Femminismo/femminismi. Intervista a Monica Lanfranco

Monica Lanfranco, attivista femminista, giornalista, scrittrice, conduce corsi ed è formatrice sulla risoluzione non violenta dei conflitti e sulla differenza sessuale. Dal suo libro Uomini che odiano amano le donne. Virilità, sesso, violenza: la parola ai maschi (2013) è nato il primo laboratorio di teatro sociale per uomini, Manutenzioni-Uomini a nudo. Con VandA edizioni ha pubblicato Voi siete in gabbia, noi siamo il mondo (2021), Mio figlio è femminista (2023) e Donne che disarmano. Come e perché la non violenza riguarda il femminismo (2024), mentre con Erickson (2019) ha pubblicato Crescere uomini. Le parole dei ragazzi su sessualità, pornografia, sessismo. Ha un blog su Il Fatto Quotidiano e su Micromega. Dal 1994 dirige il trimestrale femminista Marea e nel 2008 ha fondato Altradimora, una officina di saperi femministi dove si svolgono incontri e seminari anche residenziali. I suoi siti sono www.monicalanfranco.it; www.mareaonline.it; https://altradimora.eu.

Femminismo/femminismi: è possibile l’unità nella pluralità?
Non uso mai con piacere il plurale quando si parla di visioni filosofiche e politiche. Perché non si parla di comunismi, liberalismi, socialismi, ma è solo il femminismo che viene pluralizzato? Da quando è iniziata la pluralizzazione della parola ‘femminismo’ questa mi è sembrata una forzatura che crea barriere, polarizzazioni e impoverisce il pensiero. Modificare la parola femminismo, come se da sola, priva di suffisso, o al singolare, o senza specifiche aggiuntive fosse incompleta e inadeguata mi appare un segno di depotenziamento. Posto che ovviamente si è libere di pluralizzare a piacere, domando e mi domando: come mai la visione femminista da sola appaia, per talune, obsoleta, e da qualche tempo vi si anteponga la parola trans, o si trovi necessario aggiungere intersezionale? Ho il dubbio, (e spero di sbagliare), che in noi femministe, in quanto donne, (persino le più salde e avvertite), scatti un atavico meccanismo di oblatività compulsiva, che nel caso del termine transfemminismo intenda modificare, non sono certa se in modo davvero inclusivo quanto piuttosto deviante, un percorso politico ancora lungo e bisognoso di focalizzazione. Parimenti la specifica intersezionale mi sembra che faccia rientrare dalla finestra la dominanza del patriarcato di sinistra, che tollera il femminismo solo se non bianco, assai relativista e piuttosto antioccidentale. La filosofa Luce Irigaray a fine Novecento affermò: «È il rapporto tra donne e uomini la questione che dobbiamo pensare nel prossimo secolo. Non basta guardare insieme nella stessa direzione, occorre farlo in un modo che non abolisca le differenze, male renda alleate. Se andiamo per la strada dell’abolizione della differenza sessuale, non ci sarà un futuro per l’umanità». Il pensiero femminista si è sviluppato in tutta la sua complessità e ricchezza in Italia nel Novecento, un secolo connotato per tre grandi rivoluzioni culturali e di pensiero: il femminismo, l’ecologismo e la psicoanalisi. Non è un caso che queste tre visioni si siano intrecciate per dare vita a una corrente di pensiero universale: queste visioni le penso come grandi lenti di ingrandimento della realtà. Nell’intreccio, per esempio, tra la pratica politica di cura della terra (intesa come corpus, equiparato al corpo delle donne) e il femminismo, la violenza sul corpo delle donne diventa anche la violenza nei confronti del pianeta: è un allarme importante e il pensiero femminista lì trova una pratica applicazione di conflitto con il mercato e la visione neoliberista della vita in generale. Dunque, nel declinare la parola ‘femminismo’ non uso mai il plurale: sono nipote e allieva di Lidia Menapace, che usava poco volentieri la parola plurale, preferendo invece ‘molteplice’; penso sia interessante lavorare a partire dal pensiero femminista nella molteplicità delle visioni, che sono visioni incarnate, non posizionamenti ideologici. Nella psicoanalisi junghiana, in contrapposizione a quella freudiana, non esistono plurali, ma singolarità che fanno l’universale. Per tutti questi motivi non mi trovo a mio agio con suffissi e plurali. Penso sia necessario perseguire il conflitto generativo dentro al pensiero femminista, non solo tra le generazioni, mettendo insieme visioni, bisogni e storia, senza mai dimenticare che non c’è futuro senza l’analisi e la conoscenza del passato. Per questo nel mio lavoro e nella mia pratica politica sono sempre attenta a raccontare a chi non c’era ciò che c’era prima di noi. Siamo ciò che siamo perché qualcuna prima di noi ha raccontato il mondo e come ha tentato di cambiarlo: se lo si dimentica, si fa un grosso danno al futuro.

