Vi interessa il buon vino, conoscerne la provenienza, capirne l’essenza, intuire i sapori, le differenze, le mescolanze e gli odori? Desiderate sapere di più riguardo la vita e le scelte di chi lo produce, il perché del loro amore verso la fabbricazione e la commercializzazione di questo prodotto?
Allora GenerAzioni in campo è il libro che fa per voi. Scritto a quattro mani da Eva Panitteri e Maurizio Saggion (nella vita marito e moglie ed entrambi sommellier) è il «frutto di una collaborazione tra due appassionati di cultura del vino che di questo amore comune hanno deciso di farne parole, scrittura, condivisione», così come è scritto proprio in apertura del testo, per giustificarlo a chi legge.
Ma questo libro ha soprattutto un’ulteriore apertura e, meglio, direzione e, oserei dire, omaggio. Perché racconta del vino, ma di quello prodotto dalle donne che per vari motivi, ereditari, di passione o entrambi, si sono trovate a gestire le aziende a cui hanno dato una loro personale impronta femminile, di produzione e di gestione. Questa presenza, i racconti, che consistono nelle storie di quattordici donne e delle loro aziende, è svelata ai lettori e alle lettrici già dal sottotitolo che scandisce: Radici e percorsi del vino al femminile. «Emergono incontri — scrivono nella prefazione l’autrice e l’autore — dove la trama si è costruita lentamente, nodo su nodo, grazie alle sapienti parole delle produttrici. Emergono note profonde e disegni analitici che aprono una nuova possibilità narrativa: la degustazione emozionale della parola unita al sapore coerente dei loro prodotti».
Leggendo si imparano, dunque, tante storie, si seguono percorsi, si intuiscono scelte, non sempre facili. Insomma, si capiscono tante cose in più di un prodotto che incontriamo sulle nostre tavole e che ci accompagna in una convivialità trasversale tra banchetti, feste, cerimonie ufficiali, dove il vino occupa, se ben valutato e capito, tra chi lo presenta e chi ne fruisce il sapore e i profumi, un posto essenziale, se non regale, che nobilita il cibo, accompagnandolo e, insieme, caratterizzandolo fortemente.
«In questo viaggio narrativo di vicinanze dialettiche ed emozionali con le protagoniste del racconto — siamo ancora nella presentazione — non poteva sfuggire, a noi autori, la dicotomia tra il concreto apporto e il reale valore che le donne offrono all’articolato universo enologico e la percezione che appassionati ed esperti hanno oggi del contributo offerto dalle tante professionalità al femminile».
Colpisce, leggendo la prefazione alle quattordici storie, come proprio, più che soprattutto, nel mondo del vino e della sua produzione, esistano preconcetti e stereotipi di genere. Dunque l’autrice e l’autore dei testi devono combattere contro i pregiudizi (i giudizi dati a priori) per cui esisterebbero «vini da donna» (forse più leggeri?) e vini più corposi per uomini! «Non sono rare le descrizioni — raccontano — di un vino elegante e aromatico, attraverso l’uso di espressioni come “vino femminile”, o di un vino morbido e non troppo strutturato rappresentato come un prodotto che «piace sicuramente a un donna», o di un vino dalle tonalità rosee e tenui fotografato come un colore che «piace alle donne», assegnando di fatto a un prodotto una qualità caratteriale e comportamentale attribuita arbitrariamente a un universo articolato e unico come quello femminile. Riguardo alle espressioni che si incontrano dedicate ai gusti maschili il discorso si fa meno evidente, quasi non segnato: «Generalizzazioni e distorsioni meno presenti, invece, nell’utilizzo di espressioni riferite alle caratteristiche così dette “maschili” di un vino. Non crediamo di aver mai sentito l’espressione: “questo vino è così intenso che non può che piacere agli uomini”, oppure “vino dalle chiare caratteristiche cromatiche maschili”. A volte abbiamo udito di un vino “muscoloso” per identificare un prodotto dalla grande struttura, anche qui con un’immagine irreale e omologata della società. L’alfabeto enologico al maschile è sommerso e occulto, perché da tempo pratica di produzione linguistica e terreno di consumo sociale quasi esclusivamente agito da uomini e quindi privo della giusta ampiezza e della necessaria inclusività». Tutto ciò, a osservare bene, non è da poco e marca, anche in questo campo, una posizione patriarcale imperante. Come se, appunto, il vino fosse cosa da maschio, dalla produzione fino al consumo e alle donne fosse “concessa” solo una nicchia ricavata, anzi, quasi costruita apposta, per accontentare, celare l’esclusione effettiva e, ci piace aggiungerlo, voluta.
