Pacifico del Sud. A Mary non fu consentito di frequentare studi regolari, le sue giornate si consumavano tra la casa e il giardino, quasi senza svaghi e con poche amicizie, eppure anche per lei ci fu un’ancora di salvezza: la ricca biblioteca paterna. Sola e senza altre distrazioni, se non la cura della madre, Mary divenne una lettrice appassionata e onnivora di romanzi, libri di medicina, racconti di viaggio e poi, a poco a poco, di testi di fisica,  chimica, ingegneria, perfino di latino e, sebbene in seguito abbia rimpianto di non aver potuto contare su di un’educazione formale, queste letture libere e varie le consentirono di costruire un orizzonte culturale impensabile per le ragazze del suo tempo e della sua condizione sociale, destinate a coltivare il ricamo o l’acquarello e a strimpellare il piano. 
Lei stessa, più tardi scrisse riguardo alla sua infanzia: «The truth was I had a great amusing world of my own other people did not know, or care about- that was in the books in my father’s library» («La verità era che avevo un divertentissimo mondo tutto mio che gli altri non conoscevano, o di cui non gli importava: era nei libri della biblioteca di mio padre.). 
Al ritorno dai suoi viaggi, nei brevi soggiorni casalinghi, il padre portava nuovi libri e meravigliosi racconti che alimentavano la fantasia della ragazza. 

Mary Kingsley su una sedia a dondolo di Albert George Dew-Smith c. 1890

Quando la famiglia si trasferì a Cambridge per permettere al fratello minore Charles di  frequentare l’università, Mary poté finalmente conoscere nuove persone e ampliare i suoi orizzonti, al di là delle amate letture, ma rimase una giovane donna che appariva precocemente invecchiata, stretta in sobri abiti scuri, disabituata a frequentare la società in vista e con poche speranze di raggiungere quello che era considerato il traguardo più ambito: un buon matrimonio. 
Nel 1890 le cose in casa Kingsley peggiorarono ulteriormente. La madre, a causa di un ictus, rimase parzialmente paralizzata e Mary dovette affrontare giorni difficili, impegnata costantemente nell’assistenza alla malata, ma ancora capace di trovare conforto nei libri e di studiare testi di antropologia e arabo.  
Tuttavia nel 1892 la situazione cambiò radicalmente: nel giro di due mesi Mary perse il padre, tornato definitivamente dai suoi viaggi afflitto da una febbre reumatica, e la madre; si trovò, a poco meno di trent’anni, per la prima volta nella sua vita, sola e senza obblighi di cura, se non per il fratello Charles, intenzionato a lasciare quanto prima l’Inghilterra. 
Certamente Miss Kingsley avrebbe potuto accettare di appassire lentamente vivendo della sua rendita, in attesa del ritorno del fratello, come i parenti e i pochi amici consigliavano caldamente. Invece decise, contro ogni attesa e contro il buon senso, di organizzare un viaggio in Africa Occidentale
Sebbene in seguito dipingesse la scelta della destinazione come un po’ casuale, quasi il frutto dell’esclusione di altre mete, certamente Mary aveva letto molto intorno alle esplorazioni avvenute nel continente africano ed aveva ascoltato racconti terribili e affascinanti. 
La seconda metà del XIX secolo aveva visto crescere l’interesse delle potenze occidentali per l’Africa e il desiderio di spartirsene le ricchezze. Già nei primi anni dell’Ottocento esploratori ed avventurieri, come Mungo Park o Hugh Clapperton, avevano tentato imprese, spesso disperate, per penetrare nel cuore misterioso del continente; ora le compagnie di commercio, ritenendo insufficienti i centri sorti sulle coste, finanziavano spedizioni per risalire fino alle sorgenti i grandi fiumi come il Congo e il Niger, vere e proprie vie d’acqua che avrebbero permesso il trasporto dei prodotti dall’entroterra fino al mare. Grande eco aveva avuto l’incontro, avvenuto nel 1871 presso il lago Tanganica, tra Livingston e Stanley.  
In quegli stessi anni l’Europa sentì la necessità di dare ordine e motivare la presenza in Africa di potenze che si stavano espandendo in modo sempre più aggressivo, spesso a spese le une delle altre, oltreché naturalmente delle organizzazioni tribali preesistenti. Nel 1884 la Conferenza di Berlino definì le regole della presenza europea sul suolo africano. In primo luogo si occupò del tema della schiavitù ancora molto presente all’interno del continente, sebbene il commercio transatlantico di schiavi fosse terminato nel 1866, sotto la pressione di molti missionari e dello stesso Livingstone. L’eliminazione della tratta di esseri umani doveva passare attraverso una presenza economica e militare, più significativa e strutturata, delle potenze europee che avrebbero traghettato il continente verso un sistema economico di tipo occidentale, grazie al controllo da parte dei bianchi delle aziende agricole, nelle quali i neri venivano impiegati nel lavoro forzato, dopo essere stati allontanati dalle loro tribù: con tutta evidenza una cosa non troppo diversa dalla schiavitù. Inoltre l’imposizione di una tassa sulle capanne costrinse i contadini africani ad entrare in una logica monetaria che li penalizzava enormemente. 
Mary Kingsley organizzò due viaggi nell’Africa occidentale dieci anni dopo il Congresso di Berlino, mentre le potenze europee erano impegnate in una conquista selvaggia dei territori interni, tramite amministratori e truppe, per realizzare una occupazione effettiva. 

