Redenta e Iris, due donne che non si dimenticano

Mi sono avvicinata al libro di Nicoletta Verna I giorni di Vetro (Einaudi, 2024), dopo aver letto con grande interesse un breve articolo di Elvira Serra, apprezzata giornalista che seguo sempre nella rubrica “Polaroid” sul Corriere della sera (20-5-24); questa volta il titolo era davvero invitante: Il balzo in avanti di Nicoletta Verna e si riferiva al precedente romanzo Il valore affettivo, del 2021, che aveva riscosso il plauso della critica raccogliendo svariati premi ed era assai piaciuto al pubblico. Ma stavolta si era superata, secondo il suo giudizio, aveva «fatto il salto» riuscendo a entusiasmare lettori e lettrici «per la grazia asciutta [che] accompagna fino all’ultima pagina, mescolando orrore e pietà, violenza e speranza, sadismo e limpidezza».

Il valore affettivo; copertina

Nicoletta Verna

L’autrice, quarantottenne di Forlì residente a Firenze, ha un incarico importante nei settori web marketing e comunicazione presso la casa editrice Giunti, ha scritto circa 500 voci dell’Enciclopedia della radio (Garzanti, 2003), racconti, saggi e volumi su media e cultura di massa; ha insegnato in vari atenei e istituti; è sposata e ha due figli. A questa vicenda pensava da tanto tempo, con l’idea di farne un racconto breve, ha spiegato in una intervista a Brunella Schisa (il Venerdì di Repubblica, 17-5-24), non ritenendo che «la storia di due persone offese e violate potesse interessare, temevo che apparisse retorica, falsa. Ma in questi anni la cronaca nera ha portato il tema in primo piano e ho capito che era arrivato il momento di raccontarla». E ora, preso in mano il libro, diventa difficile staccarsi dalla lettura, come ha affermato giustamente Schisa.
Prima di entrare nei dettagli di un’opera in cui «non c’è niente di vero, eppure non c’è niente di falso» ― così scrive Verna nella nota finale ―, è bene precisare che la trama si svolge a partire dalla nascita di Redenta, nel 1924, il giorno del rapimento di Giacomo Matteotti, e di Iris, nel 1923, le due protagoniste-narranti, le cui vite scorrono per un buon tratto parallele, anche se non potrebbero essere più diverse.
Siamo nell’area di Castrocaro e delle sue Terme, di cui seguiamo la crescita e il progressivo successo, nei pressi di Forlì, popolarmente “il Cittadone”; quindi alle vicende di due famiglie fanno da sfondo i fatti storici: la violenta affermazione fascista, la campagna d’Africa, la Seconda guerra mondiale, l’armistizio e la repubblica di Salò, fino alla liberazione, con cui si intrecciano le piccole storie della gente comune: la fame e la miseria, i giovani al fronte, i paesi spopolati della loro forza lavoro, le notizie incerte e frammentarie del conflitto, le speranze e le delusioni, i funerali a cadaveri inesistenti le cui tracce si sono perse in qualche lontano campo di battaglia. Ma ci sono pure gli esaltati, i fascisti della prima ora, i volontari, i crudeli esecutori, quelli che rimpiangono le nefandezze compiute su suolo africano ai danni della popolazione e di ragazzine innocenti, comprate per pochi spiccioli.
Meritano chiarimenti anche i nomi dei personaggi principali, che non sono certo scelte casuali: Redenta poteva morire come i due fratellini e la sorella, quindi in questo modo era già salvata e accolta in Paradiso, in più si capisce presto che ha “la scarogna”, infatti dopo la polio rimane con una gamba e un braccio offesi. Iris prende il bel nome non dal fiore, ma dall’opera, in vero non famosissima, di Mascagni, ascoltata in frammenti eseguiti dalla banda paesana. Vetro, con la maiuscola, è il soprannome di un essere infame, tale Amedeo Neri, un fascista feroce dal passato oscuro, che in Etiopia ha perso un occhio, sostituito in Svizzera da una ottima protesi in materiale pregiato, visto che lui è un eroe con tanto di medaglia d’oro sul petto.
Sarebbe opportuna ben più di una citazione per le altre donne presenti nel romanzo, a cominciare dalla nonna, la Fafina, infermiera diplomata che tuttavia si arrabatta con mille mestieri e alleva sventurati trovatelli, perspicace, attenta, voce critica verso le idiozie del regime e osservatrice di quanto le accade intorno, specie nella sciagurata famiglia della figlia Adalgisa, sposata con un buono a nulla. La stessa Adalgisa è un tipo originale: non si pèrita di aggredire a parole e con le mani le tre bambine sopravvissute e il marito, anzi, quando erano fidanzati l’ha accoltellato e, dopo una serie di gravidanze, per quella vecchia condanna è finita in galera. La mamma di Iris è tutt’un altro genere di donna: arriva nel paesello di Tavolicci guidando sicura il calesse e con sé porta una cassa di libri; sarà infatti la maestra di chiunque voglia imparare a leggere e scrivere, persone adulte, ignoranti e rozze, insieme a bambini e bambine di ogni età. La sua pazienza infinita, la sua dedizione, il suo coraggio saranno apprezzati pure nel circondario e troverà un buon marito, anche se è già incinta. È chiaro quindi che, come si legge nelle prime due parti del libro, l’infanzia e la giovinezza delle due protagoniste sono assai diverse: fra violenze, privazioni, urla, pregiudizi, assurde credenze (il Mazapegul, i fantasmi, le streghe…) quella di Redenta, che non è affatto stupida e che non parla solo perché non ha nulla da dire, ma (non a caso) la sua prima parola sarà: «Assassino». E imparerà a sue spese che «la violenza o è assoluta o non è niente, e quando non è niente allora puoi sfuggirle». Fra i banchi di un’aula modesta, fra la cattedra e la lavagna muoverà i propri passi Iris, precoce e desiderosa di imparare, presto aiutante della madre nel ruolo di piccola insegnante, amata e incoraggiata nei suoi progressi. Non è certo una casualità se queste due parti si concludono anticipando un personaggio: Vetro, in buona parte protagonista della terza dal titolo ambiguo Ma l’amore no, come la famosa canzone interpretata da Alida Valli nel film del 1942 Stasera niente di nuovo.