Copertina della rivista femminista
Marea di cui Monica Lanfranco è stata
fondatrice ed è direttora

Negli anni Novanta è parso che l’essere femministe fosse diventato un disvalore. Perché?
Non ho fatto l’insegnante di mestiere in modo continuativo, ma conduco formazioni da decenni sia alle superiori così come all’Università e ho visto sgretolarsi la funzione educativa. La mutazione antropologica è iniziata dalla fine degli anni Novanta. Internet, che resta un enorme strumento di conoscenza e di sapere, si è rivelato un pericolo, perché quando non è usato come strumento fa diventare l’umanità un mezzo. Tutto si consuma in brevissimo tempo e ogni pensiero, quando è ritenuto troppo ‘pesante’ e complesso, è accantonato, perché laddove il mercato diventa regolatore delle azioni e delle relazioni umane non ci può essere profondità. La catastrofe, in Italia, è iniziata ancora prima, negli anni Ottanta, con quel fenomeno che abbiamo chiamato ‘berlusconismo’: una catastrofe culturale, politica e morale. Il berlusconismo è stato a mio parere il frutto della sottovalutazione di due fattori da parte della sinistra: la pervasività della televisione prima e l’uso pervasivo e non mediato poi dei cellulari e di quella comunicazione veloce e di superficie della quale parlavo prima. Oggi il pensiero è ‘di moda’ o ‘non è di moda’, e quindi non è più pensiero: il pensiero, il confronto, l’approfondimento, il conflitto, lo studio sono stati cancellati e superati dalla legge neoliberista della nuova ‘religione della libera scelta’, l’affermazione secondo la quale vendere e comprare sono espressioni di libertà. Nel 2001 ero l’unica femminista tra i portavoce del Genoa Social Forum: fummo profeti che quando a giugno 2001decidemmo di tenere l’appuntamento Punto G -Genova, genere, globalizzazione e proponemmo una riflessione sulla differenza sessuale e la globalizzazione; in un gruppo parlammo di Globalizzazione e sentimenti, consapevoli che la globalizzazione neo liberista avrebbe cambiato non solo i rapporti di produzione, il mercato e l’economia (che è diventata finanza),ma che sarebbe entrata nelle carni: la merce diventava prioritaria rispetto ai corpi e i corpi per poter esistere sul mercato devono essere merce. Quando dicevamo :«Questo mondo non è in vendita», sapevamo che i corpi sarebbero stati il primo bersaglio nella globalizzazione, sia perché le frontiere fermano i corpi e non le merci, sia perché il tema della prostituzione, agevolata dalla globalizzazione neoliberista, all’interno di ogni tipo di società sarebbe diventato uno dei più importanti e volevamo opporci a questa visione mercificante, che già era stata evidenziata dalle femministe degli anni Settanta. Ricordo che il mensile femminista Effe, che uscì dal 1973 al 1982, aveva una pagina bianca in ogni numero: una scelta simbolicamente e politicamente importante, perché su questa pagina c’era scritto: “Questa pagina è bianca perché aspetta una pubblicità che non offenda e mercifichi il corpo delle donne”. Oggi invece — e torno al perché il femminismo non è considerato un pensiero fresco e vendibile — per apparire fresche e vendibili le femministe abbracciano il neoliberismo. Si dice: «Se io scelgo di vendermi, è una mia scelta di libertà»; la stessa cosa si dice per il velo, l’hijab, e ci sono donne che si dicono femministe pur adottando una copertura che nel Corano non è prescritta ed è chiaramente una pratica politica che fa il gioco dei fondamentalisti, così come chi è critica nei confronti, per esempio, della pratica dell’utero in affitto viene tacciata di bigottismo e di non essere moderna. Penso che libertà e responsabilità non possano essere separate, perché ci sono sempre conseguenze nel mettere al mondo delle visioni, sempre. Sono molto grata alle donne che negli anni Settanta cominciarono a ragionare sul senso del limite: dopo il terribile incidente di Chernobyl, per esempio, il movimento femminista si interrogò sugli abusi della ricerca e della scienza. I concetti di limite e responsabilità sono per me correlati al pensiero delle donne. Voglio citare un uomo e sacerdote, Alex Zanotelli, che in occasione del G8 del 2001disse: “Si fa politica anche con il carrello della spesa”: non è vero che le azioni individuali non cambiano nulla, non è vero che quello che facciamo non ha importanza; certo, più siamo e più le conseguenze cambiano il mondo, ma se non partiamo da noi anche nel quotidiano…


