Carissime lettrici e carissimi lettori,
un antico adagio popolare detta: “provare per credere”. Ora lo hanno provato anche loro, gli uomini afghani, sulla loro pelle, quello che avevano e stanno disperatamente verificando le donne del loro Paese, lasciate sole a combattere (e soprattutto a subire) l’oscurantismo degli uomini del potere: i talebani. Oggi per tutti i maschi afghani le barbe sono obbligatorie, e devono essere lunghe almeno un pugno. Non sono ammessi, per nessun motivo, mai, i capelli corti: i barbieri oggi in Afghanistan hanno paura e negano ai clienti il taglio di barbe e capelli. Eliminati dal proprio guardaroba gli abiti occidentali, quindi “poco islamici” (ah le donne!), perciò un deciso no ai jeans. Su tutto vige l’obbligo della preghiera in moschea. Questi i punti essenziali. C’è il rischio, da agosto scorso (quasi due mesi fa) per i maschi che vivono sul territorio afgano di ritrovarsi la polizia in casa, la polizia morale, come quella che detta legge in Iran, e di ricevere l’ammonizione di non essere stati visti in moschea. Così ora gli uomini si pentono per aver “guardato altrove”, per aver taciuto, soprattutto quelli delle grandi città, quando a essere colpite (e ancora continua così) sono state le donne con i tanti divieti precipitati loro addosso da tre anni a questa parte di governo “religioso”: divieto di studiare, di iscriversi all’università, di uscire di casa se non accompagnate da un familiare maschio, addirittura di far sentire la propria voce (uno degli ultimi divieti di questa assurdità), oltre che cantare e ascoltare la musica. Poi scomparire totalmente nascondendo il proprio corpo, evidentemente ispiratore di peccato secondo i talebani, sotto uno spesso e largo burqa da cui nulla traspare, neppure la luce dello sguardo. Tutto questo è stato giudicato da Amnesty international come una grande e totale violazione dei diritti umani. L’occidente, cosiddetto libero e civile, ha voltato loro le spalle. Praticamente: andando via e lasciando il Paese in pugno ai Talebani, e metaforicamente: dimenticando di fatto di scrivere, di denunciare ciò che accadeva. Alle donne sono state inflitte pene per vari divieti. «Il numero di imposizioni fioccate in questo arco temporale che va da agosto 2021 a oggi — ci informa un quotidiano — ha fatto sì che venisse annullata qualsiasi presenza delle donne nella vita pubblica. I decreti del 24 dicembre 2022 e del 4 aprile 2023 impediscono alle donne di lavorare nelle Ong e nelle agenzie delle Nazioni Unite. Le donne non possono viaggiare da sole, devono essere sempre guidate un mahram, ovvero un accompagnatore maschio. Devono restare a casa, se non è strettamente necessario che escano. Non possono scegliere cosa indossare perché esiste un rigoroso codice etico che viola contemporaneamente sia la loro libertà di movimento che quella di scegliere cosa indossare in pubblico». I divieti al femminile riguardano i “crimini” morali, come la partecipazione a manifestazioni pubbliche per i diritti. In questo caso molte delle donne arrestate sono anche come volatilizzate, scomparse per sempre. Poi l’obbligo di contrarre, anche in tenera età (7 o 8 anni) matrimoni forzati che, in un periodo di forte crisi economica, de facto, aumentano sempre di più “grazie” alla vendita delle proprie figlie da parte delle famiglie ormai allo stremo. Alle donne e alle ragazze che rifiutano il matrimonio la “legge” talebana può riservare di tutto: rapimenti, intimidazioni, minacce, torture, sparizioni. Le donne afghane sono poi palesemente cittadine di seconda classe: «Sono messe a tacere e rese invisibili. Queste misure riflettono una politica di persecuzione di genere, ulteriormente confermata dalla cancellazione di un quadro istituzionale di sostegno alle vittime di violenza di genere» (La Repubblica).
