Se ti guardi allo specchio ti appare il diavolo

Avevo quindici anni quando mi presentai a una selezione per commesse in una pelletteria del centro di Firenze. Mia madre mi aveva cresciuta in modo contraddittorio. Avevo finito gli studi con la terza media e lei mi ripeteva che dovevo trovarmi un lavoro per essere libera, indipendente. Lei, invece, regalava molti soldi all’amante di turno che la picchiava di brutto, piangeva quando la lasciava e ne trovava uno peggiore del precedente. Come madre era distratta, aggressiva, un disastro. Crescevo in fretta. Quando uno degli stronzi che si portava a casa cercò di strapparmi i vestiti, avevo dodici anni e quasi lo uccisi con un pesante portacenere in cristallo, e mai come in quel momento ringraziai la mia buona stella per tutte le sigarette fumate da mia madre. Lei pianse per lui dandomi della bugiarda. In ogni situazione c’è del buono e quella volta il positivo fu che intervenne l’assistente sociale minacciando mia madre che se non filava dritto le avrebbero tolto le figlie, tre, ognuna di un padre diverso. A modo suo ci amava, perché da quel momento nessun uomo entrò più in casa nostra. Certo, lei non c’era mai, tutta presa dal lavoro e dai suoi innumerevoli amanti, ma a noi bambine non sembrava così brutto poterci gestire la vita, in poche parole fare ciò che volevamo senza chiedere il permesso. Ognuna di noi cresceva come meglio riusciva. L’adolescenza non fu una passeggiata per nessuna. Caterina già quattordicenne si faceva droghe pesanti, Sara era scorbutica e introversa ma geniale al liceo classico. Io… Mah, ero irrequieta, già a tredici anni facevo sesso e li mollavo tutti. Non amavo nessuno e seminavo sofferenza in chi mi voleva bene. In qualcosa mia madre mi era stata d’aiuto: sceglievo tutti ragazzi tranquilli, con madri meravigliose che mi adoravano. Trascorrevo le giornate a casa di Lorenzo, con nonna Maura e mamma Luana, vedova a soli trentotto anni, con nove figli di cui occuparsi. Amavo quella famiglia. La adottai e tutti loro mi adottarono. Portavo anche le mie sorelle, erano piccole per lasciarle sole. Durò sette anni. Fu in quel periodo che conobbi Dalia, figlia del titolare della pelletteria “Impero Cinese”. Dalia era nata a Firenze da genitori cinesi. Suo padre, Mister Wang, scelse me come commessa. «Sollidente, calina, moooolto calina…» sentenziò osservandomi dal basso, visto che ero almeno venti centimetri più alta di lui. Lei, la ragazzina, era minuta, con lunghi capelli setosi neri. Una bambolina triste di porcellana. Erano gli anni Settanta, le minigonne, la libertà sessuale, il femminismo, il trucco. Volevamo essere belle e libere. Non Dalia. Lei non si prendeva cura di sé. «Se provo a truccarmi un po’ — mi disse un giorno — mio padre mi dice se ti guardi allo specchio ti appare il diavolo». Proprio pochi mesi prima, a soli sedici anni, era stata data in moglie a Song, un puzzolente individuo di ventotto anni fatto arrivare dalla Cina per l’occasione, dopo averli fatti sposare a HongKong per procura. Eccolo, il Diavolo! Dalia parlava poco, rimaneva sbalordita davanti alle mie domande, «Perché hai accettato di sposarlo?», «Come puoi fare sesso con lui?», «Perché non lo sbatti fuori di casa?». Abbassava il viso, taceva. Comprendevo la sua umiliazione, i suoi silenzi. È difficile raccontare il Dolore. Un giorno suo padre, non tollerando oltre le mie domande, mi chiarì tutto. «Noi cinesi fale così. Cinese sposa cinese, taliano sposa taliano. Giusto così. Dalia donna no decide, malito decide». «Questo malito fale schifo», urlavo. «Tu zitta e lavola» rispondeva Mister Wang con il suo sorrisetto serafico. Spesso Dalia arrivava zoppicante, con lividi sulla faccia, gli occhi rossi di chi ha pianto troppo. Conoscevo fin troppo bene questi particolari. «Scappa via se non puoi cacciarlo — le dicevo — denuncialo, qui siamo