Copertina della rivista femminista
Marea

Si afferma ora il cosiddetto ‘femminismo neoliberale’, che si traduce in un trionfo dell’individualismo, nell’affermazione di diritti e opportunità per sé sola, non per tutte…Che ne pensi?
Il fenomeno dell’auto affermazione individuale delle donne, talvolta contro le altre donne, non è nuovo, e quello che mi spaventa maggiormente è l’imitazione delle giovani donne di modelli femminili di successo senza etica che pullulano nel web. Ma quello che mi preoccupa ancora di più è che dentro il mondo femminista si sta affermando un pensiero che, volendo essere di sinistra, ha nel suo Dna elementi enormi di neoliberismo: penso alla prostituzione, all’utero in affitto, al relativismo culturale in tema di contrasto al fondamentalismo religioso, perché constato che non riusciamo a ragionare in maniera lucida e non ideologica. Pezzi del movimento Non Una Di Meno chiamano il sistema prostituente ‘sex work’, lo affermano come scelta di libertà, criticano come regressivo e conservatore chi, come Rachel Moran, definisce la prostituzione ‘stupro a pagamento’. (Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione, traduzione italiana del 2017). Ho due figli maschi: poco lontano dal confine italiano, per esempio in Svizzera o in Germania, esistono bordelli che pubblicizzano le formule ‘3X2’ (e non stiamo parlando di panini)e lo slogan sulle locandine pubblicitarie è ‘All you can fuck’. Come riuscirei a spiegare a dei ragazzi che vedono queste locandine che le donne non sono oggetti, che la sessualità è scambio e gratuità, è relazione e non potere, perché i corpi non possono essere merce da vendere? Eccolo qui il femminismo neo liberale: quello che segue la nuova religione della ‘scelta’. Se dico che l’ho sceltala schiavitù va bene. Scelgo di mettere l’hijab, di vendere un pezzo del mio corpo per il piacere dell’altro dietro regolare fattura, porto nel mio utero un feto fino a quando partorisco e poi lo cedo a chi ha fornito ovuli e sperma… Va tutto bene. No, io penso che non vada tutto bene. Un femminismo come questo si sta immolando in modo volontario, incredibilmente veloce, al pensiero neoliberista, in contraddizione, come dicevamo nel 2001, con la convinzione che “Questo mondo non è in vendita”.

