«Gli vogliamo un bene dell’anima». Chiara ora alza gli occhi, che ha abbassato a guardare la testa ricciuta di Francesco, il bimbo che porta nel marsupio, e sorride. Il piccolo volge lento lo sguardo intorno a sé, a cogliere il tessuto di voci che lo circonda. Chiara parla al plurale: accanto a lei altre due donne più anziane (Emanuela e Loretta, conoscerò poi i loro nomi), pure vestite con l’abito di quello che credo il loro ordine, azzurro e blu, che lascia il capo scoperto, e una quarta (Carlotta), in pantaloni e t-shirt. Tutte sorridono, incoraggianti. Le incontro lungo uno dei viottoli pedonali del villaggio La Francesca di Scario, che dal mare porta su, attraverso il bosco. Condividiamo un’antica casa colonica con vista spettacolare sul golfo, all’interno della quale sono ricavate singole stanze per le persone ospiti; ci incontriamo spesso, anche sulla spiaggia, ove Francesco, pesciolino felice, riceve lezioni di acquaticità da un’istruttrice esperta, lei pure, provvidenzialmente, ospite del villaggio, mentre altri bimbi giocano intorno a lui: «Vi è grande affetto da parte dei bambini e delle bambine che lo circondano: i piccoli non percepiscono il ‘diverso’» (ancora Chiara).
Francesco ha due anni e tre mesi: «Per i suoi due anni — così, poi, Emanuela — c’è stata nella nostra casa una grandissima festa, con cinquanta persone»; e, con dolcezza, Loretta ricorda il «ragazzino che gli si è affezionato, gli vuole un bene particolare, non vede l’ora di prenderselo in braccio, vuole stare con lui, lo tiene in collo, e gli basta».
Una casa comune, l’amore per l’altro. Sono Piccole Sorelle, forse? (Non so perché lo penso. Per l’abito, magari…).
No, non lo sono. Non sono ascritte a un ordine, o a una congregazione. «Siamo un’associazione pubblica di fedeli. Dives in Misericordia è il nostro nome», spiega Chiara («È lei la ‘capa’», dirà Carlotta). E così apprendo che le associazioni pubbliche di fedeli, riconosciute dalle diocesi, sono «la forma di vita consacrata dei nostri giorni», con dimensioni molto più piccole rispetto a quelle di un antico ordine. Chiara e le sue consorelle sono sette (soltanto donne, al momento, per quanto l’ingresso agli uomini non sia precluso); a loro, tra qualche tempo, si unirà Carlotta.
E prosegue: «Il nostro nome significa ‘ricco di misericordia’: il soggetto sottinteso è Dio, che è ricco di misericordia, ed è il titolo di un’enciclica di Giovanni Paolo II, che individua nella misericordia non soltanto una caratteristica di Dio, ma la sua essenza, il suo amore, che nasce dalle viscere come quello di una mamma per il suo bambino».
Ecco: è questo maternage collettivo ad avermi colpita, la capacità di provare amore condiviso, non esclusivo, oltre al dono di trasmettere energia e serenità (un singolo atto di amore che si moltiplica); e ce ne siamo accorte tutte, tutti, qui alla Francesca: «L’interesse che suscitiamo intorno a noi è un grande segno, un regalo che il Signore ci fa, perché ci fa vedere che il suo amore che passa attraverso di noi è contagioso, chiama la gente a commuoversi, a partecipare al movimento di amore che diventa visibile in questo bimbo ma permea tutte le relazioni, fra di noi e con tutto il creato. Noi amiamo dire che della nostra famiglia fanno parte tutti gli animali che vivono insieme a noi, perché la creazione è nella sua totalità dono dell’amore di Dio, per cui non si possono amare i fratelli e le sorelle e non amare il resto della creazione tutta».

È una concezione, questa, attualissima, che richiama non soltanto la sfera religiosa (impossibile non pensare all’enciclica Laudato si’ di Francesco), ma anche e soprattutto la cultura ecologista e femminista; e, da appassionata di fantascienza, il movimento solarpunk, che «immagina un futuro migliore e costruisce strategie operative per renderlo possibile», valorizzando lo spirito di comunità (nessuna, nessuno si salva da solo), includendo umani e non umani.
E quella delle Dives in Misericordia è davvero una comunità solarpunk, una casa di pace, la cui storia è resa possibile da una serie di coincidenze improbabili («La c’è la Provvidenza!»), che Chiara ripercorre con passione.
«La nostra diocesi è quella di Forlì: ci siamo capitate si direbbe casualmente, ma questo ci ha aperto a ciò che siamo oggi, una Casa della Carità. Noi siamo nate in diocesi di Ravenna e siamo legate alla diocesi; nel 1997, siccome la casa dove eravamo non rispondeva più alle esigenze della comunità — le sorelle erano una ventina, una in carrozzina con una malattia grave, che per anni abbiamo trasportato per tre piani di scale — e avevamo bisogno di una casa dove esprimerci, quando l’abbiamo trovata, c’è stato un compromesso. La nuova casa era ed è a San Pietro in Trento, comune di Ravenna ma diocesi di Forlì; il vescovo di Ravenna si è messo a cercare nella sua diocesi ma non ha trovato una sede idonea, dunque ha scritto al vescovo di Forlì chiedendogli di accoglierci nella sua diocesi. Il vescovo di Forlì ha accettato, abbiamo iniziato i lavori di ristrutturazione di una casa colonica su un terreno di campagna; ognuna di noi aveva un suo pezzettino, che messo insieme ci ha dato la possibilità di fare una casa.