Allora cominciamolo questo viaggio intrapreso dai due sommellier, spaziando tra le storie vinicole e intime delle quattordici donne incontrate.
E come ogni storia che si rispetti si comincia dall’inizio, dalla presenza prima delle donne nel mondo della coltivazione delle viti e della produzione del vino. La base l’autrice e l’autore la trovano, nel XVIII secolo, in un’imperatrice, anzi, l’Imperatrice per eccellenza: «un importante contributo — si legge — viene dall’Imperatrice Maria Teresa d’Austria, prima donna sul trono degli Asburgo, ereditato alla morte del padre nel 1740. Tra le regnanti più illuminate della storia, riformista sia nell’apparato statale che nella funzione agricola, nel 1774 l’Imperatrice vuole l’obbligatorietà dell’istruzione per i bambini da sei a dodici anni, stabilendo per la prima volta l’importanza di una scuola diffusa, pubblica e gratuita. Qui però la ricordiamo quale artefice della classificazione dei Cru dei vini prodotti nelle terre al confine tra il Nord-Est dell’Italia e la Slovenia che si riunivano sotto il suo impero. Nel 1787, infatti, con il supporto di botanisti provenienti da Vienna, istituisce il primo catasto generale dei vigneti, una “Classificazione de’ vini prodotti nelle unite principate della Contea di Gorizia e Gradisca in riguardo alla loro bontà”. Il documento, redatto in italiano, rappresenta la zonazione più antica di cui si ha notizia, insieme agli editti del 1716 di Cosimo Terzo de’ Medici, promulgati per difendere e certificare la qualità dei vini del Chianti.
Dall’Emilia-Romagna la perfetta sintesi dei cliché che accompagnano il non racconto del lavoro al femminile è rappresentata da una figura storica che nella vita si mosse tra “grandeur e localismo”. Parliamo di Maria Luisa d’Asburgo-Lorena, anche nota come Maria Luigia Duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla, consorte separata e poi vedova di Napoleone Primo Bonaparte. Al suo arrivo in Italia nel 1816 (e al suo gusto), si fa risalire l’importazione dalla Francia delle prime barbatelle di Chardonnay, Pinot, Merlot e Cabernet che oggi esprimono alcune tra le numerose Doc della zona in cui visse». E il discorso prosegue fino all’’800 con donne legate sul campo alla produzione del vino sia in Italia che in Francia.
Una donna, raccontata in questa prima parte del libro è la generatrice del Barolo (nome della località da dove proveniva il marito italiano, appunto piemontese). Si chiama Giulia Vittorina Colbert de Maulévrier, è di origini francesi, e discende da una famiglia produttrice di vini. Lei diventa, appunto, l’artefice del Barolo moderno.
Uno sguardo viene poi dato alla Francia: «In Francia — ci informano —, Paese che precede l’Italia di trecento anni nella storia del vino di qualità grazie all’attenzione alle zonazioni, alla selezione dei vitigni e al concetto dei terroir trovano i natali altre donne eccellenti, imprenditrici cui si deve la riscrittura, in modo particolare, della qualità». Da qui inizia la storia di tante donne famose sia nella vicenda produttiva del vino tout-court che di quello del mondo delle “bollicine”. Donne che il libro continua mostrandocele: «Madame Françoise Joséphine de Sauvage d’Yquem nasce nel 1768 a Bordeaux. Sposata giovanissima al conte Louis Amédée de Lur Saluces, rimane vedova all’età di vent’anni. Sola e con due figli, riesce a mantenere la tenuta agricola nonostante i germi della Rivoluzione francese stiano cominciando a dare segnali e, pur avendo perso, come tutta l’aristocrazia, i privilegi della nobiltà, può e deve continuare a produrre vini». Poi tutta la storia legata allo Champagne: Barbe Nicole Clicquot- Ponsardin (più nota come veuve Clicquot) che porta le sue preziose “bollicine” anche in Russia e inventa il metodo remuage di cui le saranno grate tutte le aziende del settore, o altre donne del vino francese come Louise Pommery o Elisabeth (Lily) Bollinger.