Copertina della rivista femminista
Marea

C’è un altro libro che qui voglio citare, quello di Elizabeth Bernste in Temporaneamente tua, Intimità, autenticità e commercio del sesso (traduzione italiana del 2009), che presenta il racconto di una giovane donna che ha scelto di vendersi, in anticipo di quindici anni sulle giovanissime di OnlyFans. Queste oggi sono giovani che studiano, spesso non hanno problemi economici, vendono prestazioni sessuali on linee poi, alcune, off line; sappiamo dalla cronaca di giovanissime, minorenni, ‘scoperte’ quando le madri si sono accorte che qualcosa non andava, ragazzine dei primi anni delle scuole superiori entrate in un giro della prostituzione minorile. E poi la questione della ‘scelta’ di portare la copertura islamica, come se questa scelta individuale non avesse conseguenze. A sinistra l’Islam è percepito come la religione delle vittime e perciò incriticabile: io pretendo di discutere con le influencer che parlano di modest fashion e di come mettere l’hijab qui in Italia e in Europa, normalizzando una forma di oppressione patriarcale, mentre le giovani in Iran e Afganistan vengono uccise se non lo portano. Anche qui se parliamo delle testimoniarsi tratta di donne colte, che tuttavia prendono il peggio della propria religione. Io non sono religiosa, penso che ogni essere umano abbia la propria spiritualità, ma aderendo alla visione francese penso che le religioni debbano stare fuori dallo spazio pubblico, perché sono pericolose per le donne, quando applicate in maniera politica. Allora, fuori dalle mie mutande, lontano dal mio corpo, così come dicono in Anatomia dell’oppressione. La critica di due Femen alle religioni Inna Shevchenko e Pauline Hillier (un libro che ho portato con grande fatica in traduzione italiana nel 2018): un testo potentissimo, scritto da due giovani donne, che dimostra come le religioni si rafforzino con oppressione del corpo delle donne, coprendolo, obbligandole alla modestia, al silenzio, all’invisibilità. In Italia è sempre più difficile dire queste cose, in particolare rispetto all’Islam, la religione tra le tre grandissime rivelate che ancora non ha sciolto il dilemma tra secolarità e la fede. Si corre il rischio di essere accusate di islamofobia, e questo è pericoloso, perché rende l’Islam un dogma, chiude la bocca a una critica legittima, perché l’Islam è una religione, un pensiero, dunque si può criticare, facendo una distinzione tra persone e pensiero. Nel momento in cui ci sono donne che affermano: «Porto il velo e sono femminista», io vorrei discuterne. Credo a una logica di scambio, condivido con Lidia Mena pace il senso della contemporaneità: non parlo al plurale, non uso i suffissi, trovo pericoloso continuare ad aggiungere lettere all’acronimo Lgbt: perché questo spezzala genealogia, crea comode gabbie di consumo, di pensiero sempre più lieve e breve, e non dà la visione della continuità. Byung-Chul Han ha scritto di questo nei suoi libri, Nello sciame. Visioni del digitale (traduzione italiana del2023) e Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale (traduzione italiana del 2022). Se non c’è la materialità del reale, se tutto è virtuale, non ci sono più i corpi, e se non ci sono più i corpi noi smettiamo di esistere anche politicamente.

Copertine dei libri più recenti di Monica Lanfranco, da sinistra:
Voi siete in gabbia, noi siamo il mondo. Punto G. Il femminismo al G8 di Genova
(2001-2021), VandA Edizioni, Milano 2021;
Mio figlio è femminista. Crescere maschi disertori del patriarcato, VandA Edizioni, Milano 2023;
Donne che disarmano. Come e perché la nonviolenza riguarda il femminismo, VandA
Edizioni, Milano 2024 www.monicalanfranco.it; www.mareaonline.it

