Il destino in una vocale

Scrivo da quando ho imparato a farlo, all’inizio scrivevo su fogli sciolti e disordinati, che spesso però legavo in libretti improvvisati con spago e spillatrice, in modo che le storie che scrivevo non andassero perdute.
Poi tra il ’98 e il ’99, quando arrivò a casa il primo computer, e mio zio mi spinse ad abbandonare la carta, passai al digitale. Ora quando scrivo continuo a muovermi tra la materialità della carta e la musicalità della tastiera. Ma quando ero piccola, al di là della distinzione tra carta e digitale, trovavo comodo, in maniera del tutto naturale, di scrivere al maschile. Già dai primissimi temi in quarta e quinta elementare, alla -a preferivo la -o. Questa mia naturale predisposizione aveva a che fare con una necessità che mi era ben chiara. Sapevo bene perché lo facevo. Per essere ascoltata, ed essere presa sul serio. Perché la scuola, la società, e prima ancora la famiglia, mi avevano insegnato che una voce declinata al maschile ha più forza di una al femminile.
Anni dopo venni a scoprire che mio cugino, di qualche anno più piccolo di me, aveva preso la mia stessa abitudine, ma al contrario. Per lui era la -a la metà del suo intero, e così scriveva di sé: al femminile.
Cosa significava tutto ciò? Quale potenza trasformatrice si nascondeva per noi in seno a una vocale? Perché sentivamo del tutto spontaneamente di risolvere noi stessi in una vocale piuttosto che in un’altra? Eppure né io né mio cugino sospettavamo nulla delle abitudini dell’altro. Io, dal canto mio, non avevo idea di come si comportasse mio cugino quando si ritrovava a tu per tu con le parole. Tutti e due agivamo, e basta. Io spinta dalle mie intuizioni, lui dalle sue. Ma in entrambi i casi non vi era nulla che potesse avvicinarsi a un ragionamento. Era qualcosa di più simile a un presagio ciò che ci spingeva ad assumere questa postura nei confronti del reale. Solo dopo molti anni, scoprimmo quanto fossero simili quei nostri giochi d’infanzia.
Quando un paio di settimane fa ci siamo ritrovati a parlarne al telefono, lui mi ha detto, con fare freudiano, che di certo «è perché sono cresciuto circondato da donne: mia madre, mia nonna, e praticamente senza un padre», io ascoltavo incuriosita il procedere delle sue riflessioni, pur sapendo di non essere completamente d’accordo con ciò che diceva, finché ho provato ad avanzare un’obiezione «quello che dici sì, ha senso, ma io credo ci sia dell’altro». In una famiglia patriarcale, come quella da cui provenivamo entrambi, se io avevo deciso di attribuire a me stessa il genere maschile era per alzare la voce, e ottenere un riconoscimento, mentre mio cugino, io credo, lo facesse per riversare nella scrittura una certa sensibilità che gli era stata vietata altrove. Se è una donna a piangere, va bene, ma «un maschio no, non deve piangere», mi ripete esitando dall’altra parte del telefono, «era tuo padre a dirmelo quando mi vedeva piangere». Finisce la telefonata, e ripenso a quello che ci siamo detti, alla figura di mio padre, e alle sue parole violente. 
Mio padre si era presentato ai nostri occhi sotto forma di destino, era lui il drago da combattere, il nostro uroboro. Se per sovrastare la voce di mio padre, io avevo deciso di identificare me stessa con il suo genere grammaticale; a mio cugino non restava che rifugiarsi dietro quella -a che sembrava calzargli alla perfezione. Ma per entrambi, era stata la voce di un uomo a parlare al nostro posto. La nostra è quindi la storia di un padre contro cui battersi: una tragedia familiare e politica. Una tragedia collettiva.

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A cura di Federica Balducci

Laureata in Lettere e specializzata in Artiterapie, è una regista teatrale attiva presso alcuni licei di Roma. Conduce laboratori teatrali bilingue in francese e italiano, incoraggiando una forma di scrittura biografica.

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