Ha aperto i battenti il 20 aprile e sarà visitabile fino al 24 novembre 2024, ai Giardini e all’Arsenale, la 60ᵃ Esposizione Internazionale d’Arte veneziana dal titolo Stranieri Ovunque — Foreigners Everywhere. Se non potete andarci, permettetemi di guidarvi alla scoperta delle opere premiate e dei padiglioni più originali. Ma, se potete, vale sempre la pena un viaggio a Venezia, per godere del fascino di questa città meravigliosa e unica, e delle tante iniziative collaterali che come sempre accompagnano l’Esposizione.
Curatore è Antonio Pedrosa, direttore Artistico del Museu de Arte de São Paulo in Brasile e primo latino americano a curare l’esposizione: a lui il merito di aver presentato figure del mondo dell’arte sconosciute ai più e di non essersi piegato alle logiche commerciali di gallerie potenti. Decolonizzazione, discriminazione di genere e multiculturalismo sono le tematiche di questa edizione, che cerca nuovi equilibri tra Nord e Sud del mondo.
Trecentotrentadue sono gli artisti e le artiste presenti nel Padiglione centrale e all’Arsenale, per lo più sono outsider, folk, migranti che hanno lasciato il paese natale per trasferirsi altrove, conservando sempre forti legami affettivi ai luoghi e alle comunità che vi abitano, di cui portano avanti i diritti e denunciano ingiustizie; talvolta vivono sessualità diverse, o lottano per le loro scelte. Molte le donne presenti. Ottantotto sono i padiglioni con un focus geografico spostato decisamente verso il “Sud” del mondo. Per ora resta chiuso il Padiglione Israele, in attesa della fine delle ostilità e per solidarietà con le famiglie degli ostaggi.
L’alleanza internazionale di artiste e artisti aveva chiesto l’esclusione del Paese per non “legittimare le sue politiche genocide a Gaza”. L’appello si era scontrato con le procedure che regolano la partecipazione alla Biennale, per le quali tutti i Paesi riconosciuti dalla Repubblica Italiana possono richiedere di partecipare. Anche se chiuso, però, è tutto vetrato e il video dell’artista israeliana Ruth Patir “(M)otherland” è proiettato in loop in modo che si possa comunque guardare dall’esterno.
Il titolo di questa 60ᵃ edizione Stranieri Ovunque — Foreigners Everywhere vuole intendere che ovunque si vada si incontreranno sempre degli stranieri e che in fondo siamo un po’ tutti stranieri; l’invito quindi è quello di ampliare lo sguardo accogliendo figure che non hanno mai partecipato all’Esposizione Internazionale.
Un grande murale copre interamente la facciata del Padiglione Centrale ai Giardini, diventando un vero e proprio manifesto di questa edizione. A realizzarlo con coloratissime forme è il collettivo brasiliano Mahku-Movimento dos Artistas Huni Kuin.
Hanno un motto «Vendo tela, compro terra», appartengono all’etnia Huni Kuin e vivono nella regione amazzonica tra Perù e Brasile: vendono le proprie opere per acquistare terre intorno al loro villaggio al fine di proteggerle dalla deforestazione.
La Biennale ci accoglie così con un impatto coloratissimo fin dall’ingresso, mai stato così pittoresco e vivace. Nel grande murale viene raccontata la storia di kapewë pukeni (il ponte-alligatore).
Secondo la mitologia del popolo Huni Kuin, un tempo il continente asiatico e quello americano erano collegati grazie a un accordo che gli uomini avevano stipulato con un gigantesco alligatore: l’animale si era offerto di trasportarli sul dorso in cambio di cibo. Tuttavia gli uomini alla fine tradirono la fiducia del grande alligatore, che si inabissò per sempre nel mare. Da qui ebbe origine lo stretto di Bering e la separazione tra popoli e luoghi diversi.

Nei Giardini troverete Vick, il panda-coniglio nato dall’immaginazione di Verdy, uno dei grafici giapponesi più famosi nel campo del design, che sceglie di ispirarsi ad animali legati ai simboli di pace (panda) e longevità (coniglio). In occasione della Biennale il personaggio, nato come grafica bidimensionale in bianco e nero, per la prima volta si presenta in bronzo.

Sempre nei Giardini il Pabellon criollo della venezuelana Sol Calero (Caracas,1982) è un’installazione dalle forme coloratissime che comunica il senso di ospitalità è un luogo di incontro, un’oasi comune.

Il Leone d’oro è andato al padiglione dell’Australia e all’artista australiano Archie Moore (Toowoomba, 1970), il cui albero genealogico tracciato sulle pareti del padiglione, Kith and kin, denuncia le invasioni coloniali, i massacri e le carcerazioni degli aborigeni. L’artista, discendente delle etnie Kamilaroi e Bigambul da parte di madre, e scozzese da parte di padre, ha trascorso settimane massacranti scrivendo con gesso bianco migliaia di nomi sulle pareti e sul soffitto del Padiglione.
Al centro dell’installazione c’è una vasca che funge da memoriale per le ingiustizie subite dai popoli indigeni; infatti, sopra di essa sono sospese pile di documenti, per lo più inchieste sulla morte di indigeni australiani in custodia alla polizia. L’artista risale ai suoi antenati aborigeni fino a 65.000 anni fa, praticamente fino agli avi comuni a tutti i popoli. Le invasioni colonialiste, i massacri, e gli esodi degli aborigeni, tra i popoli più antichi del mondo, sono rappresentati con spazi vuoti.