A partire dagli anni Dieci del Duemila si assiste a un ritorno del femminismo tra le giovani donne (vedi NonUnaDiMeno). Quali le ragioni?
Ho un grande rimpianto per il movimento Se Non Ora, quando?, un movimento interessante, nato da una forte reazione di indignazione verso il berlusconismo; Snoq aveva portato alla ribalta un privato politico che sembrava ormai obsoleto. Ricordo che ai cronisti che chiedevano ai genitori di un’adolescente: «È sua figlia la fidanzata segreta del Presidente?» questi rispondevano: «Magari!» e quel ‘magari!’ era l’attualizzazione della tragedia greca, se vogliamo anche la fine del senso dell’onore, che tramontava con l’auspicio del mercimonio del corpo della propria figlia in cambio di denaro e potere. Non ho grande simpatia per Non Una Di Meno, che mi pare scivolato in un massimalismo aderente ai tempi, veloci e non profondi, che giocano sui sentimenti aggressivi, che sedimentano poco, evocando sempre e solo la rabbia. L’enfasi sulla rabbia, l’incitamento alla distruzione, penso non portino a nulla se non a una gratificazione immediata che assomiglia molto alla violenza e alla sessualità stupratoria: tutto subito, senza riflettere su ciò che si sta facendo. Le giovani donne oggi hanno grandi strumenti alle spalle. Dico loro di ascoltare prima di parlare, di documentarsi: a differenza delle nostre madri le giovani hanno a disposizione un enorme sapere prodotto dal pensiero femminista, italiano, europeo, internazionale, che va sedimentato. La scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie ha intitolato uno dei suoi più noti pamphlet Dovremmo essere tutti femministi. Aggiungo: fatevi un giretto nelle scuole italiane, dove svolgo formazione e incontri sulla violenza maschile contro le donne e il sessismo da oltrevent’anni. È un buon test per capire come ci sia un disperato bisogno di ragionare di femminismo, differenza sessuale e diritti delle donne (che sono universali e dirlo suscita fastidio e atteggiamenti negazionisti ): negli ultimi cinque anni mi è capitato, di continuo, di ascoltare una quantità inquietante di pregiudizi e stereotipi sessisti inculcati nei ragazzi e ragazze sotto i diciannove anni come nemmeno negli anni Sessanta. Abbiamo fatto fatica come movimento delle donne e ancora molto si fatica a far passare la parola femminista, ma abbiamo anche un lascito straordinario. Sono felice di vedere giovani che si dicono femministe, ma per esserlo servono profondità, pazienza, curiosità e volontà di relazionarsi con chi ne sa di più, non perché è di più, ma perché ha più vita e sapere da raccontare. Torno a parlare dell’importanza di pensarsi contemporanee, tutte.

Quali sono state le ragioni profonde e quale l’occasione spinta che ti hanno portato al femminismo?
Mia madre è morta da poco, nell’autunno del 2023: è stata una presenza ingombrante e faticosa nella mia vita, e devo a lei — donna nata poverissima, che quando aveva qualche soldo comprava libri — la conoscenza del femminismo e quindi il valore politico della genealogia. A quindici anni lessi, senza capire molto ma lo avevo in casa grazie a mamma, Il secondo sesso di Simone de Beauvoir. Mia madre, che ha conseguito solo il diploma di sarta, grazie all’incontro con il critico d’arte Germano Celant quando aveva circa quarantacinque anni è diventata una delle più importanti fotografe italiane nel mondo dell’arte contemporanea. A lei, Nanda Lanfranco, ho dedicato una voce dell’Enciclopedia delle Donne. Mia grande maestra politica è stata Lidia Menapace, grande figura multiforme che non è stata madre, eppure con le caratteristiche di grande levatrice e maieuta. Mia madre prima, Lidia Menapace dopo sono state due maestre; Lidia politicamente è stata un esempio straordinario; è raro trovare maestre così complete: cattolica, partigiana, fondatrice del Manifesto, femminista che ha ragionato sull’economia politica della differenza sessuale. Nel 2006 ho fatto su di lei un documentario intitolato Ci dichiariamo nipoti politici.