E ora tocca ai maschi. Si sentono colpiti e impauriti. Temono di uscire di casa per terrore di essere «fermati e umiliati» per strada e in un commissariato. Le denunce già fioccano. I più colpiti, oltre ai barbieri, sono i tassisti, soprattutto quelli che lavorano nelle grandi città, più pronte a “violare” le regole. I guidatori di taxi (tutti rigorosamente maschi) sono stati più volte giudicati rei di aver portato a bordo donne “non accompagnate” e di aver fatto ascoltare musica dalla loro radio.
Chi sono i Talebani o Taliban? Sono un gruppo di fondamentalisti islamici formatisi nelle scuole coraniche afghane e pakistane (infatti il nome deriva dal pashtō tālib, studente della scuola coranica). All’inizio erano impegnati nella guerriglia contro l’Unione Sovietica che è stata presente in Afghanistan tra il 1979 e il 1989. Sono emersi come vincitori tra il 1995 e il 1996 della guerra civile afgana imponendo un regime teocratico basato sulla rigida applicazione della legge coranica. «Con il sospetto di legami con al-Qā‛ida e con il terrorismo di matrice islamica, hanno continuato a svolgere attività terroristica e di guerriglia contro le truppe della coalizione internazionale schierata in Afghanistan e contro quelle governative, estendendosi anche nelle regioni settentrionali del Pakistan. Negli anni i talebani hanno ciclicamente perso e riguadagnato terreno: terminata nel dicembre 2014 la missione Isaf, dal gennaio dell’anno successivo è stata avviata la Resolute Support a sostegno delle forze di sicurezza afghane, che prevede operazioni di controterrorismo e force protection. Dal 2015 i talebani hanno ripreso a guadagnare terreno, fomentati anche dall’avanzata dell’Isis: il conflitto tra i due gruppi è stato particolarmente accentuato nella regione del Khorasan, ubicata tra Afghanistan e Pakistan, dove opera Wilayat Khorasan, movimento terroristico affiliato all’Isis che è riuscito a imporsi su un’ampia area e la cui crescente presenza ha spinto un’ala del movimento a operare per il riconoscimento dell’autorità talebane da parte del governo ufficiale, mentre sono proseguiti da parte della frangia più estremista gravissimi attentati a civili, frequentemente effettuati come attacchi coordinati con attentatori suicidi, che hanno compromesso il consolidamento dei processi di pace. Dalla primavera 2021, a seguito del progressivo ritiro delle truppe Nato, il gruppo fondamentalista ha scatenato una nuova offensiva, arrivando nel mese di settembre, terminate le missioni di pace e ottenuto il pieno controllo del Paese, a formare un esecutivo ad interim guidato da M.H. Akhund».
Un poeta russo, Velimir Chlebnikov (pseudonimo di Viktor Vladimirovič Chlebnikov, 1885-1922), un poeta tra i poeti, come lo chiamavano i contemporanei, che era tra i più grandi e straordinari del gruppo futurista che comprendeva Vladimir V. Majakovskij e David D. Burljuk. Mi sono ricordata di alcuni suoi versi: «Bambina! Se gli occhi sono stanchi d’esser larghi/ se acconsentite a chiamarmi fratello/ io, occhi cèrulo, giuro/ di tener alto il fiore della vostra vita/ Vedete, io sono così, sono caduto da una nuvola/ molto male mi hanno arrecato/ perché ero diverso/ non affabile sempre/ non amato in ogni dove/ Se vuoi, saremo fratello e sorella/ del resto già siamo in una libera terra liberi uomini/ facciamo noi stessi le leggi, le leggi non vanno temute/ e plasmiamo l’argilla delle azioni… Molte parole superflue noi schiveremo/ Semplicemente servirò messa per voi/ come un sacerdote capelluto dalla lunga criniera/ di bere i rigàgnoli azzurri della purezza/ e dei nomi terribili noi non ci metteremo paura” (Interno Poesia, traduzione di A.M. Ripellino). Così dovrebbe essere. Versi di una poesia magnifica che ha in sé i valori oltre che di una parità di genere di una visione tranquilla della Legge laica e della sua osservanza.
