Carissime lettrici e carissimi lettori,
un sospiro di sollievo per i fanatici del patriarcato spinto. Come ai cari vecchi tempi trionfa nel linguaggio il maschile generico, con buona pace dell’accademia della Crusca che dell’uso della lingua è autorevole custode e garante.
Per fortuna la Lega, il partito da dove è venuta la proposta (un ddl), ad oggi ne ha preso le distanze, ritirandolo. Seppure, a dirla tutta, il disegno di legge è di una manciata di giorni fa. Qui, ancora una volta la politica segue certe vecchie abitudini, proprio come ai cari vecchi tempi, quando usava (ed è usa ancora) dire spesso qui lo dico e qui lo nego, giocando sul pretesto di una cattiva interpretazione/estrapolazione del discorso da un contesto più complesso.
I fatti però ci sono stati e a poche ore dal “passo indietro” del partito proponente. Ecco come sono andate le cose che, seppure non verranno attuate (lo speriamo per la difesa dei diritti civili e della parità di genere) sono comunque un allarme di un mondo di diritti che già vacilla da tempo. Il senatore Manfredi Potenti (Lega) ha presentato un ddl (un disegno di legge) con un titolo che già in sé ne spiega il significato: «Disposizioni per la tutela della lingua italiana, rispetto alle differenze di genere». L’obiettivo sarebbe quello di «preservare l’integrità della lingua italiana ed in particolare, evitare l’impropria modificazione dei titoli pubblici dai tentativi simbolici di adattarne la loro definizione alle diverse sensibilità del tempo». Per essere più chiari e caricare la notizia anche delle multe previste diciamo che chi nella pubblica amministrazione non usasse termini tipo “sindaco”, “ministro”, “avvocato” o “questore” e “rettore” riguardo a persone di genere femminile, verrebbe redarguito/a e multato/a fino una ammenda di 5.000,00 euro. Tutto al maschile universale.
Pensandoci bene a questa “omologazione” ci aveva già abituate/i questo Governo proprio con l’obbligo (più che “indicazione”) a chiamare signor presidente del consiglio chi pubblicamente si era definita, chiamandosi con il nome femminile, “donna e madre”!
Cito un articolo di un quotidiano: «Nel testo del ddl il senatore Potenti precisa di non voler mettere in discussione la legittima battaglia per la parità di genere, ma di voler piuttosto evitare eccessi non rispettosi delle istituzioni. Non è chiaro — continua — dove sarebbe la mancanza di rispetto verso le istituzioni visto che anche l’Accademia della Crusca ha considerato legittimo l’uso di termini come «avvocata» o «ministra» e anzi ne ha incoraggiato l’uso. Non dimentichiamo — rincara l’autrice dell’articolo — che l’uso del maschile riferito a certe professioni alte, comprese le cariche istituzionali, deriva anche dal fatto che fino a non molti anni fa quei ruoli erano preclusi alle donne, ma linguisticamente, la declinazione al femminile è sempre esistita». Qui il pensiero non può che andare a una grande donna quale è Rosanna Oliva De Conciilis che si è sempre battuta e ha ottenuto la presenza vittoriosa delle donne nella Pubblica Amministrazione.
Una polemica, una provocazione per far rumore è questa di Potenti? La professoressa Gheno, che di lingua e di questioni di genere è un’esperta studiosa, interviene, citata nello stesso articolo: «Trovo che impiegare la strada delle proposte di legge strampalate come provocazione sia, da parte di alcune formazioni politiche, un modo incivile di usare gli strumenti democratici a nostra disposizione». E la dice tutta con chiarezza e determinazione.
Noi ci consoliamo (finché sarà possibile!) con il nostro Presidente della Repubblica che durante l‘annuale Cerimonia del Ventaglio (l’incontro con la stampa) al Quirinale ha detto, elencando una triste serie di attentati tra cui quello all’ex sindaca di Berlino Giffey, (qui Mattarella affonda) con simpatica ironia: «spero che si possa ancora dire». Un segnale che ci induce a pensare di dover difende con forza e a denti stretti questa alta carica dello Stato.
Non ci è andata meglio, invece, con la seconda carica (che al bisogno dovrebbe sostituire il Capo dello Stato!). Per il Presidente del Senato Ignazio La Russa i pugni e i calci ricevuti dal giornalista del Quotidiano La Stampa perché stava facendo delle riprese e delle foto, peraltro durante una manifestazione pubblica, del gruppo di estrema destra CasaPound, sarebbero sicuramente condannabili e in alcun modo perdonabili, ma… e qui il “ma” ha proprio tutto il sapore della giustificazione, lui, Andrea Joly, non si sarebbe dichiarato giornalista. Insomma una pur piccola colpa ce l’avrebbe!
