Femminismo/femminismi. Intervista a Nicoletta Vallorani

Copertina del romanzo di Nicoletta Vallorani, Il cuore finto di DR, Mondadori Urania, 1993, con il quale l’autrice ha vinto (prima donna in assoluto) il Premio Urania nel medesimo anno

Negli anni Novanta è parso che l’essere femministe fosse diventato un disvalore. Perché?
Sono d’accordo con questa valutazione, e rilevo una differenza tra il contesto italiano e quello anglofono (che conosco), o comunque internazionale. In Italia, dopo una fase magica di grande coinvolgimento e di battaglie di piazza, con una mobilitazione interclassista e trasversale, mi pare che il femminismo si sia ristretto a una classe di donne intellettuali che si sono poi progressivamente allontanate dalla vita delle donne che non avevano strumenti culturali analoghi ai loro, le giovani si sono perse per strada, anche perché non c’era una particolare volontà di includere.
Io sono arrivata a Milano ventenne all’inizio degli anni Ottanta, dalla provincia, avendo girato il mondo (per ragioni di studio avevo trascorso diversi periodi all’estero), non avevo mai combattuto per cause femministe e rispetto alle donne scese in piazza del ’68 ero più giovane. A Milano non sono stata in grado di rintracciare i gruppi femministi, di capire come si muovevano e cosa facevano; eppure, collaboravo con la Tartaruga, storica casa editrice femminista, ma trovavo questo ambiente molto intellettuale; insegnavo allora in scuole dell’hinterland milanese: nell’immaginare queste donne in aula con le mie studenti pensavo che a queste ragazze di quel femminismo non sarebbe potuto importare di meno. È stata una perdita. Non ci siamo messe a raccontare quello che abbiamo fatto, non abbiamo reso partecipi le giovani donne della fatica che questa lotta, la lotta femminista, era costata: tutto questo è venuto fuori dopo, all’inizio degli anni Duemila, le femministe invecchiavano e non avevano lasciato alcuna eredità.
L’8 marzo scorso un gruppetto di mie studenti universitarie è venuto da me per chiedermi dove avrebbero potuto andare per affrontare tematiche femministe: questo non è normale, non è normale che le studenti rivolgano una domanda del genere a una docente. Significa che c’è un problema di comunicazione significativo.

Copertina del saggio di Anna Pasolini e Nicoletta Vallorani, Corpi magici. Scritture incarnate dal fantastico alla fantascienza, Mimesis, 2020

Si afferma ora il cosiddetto ‘femminismo neoliberale’, che si traduce in un trionfo dell’individualismo, nell’affermazione di diritti e opportunità per sé sola, non per tutte… Che ne pensi?
Io non sono una particolare fan delle etichette, ma è vero che alcune donne hanno un certo atteggiamento nei confronti della vita e si dicono femministe, ma poi nei fatti sono profondamente individualiste. La loro dichiarazione di appartenenza mi pare una pezza su una condizione che apre porte a donne che hanno già strumenti di affermazione e prendono a prestito modelli maschili. Una matrice individualista non ha niente a che fare con ciò che può cambiare le donne: il femminismo si vede in quello che una fa; se non fa è meglio che non scelga questa etichetta. Il femminismo presuppone una tensione etica che in donne di questo tipo non vedo, ed è un peccato, perché una donna che ha potere potrebbe cambiare molte cose. Resta il fatto che io non ho mai creduto nell’uomo solo (o nella donna sola) al comando: l’unica via per la rivoluzione è la relazione: se si salva uno solo (o una sola), si ripropone una dimensione totalitaria e il potere non condiviso è estremamente pericoloso.

Copertina del n.1 della fanzine femminile Un’Ala,
maggio 1984

A partire dagli anni Dieci del Duemila si assiste a un ritorno del femminismo tra le giovani donne (vedi Non Una Di Meno). Quali le ragioni?
Non Una Di Meno ha fornito opportunità e portato all’attenzione problemi urgenti, che hanno interessato le donne giovani: è un esempio di aggregazione positiva che è andata bene, che ha fatto seguito a una sollecitazione più internazionale. Mi dispiace che non sia nata agganciandosi alla tradizione italiana, ma va bene, è una battaglia femminista con connotazioni diverse rispetto al femminismo italiano tradizionale.
Oggi ci sono mobilitazioni affini al femminismo in aree geografiche abbastanza definite, che trovano nel web un’arena interessante: penso alla mobilitazione delle donne del Rojava, (la regione curda della Siria settentrionale), alle donne della Rete Jin, alla solidarietà con il movimento delle donne curde: una formazione transnazionale e assolutamente carsica, che funziona con il passaparola, evitando di utilizzare i media ritenuti compromessi, un movimento di base che non vuole servirsi di strumenti commerciali, e ne capisco le ragioni, anche se non so se questa sia la modalità più giusta…

