Da bambina cercavo quel sasso che mi permettesse di scrivere e disegnare per terra, e il segno lasciato era bianco come il gesso, a volte nero; ero contenta quando il sasso tracciava una linea rossastra. Anche i primi uomini e le prime donne hanno iniziato così a lasciare la propria impronta e a raccontare con il disegno quello che vivevano e immaginavano. Probabilmente la pittura non sarebbe nata, e di certo non si sarebbe evoluta, se quelle persone non avessero trovato delle terre e delle pietre colorate che lasciavano segni più nitidi e persistenti di altre: avevano scoperto i pigmenti.
I pigmenti sono sostanze colorate, inorganiche o organiche, relativamente insolubili disperse in un mezzo acquoso o oleoso. Le proprietà fisiche che li rendono interessanti è quella di cambiare colore con la luce, grazie all’assorbimento selettivo e alla diffusione delle differenti lunghezze d’onda della luce. Ogni superficie ha la capacità di assorbire alcune lunghezze d’onda e di rifletterne o trasmetterne altre: questo determina quella risposta sensoriale che noi chiamiamo colore.
Ma torniamo al nostro uomo o alla nostra donna che si annoiavano nella caverna: utilizzavano i pigmenti disponibili nei luoghi in cui vivevano, erano la terra (giallo e rosso), il carbone di legna, la fuliggine che rimaneva dalle ossa e dal grasso degli animali cotti (nero), una tavolozza un po’ limitata che però ha permesso loro la creazione di opere d’arte. L’acqua, compresa la saliva, era il legante e consentiva di spruzzare il pigmento con la bocca o di spargerlo sulla superficie utilizzando le dita.
Ocra, dal greco ὠχρός, che significa pallido, sbiancato, gialliccio, è il nome che diamo adesso a quelle terre, la sostanza chimica responsabile del colore è la stessa della comune ruggine: l’ossido ferrico monoidrato Fe2O3 H2O. In natura si trova in alcune argille che contengono dei minerali ricchi in ferro come la limonite e l’ematite. Il pigmento, che è sostanzialmente un’argilla gialla, si ricava con la macinazione e il lavaggio delle argille. L’ocra rossa si produce riscaldando l’ocra gialla, eliminando l’acqua per produrre ossido ferrico anidro. Controllandone la “cottura” è possibile produrre una gamma di sfumature dal giallo caldo al rosso vivo. L’ocra rossa si trova naturalmente nelle regioni vulcaniche dove l’attività termica ha causato la disidratazione. Le “terre” sono ancora oggi molto utilizzate dai pittori perché economiche e durevoli.

In Egitto si iniziò a ricavare colori dai pigmenti dal 4.000 a.C., aggiungendo alla tavolozza il famoso blu egiziano, un pigmento molto stabile.

Questo blu (silicato di rame e calcio, CaCuSi4O10) veniva ottenuto mescolando un sale di calcio con un composto di rame, ai quali veniva aggiunta della sabbia che forniva il silicio; il tutto veniva poi riscaldato per produrre una pasta vetrosa. Questa pasta, per essere utilizzata, andava ridotta in polvere e mescolata con gomme o colle animali che rendevano il colore lavorabile e lo fissavano alla superficie. Si usavano anche due minerali simili dal punto di vista chimico (carbonato basico di rame (2CuCO3 Cu(OH)2): la malachite, probabilmente il più antico pigmento verde conosciuto e l’azzurrite, verde-blu.

Il blu egizio cominciò a essere impiegato nella pittura europea dal XV secolo, mentre la malachite fu sostituita solo nel XIX secolo da un pigmento artificiale, il verditer. Per ottenere gialli e rossi brillanti, in Egitto si utilizzavano il solfuro di arsenico (As2S3), presente in due minerali simili, di origine vulcanica e idrotermale, chiamati rispettivamente orpimento e realgar. Per la prima volta si riuscì a fissare su di una base bianca i pigmenti, di solito di origine vegetale, necessari per colorare le stoffe.
In Cina, polverizzando e riscaldando il cinabro, un minerale formato da zolfo e mercurio (HgS), nacque il vermiglione. Questo pigmento rosso intenso ha scatenato alcune confusioni terminologiche, come spesso accade con i colori. Il nome rosso vermiglio o vermiglione deriva infatti dal latino vermicùlus, piccolo verme, perché veniva confuso con un altro rosso prodotto da un insetto, chiamato vermiglio della quercia. Una volta triturato, il poverino, diventava un colorante detto lacca kermes, o cremisi, quella che andava a tingere di rosso anche l’Alchermes. A Roma si aumentò la confusione chiamando, a volte, questo rosso minium. In realtà il minio originale era un altro rosso ancora ricavato dal piombo.
La biacca, un pigmento bianco derivato dal carbonato di piombo (2Pb(CO3)2Pb(OH)2) è stato invece scoperto in Grecia ed è rimasto il pigmento bianco più utilizzato in pittura fino al XIX sec. Era particolarmente apprezzato perché di un bianco purissimo. Piccolo inconveniente: è tossico.