E qui ci è venuto di nuovo in aiuto il Presidente Mattarella che con ben altri (e alti!) toni, sempre durante la cerimonia della consegna del Ventaglio, ha detto, come un’autorevole ammonizione: «Ogni atto rivolto contro la libera informazione è un atto eversivo rivolto contro la Repubblica», con chiaro riferimento ai fatti di Torino. «Le parole di Mattarella sono pietre», scrive un quotidiano, sì pietre in difesa della libertà! Ecco come la pensa Mattarella: «Si vanno infittendo, negli ultimi tempi, contestazioni, intimidazioni, se non aggressioni, nei confronti dei giornalisti, che si trovano a documentare fatti. Ma l’informazione è esattamente questo».
L’informazione è questo: «Documentazione dell’esistente, senza obblighi di sconti. Luce gettata su fatti sin lì trascurati. Raccolta di sensibilità e denunce della pubblica opinione. Per citare Tocqueville: democrazia è il potere di un popolo informato».
I giornalisti — ammonisce il garante della Costituzione — si trovano ad «esercitare una funzione di carattere costituzionale che si collega all’articolo 21 della nostra Carta fondamentale, con un ruolo democratico attivo».
Ma siccome spesso è vero l’adagio che «non c’è due senza tre», Sergio Mattarella interviene ancora e lo fa sulle carceri, una situazione orribile, costellata di problemi. Solo dall’inizio di quest’anno ci sono stati 58 suicidi. Tutto peggiora dal caldo intenso, e soprattutto dal sovraffollamento altissimo, in cui versano le carceri italiane.
E mentre Andrea Del Mastro, l’onorevole alla cui festa di capodanno volavano pallottole, dice che è tutta colpa degli immigrati (solo maschi o maschile universale?!) e delle borseggiatrici seriali, il Presidente della Repubblica denuncia con nettezza lo stato indecoroso delle carceri: «il carcere non sia un luogo dove si perde la speranza» ha detto, un luogo dove il sovrannumero tocca il 130%, dove ogni detenuto/a ha un massimo di 3 metri quadrati a disposizione, dove d’estate ogni cella è rovente. Il recentissimo decreto svuotacarceri è tutto da discutere (include il rimpatrio/colpevolizzazione dei e delle cittadini/e stranieri/e). E noi aggiungiamo che aveva ragione Voltaire, nel diciottesimo secolo, quando affermava: «Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri»! Non c’è altro da aggiungere.
Intanto la brutta notizia arriva dall’Unione Europea che “boccia” l’Italia (la ricerca risale a maggio, ma è stata fermata per non turbare le elezioni nel vecchio continente) per i diritti civili, la libertà della stampa, le carceri, la cancellazione delle norme anticorruzione e altro ancora.
Poi un disastro, e lo dicono da più parti, annunciato: la caduta del ballatoio alla Vela Celeste di Scampia, il quartiere-ghetto della periferia napoletana. Un terzo mondo (se non oltre) dove tutto è rallentato nel degrado più assoluto, dove si dice che i topi “coabitino” nelle culle dei bambini e bambine. Dove la colpa non è tutta delle puntate di una serie televisiva e del libro che ne è sottinteso. Dove oggi, per questo crollo si contano 3 persone morte (ma potrebbero aumentare) e 12 ferite, tantissimi ragazzini e ragazzine.
