Haydeé Mercede Sosa nasce con la finestra aperta. Era così che allora si veniva al mondo in Argentina, a Tucumán. Con la finestra aperta e senza pretese. Ma quei vetri spalancati sono la genetica di una voce da Pachamama, ctonia e pellegrina, destinata ad andare e raccontare l’identità, il destino, il dolore e la speranza di tutta una terra, di tutto un popolo.

E la genetica è forse anche nella data, il 9 luglio del 1935, giornata in cui l’Argentina festeggia e ricorda la propria indipendenza. Come può dunque il primo vagito esimersi dal diventare grido unanime di resistenza e rivoluzione? Non può, anche se Mercedes Sosa si opporrà, almeno all’inizio, alla condivisione della propria voce con altri e altre che non siano sé stessa e la sua famiglia, egoista del dono che invece poi farà al mondo ultimo, quello del buio e del margine, quello della polvere e del sangue, regalandogli alla fine la via d’uscita e il riconoscimento dei canti e della musica.
Un mondo che ella stessa conosce perfettamente, perché da lì viene, lì nasce e vive, almeno fino al suo successo, inaspettato e in parte non voluto.
Sarà, infatti, solo la responsabilità di dare parola e visibilità agli uomini e alle donne nei cui confronti la Storia pare soffrire di afasia che la manterrà sul palcoscenico: «Un giorno, dopo tanti spettacoli in giro per il mondo — dice lei —, mi portò [Pocho Mazzitelli, ndr] in banca perché vedessi i dollari che avevo guadagnato grazie al mio lavoro. Mi impressionò così tanto che dovetti uscire subito per andare a vomitare, perché io i dollari li ho odiati per tutta la vita».

È un’idealista, Mercedes Sosa, nel significato più alto e nobile che il termine può assumere. Ed è, di conseguenza, una comunista.
La madre, Ema del Carmen, presta servizio in case facoltose nelle quali prepara pasti abbondanti e succulenti, ma alla propria famiglia fa spesso mangiare pane e risata. Il padre, Ernesto Quiterio Sosa, fa lo stivatore al porto, il borsettaio, l’operaio in segheria, l’alimentatore di caldaie in uno zuccherificio, e ciò che porta a casa, oltre a un salario misero, è l’amaro gusto di una società che dà il dolce solo a chi può permetterselo. Nonostante questo, la giovinezza di Sosa è piena di allegria e serenità. «Ci mancava tutto ma era come se non ci mancasse niente».
Il primo approccio “pubblico” alla musica avviene nel 1950, con la partecipazione a un concorso organizzato da LV12, un’emittente locale. Quando il padre ascolta la voce della figlia va su tutte le furie: troppa è la vergogna, troppo poco il decoro, e si fa promettere che mai più accadrà una cosa del genere.
C’è però la genetica delle finestre aperte e del 9 luglio, e pochi giorni dopo, a casa della famiglia Sosa, bussa il direttore della radio. La giovane Mercedes ha vinto il primo premio e un contratto: cantare una volta alla settimana per duecento pesos, lo stipendio che Ernesto Quiterio guadagna in un intero mese. L’uomo si arrende. Nasce Gladys Osorio. Solo che Gladys Osorio è Mercedes e Mercedes odia cantare per qualcun altro che non sia la sua famiglia. I soldi però servono e allora si ingoia il malessere e ci si esibisce.

Almeno finché a Tucumán non arriva Oscar Matus.
Matus è un chitarrista e compositore, e crede fermamente che il folklore debba allontanarsi dalla natura e donarsi all’essere umano. Sosa, che sta per sposarsi con un altro, ne rimane folgorata. In breve tempo, i due si innamorano. E il loro sodalizio, sentimentale e artistico, segnerà la nascita della musica popolare dell’intera America Latina. Basta con l’imitazione posticcia di canti sempre uguali a sé stessi. Le melodie e le parole possono assumere una dignità del tutto nuova. Nuova e necessaria: quella della lotta e della resistenza.
I canti nazionali argentini possono e devono essere canti politici. Canti che si dividono per unire, che rappresentano le molteplici realtà locali e regionali divenendo, così, un ecumenico inno di umanità. È una vera e propria rivoluzione.

