È un tuffo nel passato, questa raccolta di storie e racconti di Gina Calabrese, capace di riportare la lettrice e il lettore in un tempo perduto, dove i/le protagoniste attendono con pazienza il fluire delle stagioni e i raccolti scandiscono la vita delle famiglie contadine.
Un carosello di esistenze segnate dalla fragilità, dalla mancanza, ma anche dalla speranza, dalla fantasia, dagli affetti che salvano e legano i cuori feriti. Un mondo arcaico e caldo, saldo nei valori e nei ruoli sociali, dove sono per lo più le fate e gli artisti ad avere il potere di volgere al meglio le cose, grazie alla forza immensa e travolgente della cura dell’altra/o. Ecco, questo direi è il centro attorno al quale tutte le storie ruotano: l’aver cura, il prendersi cura, quell’I care che tanto don Milani predicava e viveva.
Il tutto immerso in dipinti semplici eppure potenti di una natura tratteggiata a pennellate armoniose e delicate. Forse da qui il titolo molto interessante della raccolta, Il sentiero del Girasole, metafora della vita semplice, finita nel tempo e nello spazio, ma anche piena di bellezza, illuminata dal sole dell’amore, dal desiderio di condivisione, di luce. Il girasole siamo tutte e tutti noi, sempre alla ricerca di quel calore umano che costituisce il vero senso del nostro stare al mondo. Ed è questo sentimento che, lentamente, come un piccolo chicco di grano che germoglia, permea il cuore di chi scorre i racconti. La fragilità di ciascuna/o trova, qui, la propria casa, il proprio ristoro.
Vi è, nelle storie di Gina Calabrese, la capacità di tenere insieme la tradizione popolare e contadina, con gli archetipi delle fiabe classiche. Non manca la fata travestita da vecchia mendicante, il Signore del Tempo, né il cattivo che ostacola i protagonisti e le protagoniste; non manca l’incipit classico del “c’era una volta”, né il dramma mille volte narrato dei coniugi che desiderano tanto un figlio o una figlia, senza riuscire ad averne. Ma il tutto è immerso nelle relazioni e nei legami dell’oggi, dove troviamo Davide, un alunno con disabilità, e la sua maestra di sostegno; Andrea e Marco, una coppia di gemelli legati per tutta la vita; la famiglia con figli e figlie adottivi; il pittore che fa vivere i suoi quadri e dà loro voce, ecc.
Mi piace riportare, a questo riguardo, il piccolo esergo con cui l’autrice introduce la raccolta dei suoi racconti e che, da solo, svela la filosofia dell’intero testo:
«Siamo tutti eroi del nostro racconto e,
come i protagonisti di una fiaba,
tutti dobbiamo superare ostacoli e prove.
Spesso abbiamo chi amorevolmente ci aiuta
ma quasi sempre “l’aiutante” siamo noi stessi.
L’elemento magico è nascosto solo dentro di noi.
Basta cercarlo e la nostra vita diventerà
un racconto unico, irripetibile, fantastico».
Ad arricchire il testo, tra una storia e l’altra e all’interno dei singoli racconti, alcuni dipinti a olio aiutano chi legge a dare una forma ad ambienti e situazioni, rendendo ancora più fluida e piacevole la lettura.
Un libro ricco e pieno di memoria, dunque, ancorato al passato ma anche capace di descrivere il presente e proiettarci nel futuro, con un bel messaggio etico ed ecologico, adatto a tutte le età.
Abbiamo chiesto a Gina Calabrese di raccontarci alcuni momenti della sua esperienza e questa è la sua risposta: «Ho conseguito l’abilitazione all’insegnamento nel 1967 a Salerno e già in quello stesso anno scolastico faccio la mia prima esperienza lavorativa in una scuola serale. I miei alunni (erano tutti maschi) sono più grandi di me, qualcuno è anche sposato con figli e figlie e tutti già impegnati nel mondo del lavoro; tutti con problemi familiari e personali che hanno determinato il loro precedente abbandono scolastico. Sono quindi tutti semianalfabeti. Tutti maschi, perché, credo io, avevano superato i vent’anni e non era previsto che a quell’età maschi e femmine potessero stare in un unico gruppo: stiamo parlando della fine degli anni ‘60 e soprattutto le donne, a quell’età, avevano altri compiti, avevano altro da fare, o erano già mamme di famiglia oppure avevano altri impegni, diciamo, di cucito o altro… Già avevano praticamente abbandonato la scuola e per sempre!