Vi confesso di essermi commossa a leggere (e l’ho ascoltato anche in televisione) l’articolo scritto da un abitante speciale di Scampia, Rosario Esposito La Rossa, scrittore, editore e soprattutto libraio, un libraio vero che a Scampia ha coraggiosamente aperto uno spazio che poi non è solo di acquisto di libri, ma di incontro e di scambio culturale, di opposizione non solo a Gomorra e ai suoi personaggi reali, ma al degrado dove «Lo Stato ha già perso». Vi voglio condividere, almeno in parte, questa emozione: «Mi chiedo sempre perché la gente, le famiglie vivono in quelle condizioni, perché accettano di vivere in quel modo? Per il ricatto di una casa dignitosa. Vuoi la casa? Vuoi rimanere in graduatoria? Allora devi restare in un palazzo ultimato nel 1975, che ha quasi 50 anni e da mezzo secolo non riceve manutenzione. Gli ultimi, quelli che non hanno niente, quelli che nemmeno i riflettori della serie Gomorra ha salvato, devono vivere in un palazzo di 14 piani senza ascensore, dove fili dell’elettricità abusivi corrono a fianco ai tubi dell’acqua. Dove una volta sì e l’altra pure gli scarichi fognari incontrano la corrente e scoppia tutto. Ci siamo abituati all’idea che dei bambini possano vivere in una discarica, dove basta una sigaretta per generare incendi. È successo a maggio di quest’anno ed era già successo nell’agosto del 2023. Che cittadini sono quelli che vivono in mezzo ai topi, ratti che rosicchiano fili della corrente lasciando centinaia di persone senza elettricità in pieno inverno (per molti elettricità vuol dire riscaldamento)? Era successo nel 2019. Sono bambini quelli che sognano una cameretta senza umidità? Sono bambini quelli che pur di avere una casa hanno abitato per mesi a 300 metri in linea d’aria dal cantiere della Vela che veniva rosicchiata da speciali macchinari? Hanno respirato polvere e calcinacci… Non è bastata la camorra, le file dei tossici che si bucavano dove giocavano i bambini, i topi nelle culle dei neonati, ora crollano anche i ballatoi, fatti di cemento e ferro. Ferro arrugginito, cemento che cede senza manutenzione. Sarà la magistratura ad accertare i colpevoli, ma lo Stato ha già perso. Lo Stato ha condannato questi cittadini di Napoli, della terza città d’Italia, piena di turisti, regno delle friggitorie, celebrata dal Times, alla solitudine… Napoli finisce a Capodimonte, si ferma ai quadri di Caravaggio appesi alla reggia borbonica. Dopo la collina il vuoto. La storia non vi assolverà. Non vi assolveranno i cittadini che occupano il Comune e l’Università pur di farsi sentire. Non vi assolverà Ivan, abitante di due sgarrupate stanze delle Vele, tetraplegico, morto a 21 anni nel 2015, che ha vissuto in un palazzo con tutte le barriere architettoniche del mondo. Se in Giappone impiegano 3 giorni per costruire un ponte, in Cina 1 notte per una strada, a New York un clic per abbattere un grattacielo, noi siamo quel Paese che impiega 30 anni per buttar giù 6 palazzi. A chi non c’è più, a chi ancora vivrà in queste condizioni, ai bambini che stanotte dormiranno sotto una tenda, possiamo solo chiedere perdono».
Allora consoliamoci con qualche buona notizia, prima della poesia. Viene dall’India, dalla sua parte più povera e dimenticata, forse come Scampia. A “crearla”, perché le buone notizie si creano come è capitato, per chi ha fede, a indicate divinità, è un maestro coraggioso. Ranjitsinh Diale, insegnante in una scuola primaria del distretto di Solapur, ha letteralmente liberato le sue piccole studentesse dall’obbligo del matrimonio precoce in un paese asiatico dove nascere donna non è assolutamente una cosa semplice. Diale ha tradotto testi nella lingua del posto, ha dato ai suoi e alle sue ragazzine un QR code per leggere poesie, audio, video lezioni. Risultato: soprattutto la frequenza totale delle ragazzine a scuola! La notizia non è nuovissima, risale al 2021, ma ci rinfresca ugualmente in questo torrido mondo dove capita di essere picchiate/i duramente se si fa il proprio dovere di giornalista o se si cammina prendendo per mano qualcuno/a del proprio sesso. Diala ha vinto un premio per quello che ha fatto, soprattutto per le sue bambine, per farle crescere donne libere e consapevoli. Un premio senza tempo, il Premio Global Teacher che è considerato il Premio Nobel per l’Istruzione.
Vorrei leggere con voi una frase di Aldous Huxley, tratta da Il mondo nuovo (1932) “Brave New World“. Aldous Leonard Huxley (Godalming, 26 luglio 1894 – Los Angeles, 22 novembre 1963) è stato uno scrittore e filosofo britannico. Una riflessione sulla democrazia e sulla dittatura che mi sembra attualissima e celebra l’anniversario della nascita del filosofo.
«La dittatura perfetta avrà sembianza di democrazia. Una prigione senza muri nella quale i prigionieri non sogneranno di fuggire. Un sistema di schiavitù dove, grazie al consumo e al divertimento, gli schiavi ameranno la loro schiavitù».
Vi aggiungo due poesie di donne. Una è di Emily Brontë, l’autrice di
Cime tempestose
Più felice sono quando più lontana
porto la mia anima dalla sua dimora d’argilla,
in una notte di vento quando la luna brilla
e l’occhio vaga attraverso mondi di luce.