in Italia, non in Cina». Niente, non faceva niente. Sembrava rassegnata alla sua infelicità. Finché un giorno le feci una proposta: «Vieni a casa mia. Ho parlato con mia madre, ha detto che puoi. Ti aiutiamo noi. Tornerai quando il porco se ne sarà andato. Non serve che prendi la tua roba. Siamo quattro donne, da me trovi tutto». La sera Dalia disse a suo padre che si fermava a fare spesa, ci trovammo in una strada vicino, salì sul mio “Ciao” e filammo verso la sua salvezza. Andò avanti tre mesi. La nostra organizzazione era perfetta: mia madre continuava a esser poco presente, io andavo alla pelletteria, Dalia accompagnava le piccole a scuola, preparava il pranzo, sistemava casa. A me sembrava magia tornare e trovare tutto perfetto, la cena pronta, i letti rifatti. Invitavamo amici coetanei e Dalia conobbe Marco. Scoprì l’Amore, quello di baci e carezze che fanno bene all’anima, perfetto per la nostra età. Ogni mattina entravo in negozio come se niente fosse e Mister Wang mi chiedeva «Dove Dalia? Tu sapele…». «Dalia tornerà quando malito se ne andrà al diavolo!», rispondevo tranquilla. Finché un giorno… Nel retro del negozio c’era il laboratorio dove, ogni mattina, andavo a prendere le borse nuove per metterle in mostra per la vendita. Lì lavorava Song. Mi aveva sempre ignorata, si limitava a borbottare qualcosa nella sua lingua. Quel giorno non andò così. Mi venne incontro, gli occhi due fessure crudeli, un mostriciattolo fetido. «Dove Dalia?–sibilò–colpa tua, tu pagale». «Vai all’inferno» gli urlai continuando a prendere borse a bracciate. Mi afferrò un braccio, tutte le borse caddero. «Non toccarmi — urlai — non provarci». Per quanto piccolo e magro, aveva molta più forza di me, tanto da riuscire a piegarmi il braccio e sbattermi sul tavolo da lavoro con un ceffone tremendo. Lo avevo addosso e per un momento compresi cosa doveva provare Dalia quando la violentava. Il suo odore era pestilenziale, mi parlava in cinese sputacchiandomi sul viso la saliva. Con una mano mi stringeva il collo mentre l’altra frugava nelle mie slip. Mi sentivo soffocare e per un istante pensai che fosse finita. Cercavo qualcosa sul banco, qualcosa da tirargli addosso. Lo trovai. Prima ancora di capire cosa mi trovai in mano, il trincetto gli tagliò la gola. Il suo sangue scorreva addosso a me e lui si afflosciò come un sacco vuoto. Lo osservai a terra, bianco di cera, agonizzante. «Aspetto che crepi poi vado a cercare aiuto» gli dissi. Non so perché cambiai idea, precipitandomi nel negozio per telefonare all’ambulanza. Non morì, gli avevo “soltanto” tagliato le corde vocali, una perdita di ben poco conto. In questura il commissario, dopo avermi fatto portare una cioccolata calda, osservandomi con tenerezza, disse: «A quanto sembra sai difenderti bene». Poi, questa volta ridendo «Lo hai lasciato proprio senza parole, eh?». Avevo quindici anni, avevo agito per difendermi e non subii alcun arresto né processo, niente. Song, invece, lo misero in carcere per tre anni, per tentata violenza su una minore, per ripetute aggressioni verso la moglie e perché si trovava in Italia illegalmente. Poi lo rispedirono in Cina. Eravamo poco più che bambine ma ci sentimmo forti della nostra Amicizia, della nostra Solidarietà. Dalia è ancora la mia più grande Amica.

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Articolo di Eleonora Filiè

Ho gestito una libreria con un laboratorio per bambine/i in cui inventavamo favole, creavamo burattini e mettevamo in scena uno spettacolo con le nostre creazioni. Sono stata un’operatrice psichiatrica e le storie delle persone che ho seguito sono state fonte di ispirazione per molti miei racconti. Premi letterari vinti: nel 2015 “Antichi Orizzonti” con Pesci di fiume; nel 2017 “Arianna, il filo delle parole” con Speranza.

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