Il progetto, che prende il nome di Nuevo Cancionero, è presentato ufficialmente l’11 febbraio 1963, nel salone del circolo dei giornalisti di Buenos Aires, città nella quale Sosa e Matus sono andati a vivere in cerca di fama e fortuna. La carriera di entrambi, però, stenta a decollare: i due lavorano di giorno in una portineria e di notte si esibiscono nei locali. Talmente pesante è l’indigenza che nel 1962 avevano anche deciso di lasciare l’Argentina. Insieme al figlioletto Fabián, si erano trasferiti in Uruguay, dove stava nascendo proprio in quel periodo un nuovo movimento artistico, molto simile al Nuevo Cancionero argentino, intorno a nomi quali Eduardo Galeano e Mario Benedetti. Lì effettivamente un certo successo arriva.
A mancare, però, è il battesimo artistico dell’Argentina. Così, nel 1965, Mercedes Sosa, spinta dal folclorista Jorge Cafrune, e con un biglietto pagato grazie alla colletta di alcuni amici, partecipa al Festival Nacional de Folklore, a Cosquín, cittadina nella provincia di Córdoba.
Lei è ancora la ragazzina timida di Tucumán, che odia esibirsi in pubblico. Quando è il suo momento — vestita di un poncho, con i lunghi e neri capelli lasciati sciolti, accompagnata soltanto dal bombo legüero, lo strumento di percussione andino — e iniziano le note e le parole di Canción del derrumbe indio, nella sala si fa un silenzio netto e denso.
E mentre gli organizzatori si indignano, riconoscendo in lei tematiche e simpatie comuniste, il pubblico è completamente e perdutamente ammaliato.
Per la prima volta, uomini e donne del popolo argentino hanno potuto ascoltare la voce della loro Pachamama e in essa riconoscersi e ritrovarsi.

Al festival seguono alcuni dischi, come Romance de la muerte de Juan Lavalle, Yo no canto por cantar, Para cantarle a mi gente. Arrivano i primi soldi che però non bastano per uscire dallo stato di indigenza nel quale Sosa e Matu hanno vissuto finora. L’uomo è inoltre geloso del successo di Mercedes. Diventa violento e la donna è costretta a fuggire insieme al figlio, di pensione in pensione, cantando nei locali notturni della capitale per mantenere entrambi, almeno finché non deciderà di lasciare il piccolo a Tucumán, a casa dei propri genitori.
Il matrimonio con Matu finisce così, con una Mercedes Sosa sprofondata in una solitudine sia artistica che affettiva dalla quale faticherà a uscire.
Lo farà, ovviamente, grazie alla musica e grazie anche a un nuovo amore. Con Pocho Mazzitelli, infatti, secondo marito e suo manager, nasce l’artista internazionale.
Mercede Sosa, la Negra, calca i palcoscenici di Miami, Lisbona, Porto, Roma, Varsavia, Leningrado, Baku e Tbilisi: «la mia esistenza è stata questo: un inesausto viaggio per le città di tutti i continenti». Poco prima dell’uscita del suo nuovo album, Mercedes Sosa, dedicato ai poeti latinoamericani come Pablo Neruda e Víctor Jara, a seguito del colpo di Stato del 24 marzo 1976, in Argentina si instaura la dittatura del generale Jorge Rafael Videla.
La censura, che sempre e da sempre ha colpito la cantante, diventa più aspra e asfissiante. Come se non bastasse, nel 1978 muore nel giro di una settimana il suo amato compagno per un tumore al cervello. Otto mesi dopo, durante un concerto a La Plata, viene arrestata e trattenuta insieme al pubblico presente per qualche ora, liberata grazie alle pressioni internazionali. In breve tempo, tutti i suoi spettacoli sono cancellati, la sua voce sparisce dalla radio e i suoi dischi dai negozi.
Il regime sta provando a cancellare la cantora del popolo argentino:
«Mi tornano in mente le immagini della sera in cui mi arrestarono a La Plata. Era tutto preparato, la polizia organizzò l’azione e l’esercito circondò il posto. Dovevano entrare mentre cantavo Cuando tenga la tierra. Mi sforzai e la cantai, stavo quasi per cantare El mundo prometito a Juanito Laguna, quando arriva Fabían disperato e mi grida: Mercedes, scendi dal palco! Avevamo già la polizia addosso».
Le azioni di repressione non colpiscono soltanto lei, ma anche il suo pubblico, le persone che la amano e la seguono.
Il messaggio è chiaro: deve andarsene. Nel 1979, la Negra va in esilio in Spagna, poi a Parigi. Canta in Germania e in Giappone. E ovunque le sue canzoni raccontano l’oppressione e la lotta, la schiavitù e la libertà, il potere ingiusto e gli uomini e le donne che a esso si oppongono. Non serve capire le parole. Ovunque la sua voce, che esce suono e arriva in ogni angolo, diventa liquida e lambisce e occupa spazi, si fa infine roccia e massa, terra sulla quale arrampicarsi per respirare l’ossigeno dell’orgoglio e della rivoluzione.
Sarà soltanto nel 1982 che potrà tornare in Argentina. La dittatura è ormai agli sgoccioli, ma i militari per le strade ancora sparano e la censura ancora morde feroce.
«Mi chiamo Mercedes Sosa, sono argentina», dirà la cantante al grande concerto a Buenos Aires, organizzato per il suo rientro.
E mentre fuori dal teatro l’esercito dà voce alle armi, sul palcoscenico lei canta tutto il suo repertorio, molto del quale ancora vietato.
Ripeterà lo spettacolo per tredici sere, iniziando sempre con il brano Todavía cantamos, una dedica ai tanti desaparecidos, suoi fratelli e sue sorelle, ingoiati dalla follia e dall’odio umani.

