Era maggio 2000 e stavo frequentando il corso di letteratura inglese moderna e contemporanea quando — per la prima volta — sentii parlare di studi di genere e rimasi subito fortemente affascinata e incuriosita da quanto la professoressa Ornella De Zordo mi avesse fatto scoprire con gli argomenti trattati in quel suo corso per noi studenti di Lingue e Letterature Straniere. Avrei voluto tantissimo sostenere la mia tesi di laurea con lei, ma la lista d’attesa era troppo lunga per i tempi nei quali mi ero prefissa di laurearmi. Con non poco dispiacere, rinunciai ad averla come relatrice. Avevo ben chiaro però di non voler rinunciare ad approfondire, nella mia tesi di laurea, gli studi di genere. Pochi mesi dopo, frequentando il corso di letteratura inglese dell’ultimo anno, conobbi la professoressa Susan Payne. Per una fortunata coincidenza del destino, i contenuti delle sue lezioni erano strettamente legati a quanto mi aveva lasciato nel cuore il corso di letteratura inglese moderna e contemporanea.
Tra le varie donne-artiste vittoriane di cui la professoressa Payne ci parlò — molte delle quali erano piuttosto conosciute nella storia della letteratura inglese — la mia attenzione fu catturata dalla meno nota tra quelle presentateci: Mary Elizabeth Coleridge.
Chiunque si sia avvicinato allo studio della letteratura inglese ha sicuramente incontrato le opere di Samuel Taylor Coleridge, poeta tra i più rilevanti del Romanticismo, ma non tutte/i sono forse entrati in contatto con la straordinaria figura della pronipote Mary Elizabeth e con la sua produzione letteraria, purtroppo in buona parte fuori stampa da tantissimo tempo.
Proposi alla professoressa Payne una tesi di ricerca su questa autrice e — con una valigia carica di emozioni e curiosità — volai a Londra. Il mio soggiorno di due mesi presso una famiglia londinese, già previsto per migliorare il mio inglese, divenne così un viaggio che doppiamente mi arricchì di nuove esperienze e conoscenze. A Londra ebbi la possibilità di toccare con mano i testi di Mary Elizabeth Coleridge, conducendo le ricerche presso la British Library, unico luogo dove essi erano reperibili e consultabili.
È così che è nata questa mia tesi di laurea, le cui pagine sono rimaste nel cassetto per ben venti anni. Molte volte ho desiderato condividerle per poter far conoscere ad altre appassionate/i di letteratura inglese questa figura di artista vittoriana straordinaria, rimasta in ombra.
La tesi è divisa in tre capitoli. Il primo racconta gli eventi principali della vita di Mary Elizabeth Coleridge (Londra 1861- Harrogate 1907), soffermandosi su quegli elementi che hanno condizionato maggiormente la sua produzione letteraria, in primo luogo il peso dell’eredità del proprio cognome. Un peso ancora più consistente per una donna, per di più in quell’epoca. Come ricordano due note critiche letterarie femministe Sandra M. Gilbert e Susan Gubar, già alla fine degli anni Ottanta alcuni teorici letterari avevano iniziato a esplorare quella che può essere chiamata “la psicologia della storia della letteratura”. Da quegli studi emergevano le tensioni e le ansie, le ostilità e le inadeguatezze che scrittrici e scrittori vivono confrontando non solo i risultati raggiunti dai loro predecessori, ma anche le tradizioni di genere e di stile che ereditano dai loro antenati. Da certe tensioni e certe ansie, Mary Elizabeth non è stata esente, soprattutto per quanto riguarda la produzione poetica.
Il secondo capitolo tratta una piccola parte della scrittura in prosa dell’autrice che attraversa vari generi letterari: dai romanzi, ai saggi, alle stories. L’ombra dello zio Samuel Taylor Coleridge — noto principalmente come poeta — gioca un ruolo poco rilevante su questo tipo di produzione così che Mary Elizabeth si sente libera dall’anxiety of influence e può firmare la propria opera in prosa con il suo nome autentico.
Il terzo capitolo presenta un’analisi dei suoi componimenti poetici più significativi, analisi che cerca di mettere in evidenza non solo i caratteri propriamente esclusivi di ogni testo, ma anche quegli elementi che risultano essere delle costanti di tutta la produzione poetica di Mary Elizabeth. A livello tematico emerge il continuo ripetersi del senso di solitudine, di dolore, di esclusione vissuti dalla poeta in quanto non può vivere liberamente il suo essere donna-artista. A livello linguistico e formale si evince come essa si presenti sempre autrice e personaggio insieme: scrivendo in prima persona, l’artista non riesce a pensarsi scissa dalla donna. Ecco perché anche le sue scelte linguistiche si rivelano fondamentali per comprenderne la percezione non solo del mondo fisico, ma anche e soprattutto del proprio mondo interiore, di cui tutta la sua opera letteraria — e in modo particolare la sua poesia — si rivela lo specchio più fedele e pure più drammatico. Emblema di una sofferenza legata al gender.
Analizzando la figura e la produzione di Mary Elizabeth Coleridge, si comprende che le ragioni della sua mancanza di notorietà — soprattutto per quello che riguarda l’opera poetica — non devono essere attribuite né a un’assenza di pregio dei suoi testi, né a un giudizio di svalutazione della critica. La scarsa fama risulta facilmente comprensibile se si considerano gli avvenimenti fondamentali della sua vita e si interpretano tenendo presente quello che è stato il contesto storico-culturale della sua educazione e formazione di donna-artista vittoriana.