Alida Valli intreprete della canzone Ma l’amore no

Amore no davvero, sebbene si celebri un incredibile matrimonio fra il prestante gerarca e la purina, che inizia con uno stupro e procede con vero e proprio sadismo. D’altra parte cosa aspettarsi da uno che tiene imbalsamata la testa di una africana sul cassettone, e la bacia pure? Nessuna violenza ci viene risparmiata, tutte quelle che la follia dell’uomo rivolge alla disgraziata moglie, dotata di resistenza ai soprusi e di incredibile sopportazione, temendo sempre che la brutalità peggiori, ammesso che sia possibile, e bramando spesso la morte. Evocate per aiutarla, le compaiono le presenze dei fratellini e della piccola Argia, che la sostengono, e del caro amico Bruno, una delle rare figure maschili positive, altruista, coraggioso, ma ormai perso da qualche parte come combattente. Queste pagine terribili seguono un crescendo perché Vetro, insieme al procedere degli eventi storici, agli alti e bassi del fascismo, prima e dopo l’8 settembre, diventa sempre più potente a livello locale e quindi sfoga la sua malvagità su chiunque lo ostacoli o reputi un avversario politico. Il culmine si ha quando porta una donna in casa e la riduce in fin di vita; spetterà alla “sciancata” salvarla con fatica immensa, nonostante le sue gambe fragili. Intanto si ha notizia delle bande partigiane, in specie quella guidata da una leggenda: il comandante Diaz, che man mano acquista seguaci e la protezione popolare.
Nella quarta parte, Come l’ombra, ritorna la voce narrante di Iris, ormai adulta e coinvolta nella lotta antifascista; qui avvengono fatti essenziali che collegano, e con varie sorprese, le due vicende che ci sembravano solo parallele; rappresaglie, rastrellamenti, lancio di armi da parte degli Alleati, notizie frammentarie, stragi nazifasciste (come quella di Tavolicci con 64 morti, di cui 19 bambine/i), personaggi che ricompaiono e nuovi volontari che si uniscono al piccolo gruppo autonomo, capeggiato con fermezza da Diaz.
Ci si avvia alla conclusione con Fiamme nere, in cui ascoltiamo di nuovo Redenta, mentre gli eventi sempre più tragici giungono all’epilogo. Di più non si può dire, ma certo l’autrice sa dipanare con maestria una trama complessa, dove tutti i fili tornano, e noi lettrici e lettori non possiamo che procedere, travolti dal concatenarsi dei fatti storici con le vite convulse e dolenti dei protagonisti, donne e uomini. E con la sua scrittura potente ci guida verso la logica conclusione (ancora legata a un celebre brano musicale: Il valzer delle candele) in cui compaiono ulteriori dettagli e si spiegano alcuni passaggi che erano rimasti avvolti in un alone di mistero; finalmente sono in pace Redenta e Iris, che si erano solo sfiorate ma pure legate in maniera indissolubile.
Al di là della trama avvincente e bellissima, non si può trascurare un altro aspetto di questo romanzo memorabile: il linguaggio, limpido, espressivo, arricchito da proverbi, forme dialettali (la babina, imbestia, quaione, sfrante…), soprannomi (Zambutèn, Zucó dla Bolga), modi di dire («Piangerà. Le donne prima o poi piangono tutte»), invocazioni (osta dla Madona), imprecazioni (Adèss a t’amaz) appartenenti alla vera voce del popolo romagnolo. Altrettanto si può dire per la costruzione dei periodi, mai troppo complessi ma al tempo stesso articolati alla perfezione, con un passaggio frequente dalle efficaci descrizioni di persone e ambienti, ai vivaci dialoghi, a cui fanno da sfondo i luoghi reali, le superstizioni, gli usi, i riti più significativi per quel preciso contesto geografico e per quel drammatico ventennio.
Insomma un’opera imperdibile, che avrebbe ben figurato fra i finalisti del premio Strega, afferma Serra, se solo fosse uscita in tempo; «ma la cosa più emozionante ― conclude ― ha a che fare con il percorso della scrittrice, che ha fatto il salto, superando sé stessa».

Nicoletta Verna
I giorni di vetro
Einaudi, Torino, 2024
pp. 448

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Articolo di Laura Candiani

Ex insegnante di Materie letterarie, dal 2012 collabora con Toponomastica femminile di cui è referente per la provincia di Pistoia. Scrive articoli e biografie, cura mostre e pubblicazioni, interviene in convegni. È fra le autrici del volume Le Mille. I primati delle donne. Ha scritto due guide al femminile dedicate al suo territorio: una sul capoluogo, l’altra intitolata La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne.

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