Nel 1893 Mary salpò da Liverpool per giungere in Sierra Leone e recarsi poi in Ghana, Nigeria, a Luanda in Angola e nel Congo Free State. Tornata in Inghilterra nel 1894, nel dicembre dello stesso anno partì nuovamente e attraversò il Gabon, il Congo Francese e il Camerun.

Kingsley, M. H., Travels in West Africa, 2015, a cura di Lynette Turner

Da questi viaggi nacquero il volume 1897 Travels in West Africa (Viaggi in Africa Occidentale), pubblicato nel 1897, con buon successo, e una importante serie di articoli apparsi su diverse riviste. Una delle motivazioni che spinsero la viaggiatrice ad affrontare l’Africa fu il desiderio di andare alla ricerca di Fish and fetish, di andare a caccia cioè di esemplari ancora sconosciuti di pesci d’acqua dolce e di tradizioni, abitudini e soprattutto credenze religiose dei popoli africani. 
Prima della partenza era stata opportunamente informata da Albert Gunther, direttore del Dipartimento di zoologia del Museo di storia naturale di Londra, sulle modalità di conservazione degli esemplari e, al suo ritorno, Mary portò con sé 65 specie di pesci e 18 specie di rettili, molte totalmente sconosciute alla scienza, tre delle quali vennero intitolate alla scopritrice, a testimonianza del suo contributo agli studi di ittiologia. 

Gli interessi antropologici e la sua formazione permisero a Kingsley di guardare con rispetto alla varietà dei comportamenti e delle credenze incontrate durante il viaggio, di cui offre ampia testimonianza nei capitoli centrali del suo libro. L’osservazione dei riti — in particolare quelli funebri a cui viene riconosciuta grande importanza — dei modelli matrilineari, delle abitudini di vita, delle relazioni di potere tra tribù, le permette di cogliere la complessità di un mondo spirituale che non può essere ridotto a pura superstizione. Kingsley è disponibile ad imparare da una realtà tanto diversa e coglie in un sistema di pensiero, così lontano da quello occidentale, una profondità totalmente negata dai colonizzatori, che vedono negli africani dei primitivi da educare a forme di vita superiori: «You cannot associate with them longe before you must recognise that these Africans have often a remarkable mental acuteness… that there is nothing really “chid-like” in their form of mind at all» («Non puoi frequentarli a lungo prima di dover riconoscere che questi africani hanno spesso una notevole acutezza mentale… che non c’è assolutamente nulla di veramente “infantile” nella loro forma mentale»). 
La viaggiatrice guarda con occhio acuto anche al lavoro dei molti missionari che, al seguito degli esploratori, erano giunti in Africa sostenuti dai governi per costruire villaggi e scuole, ma anche per diffondere la “civiltà” europea e svilire, fino quasi a cancellarla, la cultura africana. Kingsley ebbe occasione di incontrare molte missioni e di ricevere un aiuto prezioso da questi veri e propri avamposti, seppe riconoscere il coraggio e la dedizione dei missionari cattolici e protestanti e delle loro mogli, tra le poche donne bianche in Africa, ma fu anche molto critica riguardo al tipo di educazione impartita che non teneva conto delle reali necessità dei giovani a cui si rivolgeva. Osservò, con la sua solita puntuta ironia, riguardo gli interventi di una missione francese: «All the training the boys get is religious and scholastic. The girls fare samewhat better, for they get in addition instruction from the mission ladies in sewing, washing and ironing…the washing and ironing are quite parlour acccomplishments when your husband does not wear a shirt, and household in non-existent» («Tutta la formazione che ricevono i ragazzi è religiosa e scolastica. Le ragazze lo stesso ma un poco meglio, perché ricevono anche istruzioni dalle donne della missione su come cucire, lavare e stirare… lavare e stirare sono delle belle imprese da salotto quando tuo marito non indossa una camicia e la casa è inesistente»). 