Il riserbo dell’autrice stessa che durante la sua esistenza introduce alla conoscenza delle proprie poesie soltanto pochi intimi, rifiutandosi non solo di pubblicarle, ma anche di estendere il numero di lettrici e lettori — sia pure nella cerchia delle amicizie — costituisce uno dei principali motivi della sua mancata celebrità. Solo nel 1896 rende pubblica la prima raccolta Fancy’s Following firmandola con lo pseudonimo Anodos che è il nome del protagonista del suo romanzo preferito: Phantastes (1858), dell’autore George Mcdonald.
Anodos significa Upon no road, ovvero: su nessuna strada. Con questa scelta, la poeta sottolinea come ella non pretenda né voglia, con i suoi versi, seguire una strada già percorsa da altri, né tantomeno sostituirsi a questi. L’adozione di uno pseudonimo scaturisce da quel complesso di inferiorità che Mary Elizabeth prova — per tutta la vita — nei confronti del suo lontano zio Samuel Taylor Coleridge. A tutto ciò, si aggiunge lo stereotipo di genere che in epoca vittoriana associa la poesia al genere maschile, relegando la donna ad un’educazione che verte sulla sfera domestica e sentimentale. Con queste premesse ideologiche ne consegue che Mary Elizabeth, scrivendo poesie, oltrepassa doppiamente i “limiti” del femminile in quanto è una donna-artista e in quanto scrive versi. Li firma così nascondendo il suo nome reale.
La donna, secondo lo stereotipo femminile del tempo, è “debole per l’arte” ma “forte per la vita familiare e per i doveri”. Per questo è esclusa da una cultura elevata, come implica il genere poetico che richiede la conoscenza di certi modelli classici, solitamente insegnati solo agli uomini.
Per molti aspetti, Mary Elizabeth Coleridge non risulta esente dai condizionamenti dettati dagli stereotipi dell’epoca. La sua vita, in armonia con il periodo, è affine a quella di tante giovani donne vittoriane di sfera sociale elevata. Tuttavia lei si distingue per la grande cultura. Legge molti testi della letteratura inglese — continuamente oggetto di profondo e appassionato studio — e conosce a un buon livello l’ebraico, il tedesco, l’italiano, il francese e il greco. Tutte queste ampie conoscenze — frutto di un ambiente domestico culturalmente assai stimolante — risultano presenti nella sua produzione letteraria e in particolar modo in quella in versi. I sentimenti espressi nelle poesie di Mary Elizabeth Coleridge rappresentano la più genuina e diretta eco della sua personalità. Sebbene i suoi componimenti affrontino temi tipici di altre poete del tempo, la sua voce si caratterizza per la distinta originalità con cui apre le porte del suo pensiero e del suo cuore, perché lo fa con una voce più drammatica di quella di altre contemporanee. Questa drammaticità raggiunge spesso la sua massima intensità nell’ultimo verso dei testi che — dominati sempre da un contesto e da un’atmosfera piuttosto enigmatici — si rivelano in qualche modo “poesie senza tempo”, anche per i temi che riflettono, per certi aspetti, alcuni dei possibili disagi della donna di oggi. Ne è un esempio il componimento The Other Side of a Mirror (L’altro lato di uno specchio): un giorno, guardandosi allo specchio, la poeta nota riflessa non più l’immagine di sé gaia e contenta che vi aveva visto altre volte, ma la visione di una donna selvaggia e istintiva, caratterizzata da una disperazione estrema. Nella seconda metà dell’Ottocento, l’immagine dello specchio è piuttosto ricorrente nei componimenti di altre poete vittoriane. Esso è infatti il mezzo attraverso il quale la donna osserva sé stessa. Lo specchio rappresenta così il momento di incontro tra il soggetto che guarda e il soggetto riflesso. Questo incontro può essere per la donna o un momento di riaffermazione della propria identità o un traumatico incontro con il lato più oscuro di sé, come nel caso di Mary Elizabeth. La donna vittoriana non può esprimere liberamente la propria sensualità e quindi soffre poiché è costretta a seguire uno stereotipo che le impone un certo pudore verso l’istinto e il sesso. Tale sofferenza è un prezzo molto alto da pagare e per Mary Elizabeth si trasforma in dramma. Un dramma vissuto in solitudine e in silenzio da questa artista che percepisce tutte le limitazioni di cui è prigioniera e che “in catene” può gridare solo tra sé e sé il proprio dolore.
L’opera letteraria di Mary Elizabeth Coleridge si colloca Upon no road per l’originale drammaticità con la quale ha messo davanti allo specchio la propria immagine femminile. Una drammaticità che si ritrova in ogni suo componimento, un grido rimasto a tacere quando avrebbe dovuto essere ascoltato e compreso. Speriamo che attraverso la condivisione di queste pagine, l’artista possa ricevere l’attenzione che merita e quell’ascolto mancatole, perché davvero la sua produzione ha il diritto di essere conosciuta e — per dirla con le parole di Henry Newbolt, noto intellettuale del suo tempo — «il dono della memorabilità».
Qui il link alla tesi integrale: https://toponomasticafemminile.com/sito/images/eventi/tesivaganti/pdf/285_Predieri.pdf
***
Articolo di Sabrina Predieri

Laureata in Lingue e letterature straniere, ha affiancato agli studi sul gender un profondo interesse per la ricerca pedagogica. La passione per la scrittura trova espressione in alcune sue pubblicazioni inerenti al ruolo delle emozioni nel processo di insegnamento-apprendimento, alla valorizzazione delle differenze e all’inclusione delle singole diversità. Attualmente è docente curricolare di scuola primaria.