Quando mi annullo e niente mi è accanto
né terra, né mare, né cieli tersi
e sono tutta spirito, ampiamente errando
attraverso infinite immensità.
Quest’altra è di una giovanissima artista indiana, Rupi Kaur, una donna sik del Punjab, migrata da piccola in Canada con la famiglia. La sua poesia è diretta, immediata. Ha molto successo, anche su Istagram, da dove è stata bandita per un periodo a causa di una foto che mette in evidenza il ciclo mestruale con due macchie di sangue sul lenzuolo e sul pigiama. È fiera delle sue origini.
Il nome kaur
mi rende donna libera
toglie i ceppi che
cercano di vincolarmi
mi eleva
per ricordarmi che sono pari a
qualunque maschio anche se lo stato
di questo mondo mi urla che non lo sono
che sono mia e
appartengo interamente a me stessa
e l’universo
mi umilia
a gran voce che ho il
dovere universale di spartirmi con
l’umanità per nutrire
e servire la sorellanza
allevare chi va allevato
il nome kaur mi scorre nel sangue
era in me prima che esistesse la parola stessa
è la mia identità e la mia liberazione.
Una donna del sikkismo, Rupi Kaur
Buona lettura a tutte e a tutti.
Forse una donna salverà l’America….
Come ogni estate, assurge agli onori della cronaca la gravità della situazione carceraria italiana, con l’aumento dei suicidi e il problema del sovraffollamento. Se ne parla regolarmente una volta l’anno e poi ce ne si dimentica, anche se i nostri editoriali hanno fatto virtuose eccezioni. Quasi nessuno però parla della situazione delle detenute, in un sistema tutto pensato rigorosamente al maschile, come ricorda l’autrice dell’articolo Il carcere non è un luogo per donne, che presenta un progetto molto interessante per questo settore della popolazione carceraria, il più dimenticato tra i dimenticati. Con questo tema apriamo la rassegna dei contributi di questo numero, come sempre dedicati a dare visibilità a figure femminili poco conosciute e intraprendiamo un viaggio virtuale, cominciando da Boston, con Sarah Caldwell, direttrice d’orchestra e impresaria, la donna di “Calendaria 2024”, figura carismatica nel panorama internazionale della lirica. Restiamo negli Usa con Jane Cunnigham Croly , attivista e pioniera della carta stampata americana e con Creare George Orwell. La storia di Eileen Maud O’Shaughnessy, la vicenda struggente della prima moglie di uno di quei «maschi socialisti che si sono opposti a ogni tipo di oppressione, tranne a quello delle donne». Ci spostiamo in quella che era l’Armenia sovietica per incontrare Aitzemnik Urartu, autrice talentuosa sia di opere monumentali che di scene della vita quotidiana, per poi tornare in Italia, a Forlì, con la recensione della mostra Le sorelle preraffaellite. Una confraternita di muse, ispiratrici, pittrici, per conoscere le opere di molte artiste poco note. Scendiamo verso Roma, in uno dei percorsi che tanto ci piacciono: Itinerario al femminile. Un viaggio tra le vie di Guidonia Montecelio.
Sempre a Roma, in Parlamento, è da poco stata approvata la controversa legge sull’autonomia differenziata. Costituzione letteraria. Art. 5 e 6, ci ricorda a quali principi fondamentali dovrebbe ispirarsi.
I racconti di questa settimana sono: Ho un orto piccolo, per “Racconti brevissimi di Daniela Piegai” e Le mani per “Flash-back”.
Estate, tempo di letture. Quelle che vi consigliamo “caldamente” sono I Dialoghi col serpente di Elisa Franco, un romanzo che l’autrice della recensione inserisce nella categoria di “ultragenere” in fantascienza e GenerAzioni in campo, di Eva Panitteri e Maurizio Saggion, recensito dalla nostra direttora responsabile nell’articolo Le donne che amano coltivare le viti.
Le guerre combattute nel mondo sono circa 50. Quelle che occupano i palinsesti dei nostri media sono due. Modeste proposte per operatrici e operatori di pace è una riflessione su come, rispettando la nostra Costituzione, ognuna e ognuno di noi potrebbe fare qualcosa di buono per le generazioni future, con un invito alle nostre lettrici e ai nostri lettori a suggerire altre azioni di cittadinanza attiva.
Chiudiamo, come sempre, con una ricetta vegana: Mousse all’acquafaba, assolutamente da provare, augurando a tutte e tutti Buon appetito!
SM
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Articolo di Giusi Sammartino

Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.