Perfino riguardo alle tradizioni poligamiche Mary guardò oltre il punto di vista generalmente accettato e propose una lettura diversa, consapevole dell’enorme mole di lavoro che gravava sulle donne africane, spesso lasciate sole, e della necessità di creare una rete familiare femminile in grado di assicurare la sopravvivenza. 
Sebbene educata in una società profondamente razzista e dunque inevitabilmente partecipe della cultura del suo tempo e del sistema ideologico che giustificava la colonizzazione, Mary Kingsley è disposta ad abbandonare i centri sicuri abitati da bianchi, a viaggiare in compagnia di guide locali e a dormire nei villaggi, dunque incontra una umanità dotata di strategie di vita e di sopravvivenza che contraddicono gli stereotipi e finiscono con il mettere in dubbio le certezze. Vuole comprendere, osserva con attenzione e rigore scientifico, avrà occasione di affermare, riguardo agli abitanti dell’Africa occidentale «they had to teach me a new world, and a very fascinating course of study» («Dovevano insegnarmi un mondo nuovo e un percorso di studi molto affascinante»). 
L’idea che l’Africa fosse un enorme spazio vuoto senza storia e senza cultura, immutabile, in attesa di essere sfruttato dai nuovi padroni, scricchiola davanti all’osservazione attenta di tradizioni tribali diversificate e alla testimonianza di un passato segnato dalla violenza della tratta degli schiavi. 
I molti interventi apparsi su giornali e riviste ebbero una certa risonanza e permisero a Mary Kingsley di proporre una diversa visione del continente africano, e di sottolineare le contraddizioni delle potenze occidentali che pretendevano di governare da lontano popoli di cui non conoscevano quasi nulla: «They cannot do this thing successfully unless they have in their possession a full knowledge of the nature of the people they are legislating for; without this, let their intentions be of the best, they will waste a grievous mass of blood and money, and fail  in the end» («Non potevano fare questo con successo a meno che non possedessero una piena conoscenza della natura dei popoli per i quali stavano legiferando; senza questa, pur con le migliori intenzioni, sprecheranno una enorme quantità di sangue e denaro, e alla fine falliranno»). 
L’eco di queste posizioni dovette essere significativo se nel 1902 il Glasgow Herald conia il neologismo «Kingsleysm» per indicare il pensiero di un nuovo gruppo di pressione. 

Entrambi i viaggi organizzati da Kingsley furono molto pericolosi e impegnativi: Mary è ben consapevole — e se non lo fosse c’è chi glielo ricorda — che molti viaggiatori bianchi non sono mai tornati, soprattutto a causa delle terribili febbri malariche, e ironicamente sottolinea che la compagnia dei battelli a vapore di Liverpool emette biglietti di sola andata  per le rotte africane. Tuttavia con un coraggio stupefacente affronta disagi impensabili e più volte mette a repentaglio la sua stessa vita.  

