Plusdotazione e genere

Sara Martelli è una psicologa e una pedagogista femminista, come lei stessa ama definirsi. Sui temi della violenza di genere ha un assegno di ricerca al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pavia e nello stesso ateneo lavora al LabTalento (Laboratorio italiano di ricerca e sviluppo del potenziale, talento e plusdotazione) con progetti di ricerca e formazione su alto potenziale e plusdotazione e al Centro di Orientamento dove si occupa di competenze trasversali nell’arco di vita.
Le poniamo alcune domande per conoscere meglio le specificità dei temi di cui si occupa.
Saprebbe spiegarci che cosa si intende oggi, nel mondo scientifico, con il termine plusdotazione?
Semplificando molto e sottolineando che al momento non esiste una definizione condivisa nemmeno all’interno della comunità scientifica specializzata, possiamo dire che la plusdotazione è una costellazione di caratteristiche di funzionamento intellettivo che identificano persone che mostrano, o hanno il potenziale per mostrare, abilità eccezionali in una o più aree di competenza: linguistica, logico-matematica, visuo-spaziale, artistica, motoria, intra o interpersonale.
Qual è la situazione in Italia rispetto al riconoscimento della plusdotazione per bambini e bambine, ragazzi e ragazze e con le relative strategie pedagogiche per valorizzarla?
Non tanto buona, ma meglio di anno in anno. Mentre in alcuni Paesi stranieri da molti decenni ci si occupa di identificare e valorizzare (va detto, talvolta, con lo scopo più o meno dichiarato di “sfruttarle meglio”) le persone con talento intellettivo, in Italia abbiamo cominciato solo recentemente a occuparcene in modo scientifico. Conoscere il fenomeno non serve solo a valorizzare i talenti, ma anche a fare in modo che non si disperdano o si canalizzino verso modalità di disfunzionamento. Inoltre la neurodivergenza in chi ha una plusdotazione porta talvolta con sé modalità e fatiche che possono minare il benessere psicologico nel breve, medio e lungo termine. Un’identificazione precoce può permettere di mettere in campo fattori di protezione e ridurre i rischi.
La scuola può fare molto e le è chiesto di essere inclusiva a tutto tondo: le classi devono diventare luoghi dove il potenziale —  a qualunque livello!, non solo quello straordinariamente alto —  viene coltivato e deve diventare strumento per una crescita collettiva. Una didattica che veda ogni elemento del gruppo e offra ciò di cui si ha bisogno richiede notevole impegno, formazione specializzata, ma in cambio permette a tutte e tutti di progredire ed esprimere il meglio di sé.
Quali sono i segnali che potrebbero farci pensare di avere un figlio o una figlia, un alunno o un’alunna con plusdotazione?
Premesso che i profili di chi ha una plusdotazione possono essere molto variegati e le modalità di espressione sono ampie, ci sono alcuni segnali che possono farci attivare: acquisisce informazioni molto velocemente e/o ha un’ottima memoria; coglie relazioni profonde fra eventi; possiede molto sviluppate abilità verbali (per esempio ha un vocabolario molto ricco per la sua età, ha imparato a leggere con grande anticipo e magari in totale autonomia) o logico-matematiche (per esempio opera con numeri molto grandi, capisce immediatamente concetti complessi); ha molti interessi e una notevole curiosità; ha uno spiccato pensiero critico; ha interesse marcato verso i temi sociali e/o esistenziali…
È vero che oggi la richiesta di certificazione di plusdotazione da parte di famiglie o insegnanti riguarda molto di più i maschi rispetto alle femmine? Sono in percentuale più i maschi delle femmine ad essere plusdotati?
Sia la letteratura internazionale che la nostra ormai corposa esperienza al LabTalento ci dicono che le richieste di certificazione sono altamente sproporzionate a favore dei maschi. A questo, però, non corrisponde una differenza significativa di genere. Per intenderci, se prendessimo tutti coloro che hanno 6 o 7 anni (prima di questa età sconsigliamo di fare test con lo scopo di certificare la plusdotazione) è molto improbabile che troveremmo differenze numeriche significative sulla base del genere. Decenni fa questa sproporzione era presente e marcata, ma si è stemperata nel tempo. Si ritiene il gap fosse dovuto soprattutto alla bassa scolarizzazione e offerta di stimoli intellettuali e sociali delle bambine, ragazze e donne. Questo mi permette di sottolineare come l’integrazione fra fattori innati e ambientali sia cruciale per trasformare il potenziale in talento e competenza.
Le motivazioni per cui “non vediamo” (e quindi non chiediamo di certificare) il talento nelle femmine sono variegate e molte di queste basano le proprie fondamenta su concezioni stereotipiche delle caratteristiche di maschi e femmine e possono generare franche discriminazioni.
Potrebbe essere che le femmine hanno una maggiore capacità o propensione a “modellarsi” sull’ambiente di apprendimento, a trovare strategie più efficaci per adattarsi al contesto rispetto ai maschi? O a suo avviso si tratta di una più o meno consapevole tendenza a mimetizzarsi, che nasce magari da una cultura diffusa che vede come inconsueta, strana, quando non negativa e inopportuna l’espressione di una competenza superiore, di un talento evidente in una femmina?
Ovviamente dipende dai casi. Noi vediamo entrambe queste opzioni. In generale docenti e genitori non si aspettano che le femmine siano altrettanto dotate dei maschi. Questo può generare una sorta di effetto pigmalione: il livello delle aspettative genera col tempo una corrispondenza nelle reali prestazioni. Ci sono, inoltre, bambine e ragazze che raccontano di essere state molto precocemente frustrate quando esprimevano il proprio potenziale e questo, non raramente, le ha spinte a camuffarlo, metterlo da parte.
Cosa possiamo fare, concretamente e realisticamente, per correggere questo “sguardo distorto” sul potenziale di bambini e bambine, che condanna ancora una volta le seconde all’invisibilità e al non riconoscimento?
Il primo passo in assoluto è diffondere conoscenza. Sapere che non esistono significative differenze fra maschi e femmine è un ottimo punto di partenza e può minare alla base gli stereotipi inconsci. Dobbiamo offrire occhiali per vedere il dono, trasformarlo in competenza e fornire strumenti per valorizzarlo. Ogni talento che non vediamo —  o peggio umiliamo —  è un talento sprecato.
La discriminazione di genere, oltre a danneggiarne alcuni membri, è un danno alla società nel suo complesso. Lo dobbiamo alle bambine, alle ragazze e alle donne e lo dobbiamo all’umanità tutta.

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Articolo di Chiara Baldini

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Classe 1978. Laureata in filosofia, specializzata in psicopedagogia, insegnante di sostegno. Consulente filosofica, da venti anni mi occupo di educazione.

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