Copertina del n. 2 della fanzine femminile Un’Ala, settembre 1984

È possibile, a tuo parere, accomunare donne di diverse comunità, culture, classi sociali sulla base di una piattaforma comune? Per intenderci, dall’Iran all’Afghanistan, dagli Stati Uniti all’Italia?
È quello che il femminismo ha sempre cercato di fare, che poi ci riesca è un altro discorso. Il confronto è complicato, le culture sono differenti, le tensioni e i conflitti possono essere forti. Le reti però ci sono, l’importante è che noi donne bianche privilegiate scendiamo dal piedistallo: senza dubbio dobbiamo almeno provarci.
Le storie sono uno strumento interessante per tentare un tipo di negoziazione differente: viviamo in un mondo in cui le comunicazioni sono facili, rappresentano un pericolo e una risorsa. Per questo ho fiducia nei giovani di oggi, che parlano diverse lingue (la lingua è l’elemento principale della comunicazione, e se non la conosci diventa una bella barriera…), vivono in contesti nazionali diversi, intrecciano relazioni con persone che non appartengono al proprio paese di origine.

Copertina del n. 3 della fanzine femminile Un’Ala,
marzo 1985

Hai detto che le storie sono «uno strumento interessante per tentare negoziazioni differenti». Vuoi fare qualche esempio?
Io ho fatto l’insegnante per tutta la vita: in aula riesci a far passare contenuti perché li trasvesti in forma di storia; certo l’ascolto è importantissimo, ma hai la consapevolezza di avere in mano il bandolo della matassa, condividi un pezzo di te attraverso storie di altri.
Nell’antichità il bacino del Mediterraneo ha prodotto storie: i miti greci, i poemi omerici, un serbatoio mitico che per noi è acquisito come patrimonio europeo, che tuttavia si dimostra utilissimo nel rapporto con l’altro. Per esempio, in misura crescente i miti sono usati come una sorta di grammatica per permettere alle donne di altri continenti di raccontare e raccontarsi. Penso all’esperienza (bellissima) realizzata da una coppia di giornalisti londinesi che hanno proposto a un gruppo di donne siriane rifugiate in Giordania di rappresentare la tragedia Le Troiane di Euripide; queste sono state messe nella condizione di specchiarsi in altre donne vissute nell’antichità, ma con lo stesso vissuto di distruzione e abbandono, donne che erano regine sono state rese schiave. Lo spettacolo e il workshop sono serviti anche alla realizzazione di un film documentario intitolato Queens of Syria: nell’allestimento parti della tragedia si alternano a racconti delle donne siriane.
Queste esperienze si sono moltiplicate e si sono rivelate estremamente utili: le storie del bacino del Mediterraneo non appartengono soltanto a noi, possono funzionare da grammatica per comunicare con chi ha alle spalle un bagaglio di dolore, che riflesso nelle storie di altri può servire a elaborare il trauma, a rendere la propria esperienza comprensibile a sé stessi e agli altri.

Copertina del n. 4 della fanzine femminile Un’Ala,
maggio 1987

Quali sono state le ragioni profonde e quale l’occasione spinta che ti hanno portato al femminismo?
Non ho mai partecipato a una vera mobilitazione femminista, sono nata e cresciuta in provincia, ma ho avuto una madre femminista senza saperlo, lei era un modello femminista di indipendenza, autonomia, mobilità. Negli anni di studio universitario sono stata spessissimo all’estero: ero esule e mi fermavo per tempi limitati, dunque, non ho avuto modo di integrarmi in altre comunità, altri gruppi; una volta a Milano ho capito che l’idea di donna che avevo in mente poteva chiamarsi femminista.
Il mio impegno femminista è arrivato con la scrittura di fantascienza. Volevo scrivere storie che cambiassero il modo di vedere il femminile, e anche per questo da subito mi sono qualificata come donna. Mi viene da sorridere quando penso a tutta questa storia: sono stata definita femminista da altri, poi ho capito che era la scelta giusta, che era quello che volevo. Mi ha giovato l’amicizia con Daniela Piegai, che considero mia maestra, perché lei scriveva fantascienza in un modo che a me piaceva, soprattutto per la cura letteraria, allora non usuale.
È stato importante, a Milano, l’incontro con il “Circolo d’immaginazione” Club City: in questo ambito è nata l’esperienza della fanzine femminile Un’Ala (quattro numeri tra il 1984 e il 1987), che ha espresso una posizione chiara nel contesto italiano, senza alcun conflitto con la parte maschile assolutamente prevalente: ho acquisito la consapevolezza che c’erano altre persone che avevano voglia di trattare i temi, anche di rilevanza sociale, che a me interessavano e che la fantascienza mi avrebbe consentito di appropriarmi di narrazioni e strumenti che erano ritenuti esclusivamente maschili.