Leone d’argento alla londinese di origini nigeriane Karimah Ashadu (Londra, 1985), premiata per il video Machine boys, che mette in scena un gruppo di giovani nigeriani, autisti di mototaxi illegali. L’artista ne traccia un ritratto, mentre impazzano per le strade di Lagos, evidenziando il loro machismo che deve fare i conti anche con la loro vulnerabilità.

Rimanda alla trama dei tessuti l’installazione all’Arsenale del collettivo maori Mataaho che ha vinto il Leone d’Oro per la miglior partecipazione alla Biennale. Il collettivo è formato da donne Maori Mataaho, Bridget Reweti, Erena Baker, Sarah Hudson e Terri Te Tau, che con la loro opera hanno creato una luminosa, gigantesca struttura intrecciata di fasce in poliestere che coprono lo spazio della galleria. L’installazione sembra evocare un rifugio, mentre un cielo stellato si riflette sul pavimento attraverso imprevedibili giochi di luci e ombre.


Due artiste hanno ricevuto Il Leone d’Oro alla carriera: Anna Maria Maiolino, artista brasiliana, italiana di nascita, e Nil Yalter, artista turca, residente a Parigi. Due donne che incarnano in pieno lo spirito di Stranieri Ovunque: Anna Maria Maiolino, infatti, è emigrata dall’Italia (è nata a Scalea, in Calabria nel 1942 da padre italiano e madre ecuadoriana) al Sud America, Nil Yalter si è trasferita dal Cairo a Istanbul e infine a Parigi, dove risiede.

Nel Nucleo Contemporaneo si trova l’installazione della Maiolino Indo e Vindo. Il titolo è sintomatico per una migrante: “Indo e Vindo”, cioè “Andando e Venendo”. La sua attenzione alla “terra modellata” sottolinea il ciclo naturale dell’argilla: si disidrata, si pietrifica e torna a essere polvere. L’installazione è completata da filmati e audio prodotti negli ultimi decenni in collaborazione con amici fotografi e musicisti.


Di Nil Yalter (Il Cairo,1938) è la Tenda di feltro e pelle di pecora che accoglie i visitatori all’ingresso del Padiglione Centrale: l’opera è inserita al centro di un’installazione dal titolo Exile is a hard job (L’esilio è un duro lavoro), ispirata alle parole del poeta turco Nâzim Hikmet.

Menzioni speciali a Samia Halaby per il suo dipinto Black is beautiful. L’artista, nata nel 1936 a Gerusalemme e residente a New York, denuncia da sempre le sofferenze del popolo palestinese. La Palestina non ha uno Stato e non ha un suo padiglione alla Biennale, che è organizzata secondo strutture statali. L’artista lamenta questa lacuna che l’amministrazione della Biennale dovrebbe correggere.

La Chola Poblete è la prima artista trans a essere premiata con una menzione. Nata a Buenos Aires nel 1989, utilizzando pittura, scultura, performance e videoarte, è impegnata a combattere gli stereotipi associati alle popolazioni indigene dell’America latina. Una marea di esseri ibridi popolano i suoi dipinti, convivendo con motivi astratti, religiosi e pop, Vergini con le trecce, interpretabili come suoi autoritratti, spade che affettano patate e forme organiche ornate di peni.


Anche il progetto di Doruntina Kastrati (Prizren, 1991) per il Padiglione della Repubblica del Kosovo ha ricevuto una menzione speciale. Lo sfruttamento del lavoro femminile è il tema della sua installazione scultorea The Echoing Silences of Metal and Skin.

L’artista ha intervistato dodici operaie di un’azienda dolciaria di Prizren, dove si lavora in piedi e in condizioni proibitive, con salari molto bassi. Le cinque grandi sculture sono ispirate alle forme dei gusci dei diversi tipi di noci utilizzate come ingredienti dei tipici lokum, i dolci “amari” di Doruntina.
In copertina: la facciata del Padiglione centrale.
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Articolo di Livia Capasso

Laureata in Lettere moderne a indirizzo storico-artistico, ha insegnato Storia dell’arte nei licei fino al pensionamento. Accostatasi a tematiche femministe, è tra le fondatrici dell’associazione Toponomastica femminile. Ha scritto Le maestre dell’arte, pubblicato da Nemapress nel 2021, una storia dell’arte tutta al femminile, dalla preistoria ai nostri giorni.

Installazioni e opere accattivanti, da quanto anticipato nell’articolo uno sguardo sulle voci di un’arte che si fa tramite di messaggi importanti, di problemi e rapporti tra diverse culture. Un peccato non poterci andare ma spero di poter leggere e visionare altro in merito. Grazie intanto per questa interessante presentazione.
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