Invece le leggi in tempi di dittatura, teocratica o meno, o di…democratura, come è lecito dire, vanno temute. E non solo in Paesi come l’Afghanistan e l’Iran. Anche qui da noi. Francamente un disegno di legge come quello sulla sicurezza, appena approvato alla Camera e in via di discussione a Palazzo Madama (lo sapevate che è chiamato così in onore di Margherita d’Asburgo, figlia illegittima, ma cresciuta a corte, di Carlo V, detta Madama d’Austria?). è sinceramente un provvedimento liberticida e anticostituzionale. Oltre ad allungare ancora di più il numero dei reati (20 in più!), “cura” con l’inasprimento delle pene, dunque con la punizione, situazioni che dovrebbero essere, invece, sanate con interventi sociali. Il Disegno di legge Sicurezza, di fatto, interviene sulla libertà di manifestare, sulla scia di quello che era stato fatto, a governo appena insediato, per i rave, evitando così “per legge” la riunione di un certo numero di persone o, come si enuncia in questo ddl, rendendo impossibile il protestare. Ad esempio, nelle carceri il divieto della contestazione per problematiche legittime come può essere il sovraffollamento o la lentezza dei processi. Ancora peggio, secondo noi, per quel che riguarda il divieto sull’uso e il possesso della cannabis light, una proibizione impensabile in tantissimi Paesi e che incrementerebbe, sempre secondo noi, il mercato illegale contro cui appunto era pensata la legalizzazione. Poi si penalizzerebbe tutta quella fascia di persone che ricorrono alla cosiddetta “canna light” per ragioni mediche, come l’attenuazione del dolore.
Invece una grande vittoria l’ha avuta la raccolta delle firme per la cittadinanza. In una manciata di giorni (precisamente in 72 ore) sono state raccolte le firme necessarie per il referendum, che sarà come sempre abrogativo. Il quorum delle 500 mila firme necessarie è stato raggiunto e Riccardo Magi, il promotore, conta di riuscire a raggiungere il milione entro il 30 settembre, la data utile in cui la richiesta deve essere presentata. Sicuramente a stimolare questo successo hanno contribuito anche gli appelli di intellettuali come Alessandro Barbero, Roberto Saviano, Zerocalcare, Anna Foglietta, Matteo Garrone, Malika Ayane, Julio Velasco. Non dimentichiamo poi Ghali che con i suoi 4 milioni di follower ha sicuramente dato una spinta importante alla raccolta così veloce delle firme. Il punto centrale della richiesta è abbassare a cinque, come in grande parte dei paesi europei, il periodo di concessione della cittadinanza, invece che a dieci. «Cittadinanza non è etnia, non è razza, non è religione, non è Nazione — scrive Michele Serra nella sua Amaca del 25 settembre, tra l’altro anniversario delle ultime elezioni politiche — Non è Dio, Patria, Famiglia. È un criterio di appartenenza e di consociazione molto più vasto, molto più giusto e assai meno divisivo. Dice che vivere in tanti in un posto mette quei tanti nelle stesse condizioni e li vincola alla stessa legge». All’inizio dell’articolo Serra aveva spiegato l’origine della parola: «Cittadinanza è una bella parola. Nasce alla fine del Settecento ed ha come vigorosa levatrice la Rivoluzione Francese. Significa che ogni persona è uguale di fronte allo Stato, ha gli stessi diritti e gli stessi doveri. Non ci sono più aristocratici e popolo, non il re e i sudditi, non le caste e le corporazioni: ci sono i cittadini, e tanto basta per definire le regole della comunità. Cittadinanza, dunque, è una parola democratica per eccellenza, e forse la più democratica di tutte le parole». E con uno sguardo ai giovani che, secondo il giornalista, non riescono a capire: «Che sia l’estensione della cittadinanza, con quello che ne consegue, a mobilitare così tanti italiani, e in grande misura i ragazzi che non capiscono perché mai il loro compagno di scuola, di università o di lavoro che viene da lontano e paga le stesse tasse non debba essere considerato un con-cittadino, è una specie di scossone democratico. Parla di una comunità di italiani non sopita, tutt’altro che indifferente, stanca della grettezza ideologica al potere».