Copertina del romanzo di Nicoletta Vallorani, Noi siamo campo di battaglia, Zona 42, 2022

Ho voluto fare un esperimento: se, da donna, potevo fare qualcosa di diverso rispetto a quello che facevano gli uomini. L’ho fatto in modo molto semplice: con i miei primi due romanzi (e con il personaggio di Penelope De Rossi) ho preso Barbarella e l’ho fatta diventare il suo esatto contrario. Era come se avessi in mano un megafono che mi consentiva di dire cose importanti a un pubblico che mi stava a sentire. Da lì è iniziato un percorso importante di crescita e maturazione come scrittrice, non sono arrivata subito alla battaglia per le donne nella fantascienza, ma ci sono arrivata e sono andata avanti su questi temi, in parte perché sono i temi che sperimento con il mio corpo, ma alla fine perché non ne parla nessuno.


Quale istanza vorresti fosse prioritaria nel femminismo, nei femminismi?
Potrebbe essere, anzi, è la cura della relazione, tra persone e soprattutto tra donne. L’idea di cura, di attenzione, di rispetto che emerge dal saggio di Ursula K. Le Guin La teoria del sacchetto della spesa.

Copertina del romanzo ‘ritrovato’ (fu scritto negli anni Ottanta) di Daniela Piegai e Nicoletta Vallorani, Strega di sera bel tempo si spera, Delos Digital, 2023

Come vedi il futuro per i diritti delle donne?
Tendenzialmente ho una posizione combattiva e positiva. Certo, negli Stati Uniti e anche in Italia, è in atto un attacco importante contro tutto quello per cui abbiamo combattuto, contro i risultati che abbiamo ottenuto, e questo attacco non è neanche portato in modo diretto. Se infatti l’ingresso delle associazioni Pro Vita non cancella la Legge 194, tuttavia la rende ancora più difficile da applicare (come l’obiezione di coscienza), espropria le donne del proprio corpo, perché ancora una volta la decisione è del maschio. Paradossalmente, però, questa aggressività così diretta ci aiuta forse a reagire in modo più determinato, come è accaduto in Italia nella percezione dei femminicidi: la reazione del padre di Giulia Cecchettin, quella della sorella Elena, che ha invitato le donne a non stare in silenzio ma a gridare la propria rabbia, a dare fuoco a tutto.

Scritta apparsa su un muro di Napoli nel giugno 2020 (dalla pagina Fb Monstera Talks, 26 giugno 2020)

Nel mio piccolo mondo ho scelto di fare parte di Unite. Azione letteraria, ideata da Annalisa Camilli e Giulia Caminito, per denunciare la violenza di genere e nominarla: ci sono arrivata dall’esterno, sono stata accolta immediatamente, ho partecipato a iniziative, non mi sono sentita come quando sono arrivata a Milano dalla provincia. Con le mazzate che stiamo prendendo qualcosa bisogna fare…

In copertina: Fantascientiste a Flush, Festival dell’editoria femminista, Bologna, 17 settembre 2022; da sinistra: Natalia Guerrieri, Elisa Emiliani, Francesca Cavallero, Laura Coci, Romina Braggion, Oriana Palusci, Nicoletta Vallorani, Elena Di Fazio, Diletta Crudeli, Tiffany Vecchietti, Antonia Caruso, Silvia Tebaldi, Martina Del Romano.
La galleria fotografica qui presentata comprende alcune opere di Nicoletta Vallorani (di narrativa e saggistica) e rende omaggio alla fanzine milanese tutta al femminile Un’Ala, alla quale Vallorani ha collaborato.

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Articolo di Laura Coci

Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.

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