Racconti di viaggio. Parte quarta

Pubblichiamo in questo numero gli ultimi due dei sei racconti finalisti della Sezione C – Narrazioni della XI edizione del Concorso nazionale per le scuole Sulle vie della parità.

Autrice del primo racconto, privo di titolo, è Ilaria Ricci, dell’Università di Roma Tre, che ha scelto l’incipit di Adil Bellafqih.
Questo il giudizio della giuria sul suo lavoro: «Racconto equilibrato, aderente al tema e coerente con l’incipit. La forma espressiva, sciolta e scorrevole oltre che corretta, è di piacevole lettura e presenta un timbro personale».

«E se poi è un assassino?»
«Ma che dici?»
«Che ne sai? Magari è tipo un Jeffrey Dahmer. Hai visto la serie?»
«Era un forum di viaggi. C’erano gli annunci apposta per cercare partner. Ci siamo scritti e sentiti al telefono. Mi ha mandato la foto. So chi è».
«E se fosse un fake? Io non mi fiderei».

Seduta al terminal, non riusciva a togliersi quell’assurda conversazione di testa. Era in anticipo sull’appuntamento e più il tempo passava, più il nodo allo stomaco si stringeva.

Nessuno dei suoi familiari e amici era d’accordo con quel viaggio. C’era chi si limitava alle battute a bruciapelo; quella dell’assassino era solo la più scontata tra quelle che aveva sentito nei giorni immediatamente precedenti la partenza. C’era chi, con finta o genuina premura, l’aveva messa in guardia da una sfilza di generici pericoli, tangibili più o meno come la minaccia dell’uomo nero, ma altrettanto angoscianti. Quegli avvertimenti l’avevano infastidita più di qualsiasi battuta, perché qualcosa di non detto aleggiava loro intorno mentre Bianca ne incassava uno, due, dieci. Non era sicura di voler riavvolgere il filo di quelle frasi troncate, ma l’implicazione che si trovava dall’altro capo, qualunque fosse, la irritava. E poi c’era stata sua madre, che si era limitata a guardarla tristemente e a scuotere la testa. Bianca si era sentita strana; sospesa, come il gatto di Schrödinger, tra calcoli quantici e assurde probabilità. Su sua insistenza, aveva dovuto indossare una medaglietta dorata. San Cristoforo, le aveva spiegato, quando Bianca aveva alzato un sopracciglio con aria perplessa, e poi aveva aggiunto: il santo patrono dei viaggiatori. Era solo un viaggio, e non sarebbe stata da sola, eppure non capiva se questo specifico fatto placasse le inquietudini delle persone attorno a lei o se, al contrario, le accrescesse. E se poi è un assassino? Come per scacciare quella domanda, tirò la catenella della collana da sotto la camicia e cercò la superficie irregolare della medaglietta, seguendo i contorni dell’effigie del santo con i polpastrelli. Per ingannare il tempo e quell’ansia inspiegabile, serrata come una tagliola intorno alle viscere, ricontrollò per la quarta volta i documenti. Non era una persona ansiosa normalmente, e trovava odioso, ai limiti dell’umiliazione, che una cosa tanto semplice quanto prendere un aereo la facesse sentire spaurita, i cinque sensi in allarme, come una volpe sul ciglio della tangenziale. Ripeté il rituale che aveva già provato a casa: carta d’identità, carta di credito, contanti, biglietto, passaporto. Non serviva, almeno non per andare in Spagna, ma l’aveva portato comunque. Richiuse il portadocumenti, riponendolo nella tasca anteriore della borsa. Una volta accertatasi che nessun documento si fosse smaterializzato dalla borsa, Bianca passò a vagliare con attenzione i viaggiatori che gravitavano vicino al divanetto dove si era seduta. Era in una posizione ottimale, il trolley incastrato tra le ginocchia e la borsa inanellata nel manico estraibile, a prova di scippo. Nessuno sarebbe passato da lì senza che lei lo avesse visto, ed era concentratissima, la fronte lievemente corrugata, mentre cercava tra i volti quello che aveva visto in foto. Capelli di un biondo scuro, che iniziavano a retrocedere da una fronte alta e distesa; occhi scuri, poco brillanti (ma per quanto ne sapeva lei, potevano anche essere azzurri — la luce nella foto non era delle migliori), naso dritto e proporzionato e labbra sottili, incorniciate da un accenno di barba. Nella foto, sotto