Una settimana fa in Francia, ad Avignone, è iniziato un processo particolare, che sa dell’assurdo, ma come è stato detto da più parti, potrebbe sottintendere un problema profondo e dilagante. Un processo sullo stupro, ma caratterizzato dalla presenza della droga dello stupro, quando una donna si sveglia non ricordando nulla o quasi di quello che è successo. Questo è accaduto a Gisèle Pelicot, una donna che oggi ha settanta anni e che credeva di essere una moglie felice e serena mentre, invece, il marito la drogava e per oltre dieci anni ha permesso (su appuntamento!) che degli uomini (se ne sono contati una cinquantina, di tutte le età e di svariate posizioni sociali, ora tutti a processo!) la violentassero mentre era sotto effetto di una droga: «La vergogna cambia campo» è stato lo slogan delle manifestazioni francesi riguardo al processo di Avignone, da Marsiglia a Parigi, da Nantes a Nizza, a sostegno di Gisèle Pelicot che ha voluto con forza che tutto fosse pubblico, a porte aperte, come si dice. Perché la sua testimonianza, la sua triste storia diventasse utile per le altre donne che devono stare attente, capire il perché non ricordano, hanno vuoti di memoria in certi momenti. In più la signora Pelicot si è sentita nel processo essere lei stata messa sotto accusa, con quella doppia condanna che pesa sulle donne che denunciano. Poi c’è il grande, immenso problema della stampa, di come i media riportano le notizie che riguardano le violenze sulle donne: «Il modo in cui i media riportano la violenza contro le donne e le ragazze ha conseguenze nella vita reale che plasmano i nostri atteggiamenti e le nostre convinzioni collettive sulla violenza stessa», afferma Andrea Simon, direttore esecutivo di Evaw. (End violence againt women): «Un giornalismo scadente rafforza la tendenza a incolpare le vittime, stereotipi dannosi e atteggiamenti che tollerano e normalizzano lo stupro. Un buon giornalismo può aiutare ad affrontare questi atteggiamenti e a guidare il cambiamento. Le donne non si fanno avanti perché non si aspettano di essere credute, e ciò passa anche attraverso il giornalismo… A pochi giorni dall’inizio del processo Pelicot, aveva fatto scandalo proprio il titolo di un articolo del quotidiano britannico The Telegraph, poi subito modificato: «Moglie si vendica pubblicamente degli uomini che su ordine del marito l’hanno stuprata per anni». Nel divario tra “vendetta” e “giustizia” prolifera tutta quanta la misoginia che pervade non solo episodi di violenza sessuale simili a quello di Mazan, ma anche le narrazioni di questi ultimi. E — conclude amaramente l’articolo – in questa distanza si colloca quel 94% di stupri che non denuncia». (Francesca Di Muro, Linkiesta).
Avevo in mente, preparate, tante poesie per questa nostra consolazione periodica. Poi ho pensato a quello che è accaduto, di nuovo, in Emilia- Romagna e mi sono accorta che qui non l’abbiamo ricordata, non ho parlato di quella gente laboriosa che ha affrontato la sofferenza dell’”invasione” dei propri luoghi di vita da parte di una catastrofe naturale. Allora mi è venuta in mente Acqua, la poeticissima e dolce canzone di Francesco Guccini, amatissima voce emiliana che ci ha affiancato nel nostro divenire donne e uomini.