La grande empatia che si stabilisce con loro, permette la chiusura tranquilla dell’esperienza scolastica a fine aprile 1968 e il raggiungimento di buoni risultati. Purtroppo, la scuola serale chiude e l’esperienza non si ripete l’anno successivo. Rimango estremamente sconvolta dalla fine tragica che faranno alcuni dei miei allievi di quell’anno. Nascono profonde riflessioni sul ruolo della scuola, sul rapporto educativo e sulla potente funzione dell’insegnante come veicolo di valori e “aiutante” della vita. Ho sempre pensato che se la scuola fosse continuata, qualche disastro si sarebbe potuto evitare.
La mia esperienza riprende, da vincitrice di concorso, e la prima sede di ruolo è in Cilento. L’anno che segna maggiormente il mio percorso di insegnante è stato proprio quello: la scuola è in un paesino di poche anime, Perdifumo, in una specie di collegio che raccoglieva bambini poveri, abbandonati e orfani, anche in questo caso solo maschietti, e accoglieva veramente bambini derelitti, proprio nel vero senso della parola: molti di essi avevano il cognome della mamma e alcuni erano orfani. Il paesaggio che mi si presenta il primo giorno di scuola è quasi surreale: su un’altura, distante dall’abitato, una chiesetta con annesso collegio, il cimitero e il sole.
La scolaresca: un gruppetto di bambini tra i sei e i quattordici anni, con vestiti o troppo stretti o troppo larghi, ribelli, taciturni, chiusi, soli, rendono il mio approccio alla scuola difficile, in una realtà di povertà e di emarginazione. Tuttavia quegli occhi tristi e distanti mai dimenticati, quelle scarpe troppo grandi e slacciate e quei lacrimoni improvvisi mi scatenarono nel cuore una profonda solidarietà, una sincera voglia di comprendere, l’esigenza di amarli, di prendermi cura delle loro ferite, di aiutarli a crescere.
L’anno successivo fui destinata ad altra sede, ma li ricordo ancora a uno a uno e spesso mi chiedo come sia proseguito il loro cammino.
Fin da allora mi resi conto che l’unica categoria per chi insegna fosse la via maestra dell’amore per chi si ha di fronte e l’entusiasmo e la gioia di trasmettere conoscenze e valori.
Negli ultimi anni della mia carriera scolastica, con grande rammarico, ho ridotto il tempo dedicato all’insegnamento svolgendo funzioni direttive come vice dirigente vicaria in un grande Istituto comprensivo, dedicandomi soprattutto alla cura di progetti europei per fornire le scuole di maggiori e migliori strumenti e finanziare corsi di aggiornamento di insegnanti e genitori, per un approccio efficace e piacevole nel rapporto docente/discente.
La data della pensione non ha coinciso con l’abbandono della gioventù, specie di quella in difficoltà. Per oltre dieci anni ho trasformato la mia casa nella “casa dei bambini”, come diceva Montessori, percependo che allieve/i erano permeati e attratti dal mio entusiasmo nel trasmettere loro le mie conoscenze e nel ricevere confidenze e richieste di consigli. Sempre sono stata ripagata costantemente con amore e gratitudine.
Quando per motivi di salute, ho dovuto gradualmente chiudere l’accoglienza, ho voluto e vorrei continuare ancora a essere la loro “aiutante”, scrivendo fiabe, in questa fiaba meravigliosa che è la nostra vita.
Complice di questa mia esperienza di scrittura: un vecchio e sincero amico, il pittore Umberto Ligrone, che, con grande entusiasmo ha seguito le fasi della scrittura dei racconti e di volta in volta ha tradotto le fiabe in immagini, con autentici dipinti a olio su tavole».

Gina Calabrese
Il sentiero del girasole
Edizioni Mea, Napoli, 2024,
pp. 64
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Articolo di Chiara Baldini

Classe 1978. Laureata in filosofia, specializzata in psicopedagogia, insegnante di sostegno. Consulente filosofica, da venti anni mi occupo di educazione.
