Pratiche di riflessione creativa sui monumenti pubblici

Da qualche anno i monumenti sono oggetto di vivace dibattito tra chi ne difende l’importanza culturale e il ruolo che giocano nel costruire un’identità nazionale, e chi li vorrebbe rimuovere o distruggere in quanto rappresentativi di un passato fascista, coloniale, violento e maschilista che si vorrebbe lasciare alle spalle. A maggio Vitamine vaganti si è già occupata del tema con la recensione di Le statue giuste (https://vitaminevaganti.com/2024/05/18/le-statue-giuste/), ultima fatica di Tomaso Montanari, il quale propone una terza alternativa tra l’iconoclastia e l’indifferenza, che possa mettere in discussione il patrimonio senza cancellarne le tracce; in questo articolo vorrei dunque proporre quattro esempi, dalla fine degli anni Sessanta ai giorni nostri, di risemantizzazione e contestazione creativa dei monumenti cittadini.
Antimonumento alla Vittoria è l’opera che Valentina Berardinone, artista napoletana recentemente scomparsa, propone alla manifestazione Campo Urbano. Interventi estetici nella dimensione collettiva urbana, organizzata a Como il 21 settembre 1969; il curatore Luciano Caramel l’ha ideata sulla scia delle contestazioni studentesche alla Biennale di Venezia dell’anno precedente, momento in cui il mondo dell’arte si trovò del tutto impreparato e sordo di fronte alle proteste sessantottesche. L’intento di Caramel e degli altri coordinatori era quello di stimolare il pubblico alla riflessione sulla situazione politica ed estetica attuale attraverso l’incontro con le opere d’arte, allestite appunto nello spazio cittadino e non in una sede museale; l’unica richiesta rivolta ad artisti e artiste partecipanti era dunque quella di coinvolgere la comunità locale o di interagire con il tessuto urbano.

Campo Urbano, intervento di Grazia Varisco, foto di Ugo Mulas
Campo Urbano, intervento di Gianni Pettena, foto di Ugo Mulas

Berardinone sceglie per la sua opera il centro di piazza San Fedele dove sistema una scultura squadrata alta circa due metri e coperta da un telo bianco; l’artista predispone una finta cerimonia di inaugurazione per un fantomatico monumento dedicato alla Vittoria, ma al momento della rimozione del telo, agli occhi della cittadinanza si rivela una struttura dall’aspetto poco comprensibile, in forte contrasto con la piazza e la basilica romanica, già vandalizzata con vernice rossa che cola ai lati, scritte contro la polizia e scoppi di petardi e fumogeni, come se fosse il monumento stesso a volersi autodistruggere.

Imm.1 Valentina Berardinone, Antimonumento alla Vittoria, sullo sfondo la basilica di San Fedele, foto Mulas
Imm.2 Valentina Berardinone, Antimonumento alla Vittoria, foto di Ugo Mulas

Secondo la storica dell’arte Martina Tanga, la forma squadrata dell’Antimonumento potrebbe essere un richiamo alla Casa del Fascio di Como, raggiungibile con poco più di cinque minuti di cammino da Piazza San Fedele, ingombrante presenza del ventennio fascista, dal dopoguerra centro di continui dibattiti sulla sua mancata demolizione; tale riferimento sembra confermato anche dalla targa “Alla Vittoria”, un’abbreviazione del motto fascista “Durare fino alla vittoria, durare oltre la vittoria, per l’avvenire e la potenza della nazione”.

Una veduta del centro storico di Bergamo con la Casa del Fascio di Giuseppe Terragni del 1936 e sullo sfondo il Duomo

Nel catalogo della mostra, Berardinone spiega come la sua azione doveva essere interpretata come una scherzosa provocazione, un modo per scuotere un pubblico che sembrava sempre più indifferente all’attualità come la brutalità della guerra in Vietnam; la vernice rossa voleva emulare una ferita aperta e sanguinante, le perdite umane che ogni guerra porta con sé e che vengono ignorate dai monumenti tradizionali.
Anche per questo motivo è stata scelta come sede della manifestazione una cittadina periferica e tranquilla, dove l’eco dei moti di protesta arrivava lontano e sommesso.
«Il video Senza cavallo ma con l’ombrello, fatto nel 1995, è un po’ una mia sigla. Sulla Piazza del Campidoglio io, senza orrore di me stessa, mi sono rappresentata al posto di Marco Aurelio con un ombrellino a protezione degli eventi. A questo lavoro sono molto affezionata: da lassù si guarda il mondo con un altro occhio, è il luogo del potere; ma se lo guardo io il mondo (Roma, la città, l’arte), sicuramente è un’altra storia.»
Con queste parole Cloti Ricciardi parla della sua opera, un breve cortometraggio della durata di circa cinque minuti, in cui elimina la statua di Marco Aurelio dal piedistallo e lo occupa col proprio corpo, senza emularne la posa solenne ma in piedi con un semplice ombrello sopra la testa.