Dalla Francia si passa all’Italia: «Ai giorni nostri, in Italia, tra le innovatrici troviamo Donatella Cinelli Colombini» sulla quale l’autrice e l’autore basano un capitolo, vale a dire che è la protagonista di una delle quattordici storie di donne del vino. Colombini è stata la presidente per sette anni, sino al 2022, dell’Associazione nazionale Le Donne del Vino, «una realtà guardata con rispetto e ammirazione da chi lavora nel nostro comparto, dalla stampa, dalle istituzioni italiane ma anche dalle colleghe straniere» come l’ha definita lei stessa nella lettera di fine mandato. E di lei si racconta bene: «Persona e personaggio estremamente visibile, produttrice di Brunello di Montalcino e docente di Turismo del vino, le si devono, oltre alla forte crescita dell’associazione, la nascita della manifestazione Cantine aperte e l’istituzione del Movimento turismo del vino entrambe nel 1993, iniziative che, insieme, danno impulso all’avvio del turismo enogastronomico italiano».
Certo è vero quello che è affermato nel libro: «Fare vino, qui tutti e tutte lo sanno, è questione di scelte. Ogni passaggio è un bivio e se nella vita sono le scelte che più di ogni altra cosa dicono a noi e al mondo chi siamo, allora è impossibile che non si rispecchi nel prodotto vino, in qualità e sostanza, la proprietà differente dell’essere stato realizzato a partire da menti, sogni, saperi e mani di donne».
Più che soffermarci qui sulle singole storie presenti nel libro che chi sceglierà di leggere gusterà a una a una come, appunto un vino di grande livello, vorrei ritornare a quello che è fondamentale, che ci interessa molto, come segno di differenza (in tutti i sensi). Insomma capire, aiutate/i dall’autore e dall’autrice quanto “pesa” essere donna nella produzione e nella diffusione del proprio vino.
Quello che ne viene fuori è che nel settore della produzione del vino le donne praticamente non sono “contate”, non esiste cioè una differenziazione di genere nelle statistiche che permetterebbe una quantificazione.
Il quadro d’insieme del settore declinato anche con percentuali di genere, infatti, è fermo all’analisi Cribis-Crif delle “Performance delle imprese italiane attive nel comparto del vino” aggiornata a marzo 2017, dove leggiamo che la maggior parte delle imprese vinicole operanti nei quattro mini-settori in cui si divide il comparto (viticoltura, produzione, distribuzione all’ingrosso e al dettaglio), mantiene la presenza femminile entro il 28% del totale della forza lavoro. Gli ambiti più virtuosi da questo punto di vista sono la viticoltura, col 28% di risorse femminili in azienda, e il commercio al dettaglio, dove si segnala una forza lavoro femminile pari al 24,8%. I valori scendono della metà nei distretti commercio all’ingrosso e produzione vinicola».
Nel libro si sottolineano le difficoltà incontrate dalle donne in questo settore che però si generalizza in tutto il lavoro che le riguarda: «L’esigenza che le donne segnalano da decenni — è scritto — , infatti, è quella che si rinunci a descriverle con espressioni desuete e polverose quali “angeli del focolare” o attraverso etichette magari più moderne ma ugualmente stereotipate, quali esperte “in rosa” o manager “in gonnella” o, peggio, “belle e brave”.
Esemplificazioni che purtroppo si continuano a leggere e ascoltare quando si racconta, si titola e si scrive del lavoro e dei successi delle donne. I moderni luoghi del lavoro e delle professioni potrebbero farsi agorà di una diversa rappresentazione dell’immagine delle lavoratrici, eppure sono ancora tante, troppe, le resistenze all’ascoltare realmente le donne per narrarle attraverso classi che le rappresentino fuori dai soliti canoni e solchi preordinati. Un danno che si propaga ulteriormente quando la comunicazione iper-veloce proposta attraverso social, blog e post online, sorvolando anche per brevità sugli argomenti più identitari, di fatto sottrae alla narrazione del vino l’apporto delle caratteristiche di coloro che lo producono, allontanando dal suo racconto importanti punti di vista. E di partenza… Parafrasando il filosofo Ludwig Wittgenstein — continua il libro —, secondo il quale il pensiero nasce dal linguaggio, i limiti che a esso si imprimono diventano allora i limiti con i quali si va a interpretare il mondo. Limiti (e stereotipi) che nel nostro caso emergono prepotentemente quando si sente affermare che il vino fatto dalle donne sia un prodotto prettamente per donne o quando dagli ambiti professionali filtrano ancora affermazioni che definiscono il rosato un vino per “il gusto” femminile». Tutto questo la dice lunga sulla situazione del lavoro al femminile e di quello che concerne il mondo del vino, sempre giudicato al maschile. Fa venire ancora più voglia di leggere queste quattordici storie che vedono protagoniste le donne e il loro modo di trattare la produzione di un vino di qualità.

Eva Panitteri, Maurizio Saggion
GenerAzioni in campo
All Around, Roma, 2024
pp. 169
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Articolo di Giusi Sammartino

Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.