L’acqua che passa fra il fango di certi canali
Tra ratti sapienti e pneumatici e ruggine e vetri
Chissà se è la stessa lucente di sole o fanali
Che guardo oleosa passare rinchiusa in tre metri
Si può stare ore a cercare se c’è in qualche fosso
Quell’acqua bevuta di sete o che lava te stesso
O se c’è nel suo correre un segno od un suo filo rosso
Che leghi un qualcosa a qualcosa, un pensiero a un riflesso
Ma l’acqua gira e passa e non sa dirmi niente di gente
Me, o di quest’aria bassa
Ottusa e indifferente cammina e corre via lascia una scia e non gliene frega niente
E cade su me che la prendo e la sento filtrare
Leggera infeltrisce i vestiti e intristisce i giardini
Portandomi odore d’ozono, giocando a danzare
Proietta ricordi sfiniti di vecchi bambini
Colpendo implacabile il tetto di lunghi vagoni
Destando annoiato interesse negli occhi di un gatto
Coprendo col proprio scrosciare lo spacco dei tuoni
Che restano appesi un momento nel cielo distratto
E l’acqua passa e gira e colora e poi stinge
Cos’è che mi respinge e che m’ attira
Acqua come sudore, acqua fetida e chiara, amara senza gusto né colore
Ma l’acqua gira e passa e non sa dirmi niente di gente, me, o di quest’aria bassa
Ottusa e indifferente cammina e corre via lascia una scia e non gliene frega niente
E mormora e urla, sussurra, ti parla, ti schianta
Evapora in nuvole cupe rigonfie di nero
E cade e rimbalza e si muta in persona od in pianta
Diventa di terra, di vento, di sangue e pensiero
Ma a volte vorresti mangiarla o sentirtici dentro
Un sasso che l’apre, che affonda, sparisce e non sente
Vorresti scavarla, afferrarla, lo senti che è il centro
Di questo ingranaggio continuo, confuso e vivente
Acque del mondo intorno di pozzanghere e pianto, di me che canto al limite del giorno
Tra il buio e la paura del tempo e del destino freddo assassino della notte scura
Ma l’acqua gira e passa e non sa dirmi niente di gente, me, o di quest’aria bassa
Ottusa e indifferente cammina e corre via lascia una scia e non gliene frega niente.
(Francesco Guccini, Parnassius Guccini 1993)
Buona lettura a tutti e tutte.
Le ragazze stanno bene? Se lo chiede un Dossierdi Save the children sulla violenza di genere, raccontato dall’autrice dell’articolo La libertà delle ragazze. E tanto bene le ragazze non stanno. Sarà forse perché Un unico sguardo scrive un’unica storia, come ci ricorda l’approfondimento che ci guiderà a riflettere sulla violenza di un mondo pensato solo al maschile e sui pericoli che comporta. Lo fa anche l’autrice di Costituzione letteraria. Articolo 9, che commenta uno degli articoli più belli e meno rispettati della nostra Carta fondamentale.
La guerra è da sempre il modo maschile di affrontare i conflitti. Ma le donne in molte parti d’Italia e del mondo si stanno organizzando per portare un pensiero diverso nelle società. Ne parla l’autrice della recensione di Corpi e parole di donne per la pace. L’esperienza del Presidio di Palermo, a cura di Mariella Pasinati, raccontando «la costituzione del Presidio permanente contro le guerre, promosso dalla Biblioteca delle donne e Centro di consulenza legale UdiPalermo».
Continuiamo a presentare la rassegna degli articoli del primo numero d’autunno andando in Argentina con Mercedes Sosa, la Cantora del Pueblo, una figura coraggiosa e ribelle in lotta per la libertà del suo popolo. Dalla musica passiamo a una diversa forma d’arte, a Venezia, con un altro articolo di Biennale Arte 2024. I padiglioni. Vite intrecciate, fili di speranza. Parte quinta continua l’esame del Report di Unfpa, occupandosi della salute riproduttiva delle donne.
Questa settimana vogliamo ricordare tre donne poco conosciute: Hedy Lamarr, la Venere peccatrice. Bella, scandalosa e geniale, una delle tante Nobel mancate, Elisabeth Cady Stanton, suffragetta, pioniera e attivista della carta stampata statunitense e Giustina Abbà, un’antifascista istriana da (ri)scoprire.
I nostri consigli di lettura sono due: Dalla stessa parte mi troverai di Valentina Mira, definito “indispensabile” dall’autrice di Storia di una vittima innocente e di due donne speciali e, per il nostro Laboratorio di scrittura creativa “Flash-back”, Primo scrutinio, il racconto dell’atto di coraggio di una docente in un Consiglio di classe.
Nella Sezione Juvenilia Le vie delle Marche all’insegna della parità. Ai nastri di partenza il nuovo bando presenta la bella esperienza, che si ripete anche quest’anno, del Concorso Marchigiano per le scuole.
Chiudiamo, come sempre, con una ricetta vegana: Non la solita pasta al pomodoro, un modo sfizioso e creativo di preparare uno dei piatti più famosi della cucina mediterranea. E auguriamo a tutte e tutti Buon appetito!
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Articolo di Giusi Sammartino

Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpreti; Siamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.