quella luce, le era sembrato che il ragazzo avesse un’espressione gentile. Forse poteva perfino essere bello, anche se a lei della bellezza non importava molto. Ora, nella sua memoria, quelle fattezze erano pericolosamente sovrapponibili a quelle di Jeffrey Dahmer, o a quelle di chissà quanti altri serial killer dall’espressione gentile. Nessuno corrispondente a quella descrizione si era ancora palesato al terminal. Un paio di ragazzi che gli somigliavano erano passati lì, e il cuore di Bianca era affondato come una pietra, per poi riaffiorare quando la consapevolezza che non si trattava di lui aveva avuto la meglio sull’ansia. Era inutile continuare a chiedersi perché si sentisse così, non riusciva a darsi una risposta. Insistentemente, quasi a voler grattare un prurito, indugiò su un pensiero: è l’ansia di conoscere una persona nuova. Avete chattato, ma non lo conosci, dovrai passare cinque giorni con lui, chissà se è antipatico, chissà se puzza, chissà
Si mitragliava di risposte, ma non trovava nessuna di esse abbastanza convincente. Espirò, insoddisfatta, e diede una rapida occhiata allo schermo del proprio cellulare. Sorrise alla foto della sua gatta, che aveva cambiato da quando si era lasciata con Giorgio, prima che i suoi occhioni verdi venissero coperti dalla banda orizzontale di Whatsapp. Controllò il mittente, e sussultò quando non riconobbe il nome: un certo Davide. Sbatté nervosamente le palpebre mentre esitava con il pollice intorno alla notifica, incerta se aprirla o meno, quando all’improvviso tutto tornò a sembrarle familiare. Davide, il suo compagno di viaggio. Il famoso Jeffrey Dahmer, rise tra sé e sé, anche se non riuscì davvero a formare un sorriso. Aprì il messaggio. ‘Ciao Bianca,’ diceva, e lì il cavallo impazzito che aveva nel petto rallentò leggermente; ‘ho avuto un problema in famiglia, la situazione è un po’ difficile. Non me la sento di allontanarmi in queste condizioni. Scusa, scusami davvero. Parti pure senza di me, salderò comunque la mia parte per l’albergo. Scusa ancora. Divertiti.’ Divertiti, si ripeté Bianca inebetita. Rilesse tre volte il messaggio, e a ogni rilettura avvertiva distintamente il sollievo che le rilassava i muscoli in tensione, insieme a qualcosa di più profondo, più tagliente dell’ansia. Paura. Era sollevata di non dover condividere lo spazio di quel viaggio con un potenziale serial killer, ma era terrorizzata al pensiero di affrontarlo da sola. Di nuovo, come uno sciocco rito apotropaico, portò due dita alla catenella e tirò la medaglietta di San Cristoforo abbastanza forte da lasciarsi il segno nella tenera pelle della nuca. Con un perverso tempismo, la voce metallizzata di uno speaker annunciò l’apertura del gate per Bilbao. Bianca vide le persone che si mettevano placidamente in fila, aspettando il loro turno con i biglietti ripiegati in mano, ma non trovò la forza di alzarsi dal divanetto. L’unica cosa che le sembrò sensato fare fu chiudere Whatsapp e cercare nella rubrica il numero di sua madre. «Mamma?»
«Bianca? Che c’è, amore?» rispose lei, leggermente stupita.
«Quel ragazzo di cui ti parlavo, Davide. Quello che doveva venire con me. Non viene più». Dall’altro capo, si delinearono i contorni di una lunga pausa. Era chiaro che la donna stava valutando cosa dire, e Bianca si aggrappò a quel silenzio mentre si torturava il collo tirando la medaglietta, il respiro irregolare.
«Vuoi tornare a casa?» chiese semplicemente sua madre. Dritta al punto, parlandole con la voce sottile e morbida, il tono di quando da bambina aveva paura del buio. Bianca esitò.
«Non lo so. Lo sai da quanto voglio fare il cammino di Santiago».
«Sì, lo so. Me l’hai detto tante volte».
«Tu non eri d’accordo. Non volevi che partissi con uno sconosciuto. Non lo so, Ma’. Partire da sola, non è peggio? Però perderei i soldi del volo, tutto quanto, per…»
«Bianca, tu vuoi tornare a casa?» insistette lei.
«No».
«Allora vai. Chiamami quando arrivi. E mandami tante foto». Bianca sentì il sorriso nella voce di sua madre, anche se non poteva vederlo.
«Grazie, mamma».
Sorrise di rimando, mentre si metteva in fila.