Lidia Menapace e Monica Lanfranco durante le riprese del documentario
Ci dichiariamo nipoti politici, di Monica Lanfranco e Pietro Orsatti, per la regia
di Pietro Orsatti (Italia 2006)

Quali ritieni siano le esperienze più significative del tuo percorso femminista?
Il pensiero femminista per me è anche pratica, carne e idee, emozioni e mattoni da mettere uno sopra l’altro, giardini da costruire, cucina vegetariana e stanze da preparare per i convegni. Ci sono tre esperienze che ho potuto costruire, mi ritengo molto fortunata: la prima è la rivista trimestrale femminista Marea, che nel 2024 ha compiuto trent’anni, nei quali molte femministe autorevoli hanno collaborato e molte giovani donne hanno avuto il loro primo incontro con la scrittura e un’opportunità di incrociare il pensiero femminista. Poi c’è il primo laboratorio italiano per uomini contro la violenza maschile pensato da una femminista: Manutenzioni-Uomini a nudo, un’esperienza di teatro sociale generata da una casualità. Dal mio blog su Il Fatto Quotidiano ho rivolto nel 2013 sei domande agli uomini sulla loro sessualità e le loro risposte sono state pubblicate nel libro Uomini che odiano amano le donne. Sessualità, virilità, pornografia, la parola ai maschi. In genere, quando parlano della loro sessualità, i maschi lo fanno in termini da caserma, o palestra, o bar; qui, invece, gli uomini che hanno accettato l’interlocuzione con me hanno utilizzato un linguaggio diverso. Grazie al regista teatrale Ivano Malcotti in tre settimane il testo è diventato una pièce teatrale. Durante questa ora di lettura gli uomini che accettano di fare il percorso con me per arrivare alla sera del debutto leggono parole di altri uomini, assumendosi dunque la responsabilità del comune sentire maschile, un dato politico importante. L’esperienza dura ormai da undici anni senza fermarsi. Questo per me è un grande regalo, una grande esperienza. La terza esperienza per cui mi ritengo molto fortunata, nata nel 2008, è Altradimora (a Caranzano, in provincia di Alessandria). Si tratta di un luogo dove si fa formazione femminista, si realizzano incontri, seminari, progetti. È pensata come una formazione anche residenziale, per protestare insieme, dormire, mangiare, trascorrere tempo al di là del momento di formazione e dibattito, costruire la socialità, principalmente tra donne, ma aperta anche agli uomini. Altradimora è il mio modo di realizzare che il privato è politico: è un lusso, la possibilità di fare praticamente il femminismo, perché il femminismo è una pratica generativa. Queste esperienze sono lo specchio di quella che sono, la possibilità di dare corpo alle parole, di dare spazio al pensiero, di essere ospitale senza essere oblativa.

Altradimora, Caranzano, Cassine, AL (https://altradimora.eu)

Femminismo e fantascienza: quali elementi uniscono, a tuo parere, questi due mondi?
Ho un ricordo di me ventenne alla libreria Feltrinelli di Genova (quella più vicina all’Università, che ora non c’è più), davanti a uno scaffale con la scritta ‘Fantascienza’. È lì che io, nel 1979-1980, trovai i primi libri editi da Libra, oggi scomparsa: conobbi così la fantascienza femminista, che all’epoca non sapevo essere tale. Sono persuasa che sono i libri a chiamarti, e io lì ho avuto la chiamata dalla fantascienza scritta da donne, delle quali ignoravo l’esistenza, perché fino ad allora i libri che conoscevo erano solo di autori. Le prime due autrici che ho divorato nelle notti in cui tornavo dal lavoro in Rai, allora facevo radio, sono state Vonda McIntyre e Tanith Lee, le mie apri pista; non ho mai più smesso di leggere, di cercare fantascienza scritta da donne. E chissà che un giorno, dopo averne tanto letto e recensita, non ne scriva anche io.