Come il cinabro, anche lui piuttosto velenoso a causa della presenza di mercurio. Biacca e cinabro venivano utilizzati nell’antichità come cosmetici. Non il più salubre dei make-up.

Non voglio addentrarmi nello sconfinato mondo dei pigmenti organici, ma devo nominare la Roma antica dove, oltre a perfezionare la produzione dei pigmenti egiziani e greci, si allargò la tavolozza con la porpora di Tiro. Questo colore, le cui sfumature variano dal rosso al viola-blu, fu forse scoperto in Fenicia, ma Roma lo rese famoso. La porpora si ricava da varie specie di murici, gasteropodi di cui era ricco il mare di Tiro, da cui il nome. Per ottenere 1 grammo di colorante servivano, gasteropode più gasteropode meno, 10.000 esemplari. Era quindi estremamente costoso, riservato solo a sacerdoti e aristocratici. Adesso diremmo anche non sostenibile dal punto di vista ambientale.
Durante il Medioevo e il Rinascimento, ai pigmenti già noti si aggiunse il blu oltremare, che si otteneva macinando il lapislazzuli, una pietra semi-preziosa contenente lazulite, un silicato di alluminio. Il processo di produzione dell’oltremare era complesso: la pietra veniva macinata, mescolata con cera e impastata in un bagno di lisciva per separare le impurità dai cristalli di lazulite. Il pigmento risultante era costosissimo e quindi riservato a soggetti “preziosi”, come il manto della Madonna.
Le terre d’ombra, il cui nome deriva dall’Umbria, apparvero alla fine del XV secolo. Sono composte da ossidi di ferro e manganese idrati e ne esistono due specie: la terra d’ombra naturale e la terra d’ombra bruciata, che si ottiene riscaldando la terra d’ombra naturale e da cui deriva un marrone più ricco. Sempre per il colore marrone si iniziarono a utilizzare anche la terra di Siena, più gialla che bruna, e la sua versione calcinata, la terra di Siena bruciata, più bruna che gialla.

Durante il Rinascimento si iniziò anche a produrre il giallo di Napoli, un pigmento derivato dal minerale bindheimite. La sua produzione rinascimentale prevedeva il riscaldamento di composti di piombo e antimonio. Venivano usati come sostituti dell’oro una miscela di zafferano, tuorlo d’uovo e mercurio e il cosiddetto oro musivo, ricavato dal solfuro di stagno.
La produzione artificiale dei pigmenti nell’era moderna iniziò nel 1706 in Germania, quando un fabbricante di colori creò, per caso, il blu di Prussia. Alla fine degli anni Venti dell’Ottocento, in Francia, fu anche sintetizzato il blu oltremare francese, liberando i pittori dal costo esorbitante del lapislazzuli.
Era iniziata una nuova stagione in cui i minerali e le terre avrebbero avuto una rilevanza minore del passato, gli artisti avrebbero trovato i loro colori già pronti in tubetto e non avrebbero avuto più bisogno di trasformarsi in alchimisti per tritare, cuocere e mescolare i pigmenti per la loro tavolozza.
In copertina: dipinti parietali, grotta di Lascaux.
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Articolo di Sabina Di Franco

Geologa, lavora nell’Istituto di Scienze Polari del CNR, dove si occupa di organizzazione della conoscenza, strumenti per la terminologia ambientale e supporto alla ricerca in Antartide. Da giovane voleva fare la cartografa e disegnare il mondo, poi è andata in un altro modo. Per passione fa parte del Circolo di cultura e scrittura autobiografica “Clara Sereni”, a Garbatella.