***

Il secondo racconto, Da che parte vai?, opera di Roberta Russo Vizzino, dell’Università La Sapienza di Roma, è liberamente ispirato all’incipit di Antonio G. Bortoluzzi e la giuria si è espressa in merito nel modo seguente: «Dopo un inizio un po’ faticoso, in cui sembra che l’autrice non abbia colto la richiesta, il racconto parte in modo convincente, rivelando indubbie doti di originalità sia nel contenuto sia nella forma espressiva, sciolta ed elegante. Piena l’aderenza al tema, ma purtroppo non all’incipit, un elemento del quale viene appena sfiorato».

«Vide quella donna. Era di un altro Paese, aveva suppergiù la sua stessa età, eppure doveva avere il vissuto di sua madre, anzi, di sua nonna. Pensò l’impossibile: sua nonna e quella ragazza, davanti a una chicchera di caffè, avrebbero avuto cose importanti, cose di donne e di viaggio da raccontarsi…»

A mia nonna, Francesca (Franca) Gangemi

«Che bell’inizio!» mi ero detta cercando subito il nome di chi avesse scritto il romanzo. Antonio G. Bortoluzzi… non lo conoscevo! Ero sempre stata incuriosita dagli uomini che decidono di scrivere di donne e per le donne. La letteratura ne è piena. In Una stanza tutta per sé Virginia Woolf diceva: «Era strano pensare che tutte le grandi eroine romanzesche fossero, fino ai tempi di Jane Austen, non solo unicamente viste dall’altro sesso, ma anche viste soltanto in relazione all’altro sesso. E che parte minuscola è questa nella vita di una donna; e perfino di questa, quanto poco può saperne un uomo, quando osserva tutto attraverso gli occhiali scuri o rosati che il sesso gli mette sul naso. […] Ma anche così rimane ovvio, perfino negli scritti di Proust, che un uomo è terribilmente impedito e parziale nella conoscenza delle donne, come una donna lo è nella conoscenza degli uomini». «Ma cosa significa, per un uomo, raccontare le donne? È vero che — attraverso la penna — le plasmano di nuovo secondo la loro fantasia? E — soprattutto — che donne partorisce la mente degli uomini di oggi?» mi chiedevo. Bortoluzzi aveva scritto addirittura un inizio senza maschile. Una donna appena conosciuta e immaginata insieme alla propria nonna. Sedute davanti a un caffè, col bagaglio delle loro esperienze di vita e di viaggio: le “cose di donne”. E lo faceva con parole che avevano fatto iniziare a sognare me, che sono senz’altro una donna. Avevo preso il libro, l’avevo messo nello zaino e mi ero proposta di continuare il viaggio ricomponendo il puzzle. Provando a immaginare come e se le parole-tessere di questo discorso maschile si incastrassero con le eroine della mia realtà. Il collo di mia nonna materna odorava di borotalco. Ogni giorno, dopo il bagno, metteva la polvere sul corpo diafano con un cuscinetto. Era in una scatola circolare di resina color crema. Sopra c’era un decoro di uva argentata. La scatola stava su una mensola del bagno. La finestra — sempre aperta — dava su un cortile interno. Di solito si sentivano silenzio, aria calda, profumo di bucato e fruscio di lenzuola stese ad asciugare nel vento. Il terrazzino era delimitato da vasi di terracotta con piante di gelsomino e basilico. Nell’ultimo periodo, il collo di mia nonna odorava di acqua distillata alle rose. Gliene avevo comprata una boccetta blu. La usavo per tamponarle la pelle con un batuffolo di ovatta dell’ospedale. Speravo di coprire quello del disinfettante. Era il giorno dei suoi settantasette anni. «Hai mangiato?» mi aveva chiesto. Io avevo fatto segno di no con la testa. Lei mi aveva indicato il vassoio del suo pranzo, rimasto intatto sul tavolo grigio. «Solo se mangiamo insieme.» avevo detto. E così aveva trovato la forza per venire a sedere al tavolino