Cloti Ricciardi, 1988, foto di Stefano Fontebasso De Martino
Cloti Ricciardi, Senza cavallo ma con l’ombrello, 1995

Artista e militante femminista, Cloti Ricciardi fin dagli anni Settanta tenta di sovvertire il maschile dominante nella società e nell’arte. Nel 1974 sulla rivista Effe (https://efferivistafemminista.it/2015/01/ma-il-genio-chi-e/) descrive lo stereotipo dell’artista-genio, rigorosamente maschio, come un’invenzione del potere e del mercato per mantenere l’arte in mano a pochi eletti; il femminismo per lei è anche un modo per democratizzare l’arte e i suoi mezzi. E, parlando di genio, è facile pensare a Michelangelo, tanto che nel 1976 Simona Weller intitola la sua inchiesta sul lavoro artistico femminile Il complesso di Michelangelo. Ricerca sul contributo dato dalla donna all’arte italiana del Novecento: Weller cerca di smontare il falso mito della superiorità artistica maschile costruito fin dal Rinascimento con Giorgio Vasari, che vede nell’artista toscano il punto più alto e inarrivabile della storia dell’arte, una storia abitata appunto solo da uomini e a cui le donne sembrano impossibilitate ad accedere. È ora più che ovvio il motivo della scelta di Piazza del Campidoglio, disegnata da Michelangelo per essere la perfetta metafora del potere politico, nonché sede ospitante del primo nucleo museale pubblico dell’età moderna occidentale, il gruppo di statue bronzee, tra le quali anche la celebre Lupa capitolina, donate nel 1471 alla città di Roma da papa Sisto IV; è uno spazio carico di simbologia, il luogo cardine della storia comunale e artistica di Roma.
Ricciardi ambisce però non solo a riprendersi la scena come artista ma a ribaltare un sistema che è intrinsecamente oppressivo ed elitario; nel 1975, ancora su Effe, scrive: «Noi femministe non vogliamo bussare alle porte del potere, noi vogliamo cambiare questo sistema. La nostra riconquistata capacità creativa si esprime ampiamente nella lotta per la nostra liberazione, ed è dalla nostra pratica femminista che potrà nascere, ed è forse già nata, una nostra cultura, un nostro modo di esprimerci che non abbia bisogno di gerarchie di ruoli, di potere, un nostro modo che sia di libertà e non di oppressione.» (https://efferivistafemminista.it/2015/01/e-to-cche-re-bbe-pre-ci-sa-me-nte-a-te/)
Vent’anni dopo, Cloti Ricciardi sembra ancora della stessa idea quando pubblica su DWF «Il nostro “sguardo laterale”, con il quale in questi anni abbiamo attraversato e decodificato il reale, è diventato oggi, nelle opere di molte artiste, consapevolezza e strumento per scardinare e introdurre elementi di modificazione, lateralità e disequilibrio nelle strutture simboliche consolidate».
Ed ecco perché sostituendosi al Marco Aurelio, lo fa «senza cavallo», il simbolo dell’aristocrazia per eccellenza, ma nelle sue vesti quotidiane.
Il monumento è il tema della riflessione di Lara Favaretto da diversi anni; l’artista trevigiana lavora sull’argomento dal 2009 con la serie di opere Momentary Monuments. Come anticipa il titolo, i paradossali monumenti di Lara Favaretto non sono destinati a durare, sono creati per essere smantellati o dispersi, come The Library (2012), biblioteca realizzata con libri salvati dal macero che l’artista ha arricchito con una fotografia del suo archivio nascosta tra le pagine e che le persone possono prendere e portare via con sé. I lavori di queste serie hanno tutte le caratteristiche che un monumento non dovrebbe avere: prendendo in prestito una definizione di Adachiara Zevi, sono «monumenti per difetto», sono nascosti o non subito riconoscibili come The Wall del 2009, quando Favaretto ha semioscurato la colossale statua di Dante Alighieri a Trento con dei sacchi di iuta riempiti di sabbia,

Lara Favaretto, Momentary Monument – The Wall, 2009

sono ripugnanti come The Swamp (Biennale di Venezia 2009) e The Dump (Kassel 2012), rispettivamente una palude in miniatura e una grande discarica. Sono opere che non trasmettono alcun messaggio edificante né servono per ricordare alcunché ma vogliono piuttosto ragionare sull’oblio, l’abbandono, il decadimento.
The Stone per esempio, presentato all’ottava edizione della Biennale di Liverpool del 2016, appare come un semplice blocco di granito posizionato in una zona abbandonata della città, con una fessura per inserire delle monete su un lato. Le persone possono donare dei soldi e, a fine esibizione, l’opera viene distrutta per recuperare il denaro all’interno che verrà speso in progetti di beneficenza; anche ciò che resta dell’opera, polvere e calcinacci, viene riutilizzato come materiale per l’edilizia. In questo modo il monumento, nel suo smembrarsi, si dona del tutto alla comunità.

