Le mani 

Il primo giorno del nuovo anno era iniziato. Con lo stomaco ancora in subbuglio e la faccia assonnata uscimmo dall’albergo. Nonostante il vento tagliente, Lisbona ci regalava un’altra giornata soleggiata. Colorata e austera, la città ci accoglieva nel silenzio.  
Dopo una breve passeggiata, arrivammo alla metropolitana. Anche il sottosuolo mi sembrò dipinto con tinte solenni e malinconiche. Il vagone era vuoto, avvolto in un silenzio fisso, interrotto qua e là dal vociare divertito di due giovani donne sedute di fronte a noi. Per tutto il tragitto le osservai di sott’occhio; mi incuriosiva la loro ilarità, avrei voluto condividerla con loro. Invece a me i nuovi inizi mettono sempre un po’ di tristezza: portano via quello che è stato e ti lasciano nell’incertezza di quello che sarà. 
Poche fermate prima del nostro arrivo, alla fermata ‘Cabo Ruivo’, salì sul vagone un uomo sulla trentina. La prima cosa che notai furono i suoi occhi e le sue mani: gli occhi sembravano cristallizzati, ricoperti da una patina lucente e cupa; le mani, leggermente tremolanti, si muovevano a scatti. Il suo corpo era un riverbero della sua frenastenia.  
Nonostante le decine di posti vuoti, il ragazzo chiese alle due giovani donne di potersi sedere in mezzo a loro. Loro acconsentirono. La richiesta dell’uomo mi aveva insospettita: poggiai gli occhi su di lui e non glieli staccai più di dosso. La ragazza di sinistra, probabilmente, avvertì le mie stesse sensazioni; si alzò e, con lo sguardo fisso su di lui, si avvicinò alla porta del vagone.  
Con le sue mani rosee e lisce, eppure così riprovevoli, l’uomo iniziò a toccare le gambe della ragazza rimasta seduta a fianco a lui. Lei era impietrita, la sua vivacità era scomparsa e il suo corpo diventato marmoreo. I suoi occhi assenti mi guardarono. Schioccai le dita davanti al suo viso quasi per riportarla alla realtà, a sentire nuovamente il suo corpo, su cui giaceva quella mano profana. Non riuscii a proferire parola; l’ostacolo della lingua, in quella situazione, diventò una montagna insormontabile. Lei si svegliò dal torpore e si alzò; lui cominciò a toccarsi le parti intime.  
Mi guardava spaurita; il suo sguardo straniato sembrava invitarmi all’azione. Io invece non seppi darle nulla di più che un po’ di compassione: cominciai a sentire quelle mani accarezzarmi; la testa roteare e un profondo senso di disgusto. Dovevo rimettere. 
La guardai un’ultima volta e le mie mani, ora tremanti, le indicarono di allontanarsi da lui. Scesi dal vagone e vomitai.  
Per tutto il giorno ripensai a lei. Lui, durante quelle 24 ore —  e spesso ancora oggi —  governò la mia mente. La sua immagine si ripropone e riaccende in me quel senso di disgusto che mi fece vibrare lo stomaco. Spesso mi chiedo se avessi potuto fare di più e una domanda mi perseguita: come dovremmo comportarci quando a molestare è una persona con un deficit intellettivo? 

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Articolo di Sveva Fattori

Diplomata al liceo linguistico sperimentale, dopo aver vissuto mesi in Spagna, ha proseguito gli studi laureandosi in Lettere moderne presso l’Università degli studi di Roma La Sapienza con una tesi dal titolo La violenza contro le donne come lesione dei diritti umani. Attualmente frequenta, presso la stessa Università, il corso di laurea magistrale Gender studies, culture e politiche per i media e la comunicazione.

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