con me. Aveva fatto le porzioni per il suo piattino e per il mio come se fossimo a casa. Nella sua cucina. Come se quel purè sciapo fosse un bel pezzettone del suo gateau di patate. Come se i piatti di plastica fossero quelli di ceramica sbeccata che le servivano da cinquantadue anni. Me la ricordo sempre così: trovare una forza sconosciuta per fare forza a me. Quando è morta fra le mie braccia non ho pianto. Sono andata a casa. Ho fatto quello che mi avrebbe raccomandato di fare se a morire non fosse stata lei: mangiare qualcosa. Le uova erano sempre state il mio cibo di conforto. Ne ho fritte un paio alla sua memoria e ho detto: «Ecco nonna, ho mangiato». Se mia nonna fosse stata seduta al tavolo con la ragazza della storia, le avrebbe offerto dei biscotti da inzuppare nel caffè. Perché una donna degli anni trenta del Novecento sapeva che prima di pensare a qualunque cosa, era importante avere da mangiare. Quando ero adolescente stare con lei mi dava sollievo. Stando da sola potevo perdermi per ore nel lusso delle più varie elucubrazioni. Poi arrivava lei ad apparecchiare. A riempirmi il piatto. A insistere per riempirmelo di nuovo. A sparecchiare. A sospirare al soffitto come parlasse a un Dio: «E puru oggi manciammu». Anche oggi abbiamo mangiato. Quanto mi riportava i piedi per terra! Il mio volo era di lì a pochi giorni. Avevo deciso di usare le mie ferie per vivere un viaggio in autostop. Mi chiedevo se avrei fatto in tempo a raggiungere Bergamo così. La Calabria era stata piuttosto facile da attraversare. A chi abitava intorno al mio paese d’origine era sufficiente un rapido scambio di battute per darmi un passaggio.
«A cu apparteni?»
«Non appartengo a nessuno. Sono sola e sono mia» dicevo ridendo.
«Sì, ma chi è tuo padre?»
Una volta rassicurati da questa informazione, erano sempre gentili e disponibili a farmi percorrere anche qualche chilometro più del previsto. Invece, allontanandomi dal paese, dovevo attendere sempre più a lungo che qualcuno si fermasse. Per non parlare di quando ero uscita dai confini regionali. Zaino da trekking. Scarpe da ginnastica consumate. Capelli annodati dal vento. Naso bruciato dal sole. Me ne stavo così, sulla strada, col braccio teso e il pollice all’insù. Le auto mi sfrecciavano a un palmo. Pensavo ancora al volo e a mia nonna. Era stata la prima, fra le donne della nostra famiglia, a prendere un aereo. Era andata a trovare uno dei suoi tredici fratelli che si era trasferito a Milano. Tutti e cinque i suoi figli l’avevano accompagnata in aeroporto: i due del primo marito e i tre del secondo. Ognuno e ognuna con eventuale consorte. Mia madre con pargoli al seguito. Eravamo una piccola tribù incollata al vetro dal quale si vedeva la pista. Volevamo salutarla e farle coraggio. Lei invece ci aveva detto un solo ciao, si era voltata ed era salita sicura sull’aereo col suo bagaglio a mano. Sembrava che lo avesse sempre fatto. Ci eravamo rimasti un po’ male. Eravamo andati a fare un aperitivo con arancini e crespelle alle alici. In Calabria i dispiaceri si curano mangiando. Sorridevo a questo ricordo. Al desiderio che si potessero ancora risolvere i problemi con la semplicità del cibo. Al pensiero di mia nonna che si allontanava sicura. Elegante. Coi capelli lunghissimi — ancora bruni e lucenti — sempre stretti in una crocchia. E con un cappellino rosso mai indossato prima. Le sembrava appropriato per l’immagine che aveva di se stessa a Milano. Avevo aspettato parecchio in un punto rischioso. Stavo accanto a un canneto e sotto un cavalcavia. Si stava facendo buio. La gente che si fermava da Centro Italia in poi si divideva in due grandi categorie. C’erano le persone