Durante il secondo viaggio decise di esplorare il territorio dei Fan, popolo in odore di cannibalismo, situato tra il Camerun, la Guinea equatoriale e il Gabon, e di risalire l’Ogoué, il più importante fiume del Gabon. Grazie all’aiuto di rappresentati locali di compagnie inglesi raggiunse Lambaréné e in seguito Ndjole, dove venne ospitata da una coppia di missionari francesi. Da lì, ignorando i timori dei suoi ospiti che le sconsigliavano caldamente di avventurasi in territori così pericolosi, organizzò una spedizione con guide locali per raggiungere e superare le rapide dell’Ogoué. 
Alle rimostranze degli ufficiali francesi, che le negavano il permesso di ingresso nel territorio in quanto donna non accompagnata, rispose che in nessun punto della lista di regole stilata dalla Royal Geographical Society per viaggiare nei Tropici compariva la voce «marito». 
La descrizione che Kingsley fa del viaggio, durante il quale le canoe rischiavano costantemente di infrangersi sulle rocce, nasconde con l’ironia la tensione e la fatica di dover continuamente salire e scendere dalle imbarcazioni e di doversi aggrappare alla vegetazione per evitare di finire sott’acqua. 
Ma una volta giunta insieme al suo equipaggio nel piccolo villaggio che li ospiterà, viene affascinata dalla bellezza e dalla maestosità del paesaggio che le si prospetta e, per un momento, dimentica la fatica, le preoccupazioni, il senso stesso della propria umana individualità, per diventare parte di quel mondo. 
Successivamente organizzò una spedizione nei territori che si estendevano tra il fiume Ogoué e il fiume Remboué, mai precedentemente visitati da europei. Il viaggio fu estremamente complicato per la difficoltà di risalire le rapide dei fiumi — fu qui che Mary imparò orgogliosamente a pagaiare — e di attraversare paludi infestate da sanguisughe, per la fatica di avanzare a piedi in territori sconosciuti, per la presenza di insetti di ogni tipo e dimensione, per l’atteggiamento giustamente sospettoso dei nativi, per alcune abitudini inquietanti agli occhi di un europeo, come l’abbandonare vicino alle capanne i resti decomposti e le carcasse degli animali uccisi. Ma l’esperienza fu anche estremamente interessante ed appagante: la bellezza e la varietà delle piante e dei fiori dai colori sgargianti, l’incontro con elefanti, gorilla, ippopotami, coccodrilli, per quanto pericoloso, ripagava la grande fatica sopportata. Nei villaggi Kingsley veniva ospitata in poverissime capanne, frequentate da ratti, intorno alle quali si assiepavano gli abitanti del villaggio, incuriositi ma anche un po’ spaventati da quella faccia pallida. 

L’ultima impresa africana di Kingsley fu l’ascesa al monte Camerun, Mongo ma Ndemi in lingua locale, un vulcano alto 4040 metri ancora attivo. Anche in questo caso la determinazione e la resistenza fisica della donna ebbero la meglio sulla pioggia battente, sulla mancanza di punti di appoggio, sulle difficoltà della salita che consigliavano di abbandonare il progetto: Mary Kingsley fu la prima donna a raggiungere la vetta
Può essere una buona cura contro gli stereotipi e i luoghi comuni immaginare questa signorina non più giovanissima, piuttosto alta e magra, affrontare impavida, senza lagnarsi, marce forzate, incitare i suoi portatori a giungere alla meta o sedarne gli screzi, in abiti più adatti ad una passeggiata a Piccadilly. Al contrario di altre viaggiatrici, Mary non volle rinunciare al suo solito abbigliamento, sostenendo che «you have no right to go about Africa in things you would be ashamed to be seen in at home» («non hai il diritto di girare per l’Africa in cose in cui ti vergogneresti di essere vista a casa»), dunque, incurante delle temperature tropicali, continuò ad indossare stivaletti e gonne di lana che, a dirla tutta, si rivelarono assai utili quando, scivolando in una trappola, cadde su punte acuminate che non la ferirono proprio grazie allo spesso tessuto della gonna. 
Kingsley volle offrire un ultimo contributo all’Africa: nel febbraio del 1900 partì come infermiera volontaria per Città del Capo dove era scoppiata la guerra anglo-boera e dove imperversava una epidemia di febbre tifoide. Ammalatasi anch’essa, morì all’alba del 3 giugno. 
Le vicende della vita di Mary Kingsley spingono a una riflessione riguardo a quanto ingegno, determinazione, inventiva, coraggio sono stati cancellati dall’obbligo di servizio e oblazione imposto da sempre alle donne, quando esse non abbiano avuto l’opportunità, per le imprevedibili e alterne fortune dell’esistenza, di seguire una propria, libera strada. 

Bibliografia 
Mary Kingsley, Travels in West Africa, 2015 Penguin Classics 
https://www.gutenberg.org/files/5891/5891-h/5891-h.htm
Heather Lehr Wagner, Mary Kingsley. Explorer of the Congo, 2004 Chelsea House Publishers. 

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Articolo di Tiziana Concina

Ho insegnato per molti anni italiano e storia negli istituti tecnici e italiano e latino nei licei, mi interesso di letteratura femminile italiana e straniera, in particolare mi sono occupata di Elsa Morante e Anna Maria Ortese. Attualmente rivesto la carica di vicesindaca e di assessora alla cultura in un comune in provincia di Rieti.

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