Con il ritorno della democrazia, l’impegno politico e sociale di Sosa non si ferma. Continuerà a cantare e a viaggiare per il mondo, battendosi, anche grazie alla sua musica, per la depenalizzazione dell’aborto, contro le dittature, per la verità sui desaparecidos, per la pace e i diritti civili, per la salvaguardia dell’ambiente. Nel 1997, parteciperà, in veste di Vice Presidente della Commissione per la stesura della Carta della Terra, al convegno in cui viene stilato un documento per la Tutela dell’Ambiente.
La Negra si spegne nella capitale argentina il 4 ottobre del 2009, a causa di un’insufficienza renale. Nel “Salone dei passi perduti” viene allestita la camera ardente e il governo indice tre giorni di lutto nazionale.

Simbolo dell’America Latina, Mercedes Sosa è stata la Cantora della libertà: dei popoli, delle donne, individuale. Ha fatto respirare un’intera terra con il fiato primordiale che le apparteneva, facendolo volare lontano da quelle oppressioni che non le sono mai state risparmiate. Ha cantato e lottato. Lottato e cantato, sperando che la propria voce, qualsiasi voce di qualsiasi canto, si sostituisse finalmente all’urlo mostruoso delle armi, delle violenze e delle ingiustizie.
«Pero no cambia mi amor/por más lejos que me encuentre/ni el recuerdo ni el dolor/de mi pueblo y de mi gente/y lo que cambió ayer/tendrá que cambiar mañana/así como cambio yo/ En esta tierra lejana. Cambia, todo cambia. Ma non cambia il mio amore/per quanto lontano mi trovi,/né il ricordo né il dolore/della mia terra e della mia gente./E ciò che è cambiato ieri /di nuovo cambierà domani/così come cambio io/in questa terra lontana. Cambia, tutto cambia».
Qui le traduzioni francese, inglese e spagnolo.
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Articolo di Sara Balzerano

Laureata in Filologia moderna, è giornalista pubblicista. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è avere la forza di continuare a chiedere: Shomèr ma mi llailah (Sentinella, quanto [resta] della notte)? Crede nei dubbi più che nelle certezze; perché domandare significa non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.