Qual è la grande opportunità che offre il genere fantascientifico, come autrice e come lettrice?
Quella di parlare di un altrove nello spazio e nel tempo mentendo, ambientando in altro spazio e altro tempo qualcosa che ti riguarda in questo momento. La fantascienza diventa rivoluzionaria in una situazione in cui non puoi narrare la tua realtà contemporanea, perché questo tipo di scrittura ti offre la possibilità di farlo sotto mentite spoglie narrative. Questa forza è la principale attrazione che la fantascienza ha esercitato ed esercita su di me. Ho appena ultimato la lettura de Il mare cambia di Nancy Kress (traduzione italiana del 2024), un’autrice che ho adorato soprattutto per un testo spaventosamente profetico, Incubo genetico (traduzione italiana del 1999), che anticipava temi dell’oggi e in particolare quello dell’utero in affitto e della scomparsa del corpo delle donne. La fantascienza ha la grande forza di camuffare e dunque anticipare, utilizzando gli assi cartesiani di spazio e tempo proiettati nel futuro, le verità che ci riguardano, che sono il qui e ora della nostra esistenza.

Tre fantascientiste care a Monica Lanfranco: Vonda McIntyre, Tanith Lee, Nancy Kress
(fotografie di autori non noti, presumibilmente degli anni Novanta)

Quale istanza vorresti fosse prioritaria nel femminismo?
Una sola? La laicità dello stato, l’assenza dei simboli religiosi nello spazio pubblico, la difesa dei diritti universali, alla cui base ci sono quelli delle donne.

Come vedi il futuro per i diritti delle donne?
La mia risposta è legata alla priorità della tenuta della laicità nella società. La grande opportunità dell’incontro con le donne migranti è un processo da costruire insieme, di laicizzazione, di obiezione alle regole patriarcali, che in molte soffrono ancora, ma abbiamo la grande opportunità di ribadire che i diritti delle donne sono la base dei diritti umani universali. Io ho due figli maschi: dobbiamo agevolare le giovani generazioni nel comprendere il valore fondamentale di una libertà individuale, che senza responsabilità diventa pericolosa per la collettività, slegata dalle ideologie patriarcali e quindi dall’ideologia politica della religione, ma anche il valore fondamentale del senso di empatia che solo la pratica del limite per gli uomini nelle relazioni con le donne può alimentare per rendere il mondo un luogo, se non felice, almeno più vivibile. Nella mia camera da letto campeggia un manifesto con una frase tratta da A Vindication of the Rights of Woman di Mary Wollstonecraft, parole che arrivano dal 1792: «È tempo di compiere una rivoluzione nei costumi femminili, tempo di restituire alle donne la loro dignità perduta e di renderle partecipi della specie umana in modo che, riformando sé stesse, riformino il mondo». Resto convinta che questo sia un monito importante da considerare per avanzare la critica femminista al neoliberismo e la visione eco femminista per fermarne l’avanzata. Nel 2001 si diceva nelle piazze che “Questo mondo non è in vendita”, di certo si intendevano soprattutto i corpi: a vent’anni di distanza non è così più così certo, almeno per alcune. Fondamentale per me è trasmettere l’importanza dei corpi sessuati come base per costruire diritti (che non sono desideri): i corpi con i loro limiti, senza farsi divorare dall’ipotesi tecnologica dell’illimitatezza, ragionando sulla dimensione umana mettendo al centro corpo, vita, morte, empatia; il valore politico dell’empatia va messo al centro del pensiero femminista per trasformare il mors tua, vita mea invita tua, vitamea.

In copertina: Monica Lanfranco in una fotografia scattata a Genova nell’ottobre 2023, in occasione della presentazione del suo libro Mio figlio è femminista. Crescere uomini disertori del patriarcato (archivio MonicaLanfranco).

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Articolo di Laura Coci

Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.

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