Lara Favaretto, Momentary Monument – The Stone, 2016 Liverpool Biennial 2016. Foto di Joel Chester Fildes

Vorrei concludere con Ada Pinkston, artista multidisciplinare statunitense; da sempre interessata a femminismo e colonialismo e attenta alle conseguenze della gentrificazione, lo spazio pubblico cittadino è uno dei suoi campi d’azione prediletti.
Secondo un censimento condotto dall’organizzazione per la tutela dei diritti umani Southern Poverty Law Center, negli Stati Uniti nel 2019 i “monumenti confederati”, ovvero quelli dedicati all’aristocrazia latifondiaria e schiavista del Sud, erano poco meno di ottocento, si arriva invece a più di millecinquecento presenze se si considerano anche targhe commemorative e toponomastica.  
Com’è noto la comunità nera statunitense, tra cui il movimento Black Lives Matter, da anni chiede la demolizione di queste statue, difese strenuamente da gruppi sempre più numerosi di suprematisti bianchi. Alcune istituzioni cittadine come il comune di Baltimora, dove vive e lavora Ada Pinkston, ultimamente si sono impegnate per rimuovere gradualmente alcuni di questi monumenti, trasferendo le sculture in depositi e lasciando i piedistalli vuoti; le operazioni si sono svolte però durante la notte per evitare disordini.
Tra le statue rimosse c’era anche il monumento dedicato ai generali dell’esercito confederato Robert E. Lee and Stonewall Jackson del 1946; quest’ultimo, prima della rimozione, era già stato risemantizzato dall’artista uruguayano Pablo Machioli, il quale posizionò di fronte al piedistallo l’opera Madre Luz, scultura che ritrae una donna nera incinta, accompagnata dal figlio accoccolato sulla schiena, che fronteggia il monumento con il braccio sinistro alzato e il pugno chiuso.

Pablo Machioli Madre Luz 2015

In questo contesto nasce il progetto di Pinkston LandMarked (https://landmarkedproject.com/), un laboratorio collettivo per provare a immaginare monumenti inclusivi e rappresentativi dell’intera comunità; l’artista organizza workshop, conferenze, sondaggi, dibattiti, coinvolgendo anche musei, gallerie e università; tra le proposte discusse, un monumento finanziato e disegnato direttamente dalla cittadinanza, realizzato con tecniche originali che vadano oltre la tradizionale scultura in bronzo come la grafica digitale, il racconto orale, la performance, l’uso di stampanti in 3D. Ciò che emerge da questa esperienza è che si può rivoluzionare completamente l’idea del monumento, rinunciando al lavoro solitario dell’artista e al feticismo di un oggetto da porre su un piedistallo per promuovere un’opera partecipata e che possa rinnovarsi insieme alla collettività che rappresenta.

Alcune risposte fornite dalla comunità durante i workshop

Nel luglio del 2018 Pinkston si impossessa dei piedistalli vuoti di Baltimora indossando un’ampia gonna dalla struttura rigida come quelle del periodo coloniale e un velo dorato che le copre il viso, utilizzando il proprio corpo per creare un monumento vivente per le tante donne nere dimenticate dalla Storia. Sul piedistallo precedentemente occupato dai ritratti di Robert E. Lee and Stonewall Jackson, esegue una performance dedicata a Fannie Lou Hamer, attivista impegnata nella lotta per il riconoscimento del diritto di voto delle persone nere.

Ada Pinkston landmarked part 5, a tribute to Fannie Lou Hamer 2018
Fannie Lou Hamer

Nel 2021 invece, Ada Pinkston realizza in collaborazione con il Los Angeles County Museum of Art e il social network Snapchat The Open Hand is Blessed, un monumento virtuale e interattivo, visibile solo attraverso lo schermo dello smartphone, dedicato a Bridget “Biddy” Mason, ex schiava, infermiera e ostetrica. È un monumento senza corpo ma che il pubblico può interrogare, trovando informazioni sulla vita di Mason e immagini di archivio sulla vita della comunità nera della Los Angeles del XIX secolo.

Ada Pinkston, The Open Hand is Blessed, 2021

In copertina: la statua di Edward Colston recuperata dalle acque del fiume Avon dopo le proteste del 2020 a Bristol, temporaneamente esposta al M Shed Museum.

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Articolo di Cecilia Babolin

Studio storia dell’arte contemporanea ma mi interesso anche di museologia, femminismo e postcolonialismo. Dopo aver studiato a lungo l’arte sotto il regime fascista, mi sto dedicando al secondo Novecento, in particolare agli anni Sessanta e Settanta. Da poco ho cominciato a esplorare campi nuovi come l’architettura e il cinema sperimentale.

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