potresti essere mia figlia, vieni che ti accompagno, non restare qui e le persone ah, però sei bona, sali che vedo se riesco a combinare qualcosa. La prima categoria era certamente preferibile, ma non necessariamente quelli della seconda si dimostravano troppo molesti, quindi salivo comunque in macchina. Avevo la presunzione di capire da un’occhiata e un fulmineo consulto col mio istinto, se una persona mi avrebbe fatto o meno del male. Giocavo a poker con la vita. Un uomo sulla cinquantina si era fermato e mi aveva chiesto: «Da che parte vai?» Avevo risposto che sarei dovuta arrivare a Bergamo prima possibile. Lui poteva portarmi fino a Piacenza. Avevo accettato, pur di togliermi da lì. «Hai mangiato?» mi aveva chiesto. Io avevo sorriso e gli avevo detto di no. Avevamo mangiato insieme in un piccolo locale pieno di fiori. All’improvviso avevo cambiato espressione e lui mi aveva chiesto come mai. Avevo paura di finire a dormire in strada. «Ma no, per strada non ti lascio!» Mi aveva lasciata sul viale delle sex workers di Piacenza alle dieci di sera. Sosteneva che fosse la soluzione migliore perché da lì le macchine in transito avrebbero imboccato l’autostrada e sarei potuta arrivare anche fino a Bologna. Se così non fosse stato, avrei potuto chiedere di dormire alla Croce Bianca, lì sul viale. Dopo infiniti fastidi avevo rimediato un passaggio da un pendolare che rincasava dal lavoro. Mi aveva lasciata in un ostello di Modena. Ero sdraiata sul letto a fissare il soffitto e bearmi di essere sopravvissuta, quando Eva era entrata in camera con una bicicletta incrostata di fango e un cartone di latte sotto braccio. Aveva circa la mia stessa età. Tratti somatici che ci si aspetterebbero da una ragazza svedese. Girava l’Europa in bici da un paio di settimane. Qualche brutto incontro in meno di me. In stanza c’eravamo solo noi. Aveva parcheggiato la bici su un letto e avevamo iniziato a parlare fitto. Aveva bevuto metà del latte dal cartone e lo aveva lasciato sulla finestra. Dalle sue parti le temperature lo consentivano. Avevo pensato alla ragazza di quell’incipit. Poi di nuovo a mia nonna: non aveva avuto un frigorifero per i primi ventisei anni della sua vita. Adesso sì: potevo vederle insieme. Eva e mia nonna. Caffè e latte. Biscotti e gesti. “Cose di donne” che non erano misteri, ma solo i limiti imposti al nostro sesso, che mutavano attraverso il tempo e i Paesi. Eva e mia nonna, così dissimili, sarebbero state due riflessi dello stesso specchio. Al mattino, Eva era andata via. Il latte inacidito era sulla finestra. Il mio volo troppo imminente mi aveva convinta a proseguire in autobus. Poi gli aerei. Bergamo-Rīga. Due scali. Molte turbolenze. Qualche momento di sonno. Non avevo più trovato il libro. Eva e mia nonna si sarebbero incastrate nel resto del racconto? Sul tram verso quella che da due anni chiamavo casa, ero felice dell’avventura appena conclusa. Guardando fuori mi era parso di vederla. A un passo dai binari. Nello spiazzo fantasma del Centrālais Tirgus, una vecchina col basco rosso svoltava sicura al buio di Prāgas iela.


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Articolo di Loretta Junck

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Già docente di lettere nei licei, fa parte del “Comitato dei lettori” del Premio letterario Italo Calvino ed è referente di Toponomastica femminile per il Piemonte. Nel 2014 ha organizzato il III Convegno di Toponomastica femminile, curandone gli atti. Ha collaborato alla stesura di Le Mille. I primati delle donne e scritto per diverse testate (L’Indice dei libri del mese, Noi Donne, Dol’s ecc.).

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