Il commercialista ha suggerito che sarebbe stato meglio se noi avessimo personalità giuridica: le associazioni pubbliche di fedeli possono averla se sono almeno in due diocesi, e noi lo eravamo! Dopo due mesi, è mancato un sacerdote malato, che abbiamo accudito (era ancora giovane e battagliero, ci ha dato tantissimo) ed è arrivato un suo lascito: un’associazione pubblica può riceverla solo se ha la personalità giuridica. Così si è chiuso il cerchio e noi abbiamo potuto realizzare la Casa della Carità. La Provvidenza ci ha pensato, la Provvidenza pensa a tutto».
Una Casa della Carità… Associo l’immagine di questa casa nella campagna ravennate a quella inserita nel tessuto urbano milanese, a lungo guidata da don Virginio Colmegna (che, guarda caso, conobbi proprio qui, diversi anni or sono): un luogo di accoglienza e condivisione, un impegno di giustizia, che Chiara declina con semplicità e consapevolezza.
«La Casa della Carità ci ha dato la possibilità di accogliere persone in condizione di fragilità, di difficoltà, che bussano alla nostra porta, di ascoltare le persone che ne hanno bisogno. Possiamo accogliere tredici-quattordici persone, un numero piccolo rispetto a quello di coloro che vengono a chiedere. Sono persone di tutti i generi: in prevalenza anziani (prima eravamo Casa-famiglia), giovani in difficoltà, mamme con bambini, nuclei familiari». E il bimbo Francesco, che le sorelle hanno accolto in affido. Prosegue Chiara:
«La Casa della Carità è un miracolo al femminile: l’assessore era una donna, la dirigente dei servizi sociali era una donna, la dirigente dei servizi dell’ASL era una donna; queste tre donne per noi hanno voluto dire tantissimo, sono rimaste colpite dal nostro sogno e l’hanno sostenuto, hanno permesso che si realizzasse; hanno dimostrato capacità di comprendere e riconosciuto la nostra funzione sociale sul territorio. Nell’essere donne ci siamo molto capite, abbiamo camminato insieme».

La Casa delle Dives in Misericordia è dunque un luogo di maternità e sorellanza, non biologica, ma affettiva, che genera figlie e figli dell’anima, come li avrebbe definiti Michela Murgia.
«La maternità nella vita consacrata è un dono che sta all’origine (è scritto nel nostro regolamento ma è così per tutte): noi siamo madri e sorelle le une delle altre. Il dono della maternità sta all’origine della tenerezza con cui ci comportiamo; la maternità è qualcosa che ci è donata insieme all’essere comunità. È l’essere comunità, essere sorelle una dell’altra che ci apre alla possibilità di avere una famiglia che include chiunque si avvicina a noi. Non ci avevo mai pensato, ma mi rendo conto che tutti i bambini che sono passati nella Casa sono ‘miei’, sono ‘nostri’, e lo saranno finché non li incontreremo di là, quando ci verranno incontro, profondamente, tutti».
Dives? Vorrei declinare al plurale Divites (che in latino è sia maschile sia femminile), perché loro stesse traboccano di ‘compassione’ nel senso etimologico del termine, cioè di capacità di ‘soffrire insieme’, di condividere il dolore dell’altro, facendosene carico, alleggerendone il peso altrimenti insopportabile. È ancora Chiara a farsi portavoce delle sorelle.
«Quello che caratterizza l’accoglienza di questo bimbo, Francesco, è la disponibilità a portare il dolore con tutta la sua famiglia (è la prima cosa che abbiamo detto ai suoi genitori). Penso che questo sia un po’ il fondamento dell’accoglienza, aiutare questa mamma e questo papà a portare un dolore così grande. La notte, quando tocca a me vegliarlo (lo vegliamo perché fino a un mese fa aveva il sondino, poteva rigurgitare e soffocare), anche se io ho un sonno di piombo, sono attenta al minimo rumore che lui fa. E la notte, quando si è sole con lui, pensare a questo dolore così grande è difficile. Soltanto l’anno scorso, quando siamo tornate da qui, ha smesso di piangere». («Quanto piangeva…», Loretta scuote la testa e il dolore le offusca lo sguardo).
«Quando l’abbiamo portato nella nostra casa piangeva di un pianto inconsolabile, dal pomeriggio all’una o alle due di notte; quando era sfinito (come noi) smetteva. Abbiamo trovato un medico bravissimo che gli ha cambiato la terapia, da lì ha cominciato a piangere di meno».
Sì, ogni vita è degna di essere vissuta, non esistono vite indegne, in spregio all’orrenda pratica nazista denominata Ausmerzen, la soppressione dei cosiddetti deboli, praticata in Germania (ma non solo) negli anni Trenta e Quaranta del Novecento: «Noi abbiamo questo bimbo e lui c’è, l’amore che tira fuori qualsiasi bambino lui lo tira fuori all’ennesima potenza: ti fa toccare con mano che ogni vita è degna di essere vissuta e non ci sono cose normali e anormali, ogni vita è unica e specialissima e ha la capacità di farci amare».
Parliamo da un’ora, ormai, nel piccolo atrio della casa colonica, detta la Casa Blu, ove si trova una macchina per il caffè a disposizione di chi entra, un piccolo segno tangibile di accoglienza; Francesco è abbandonato fiducioso in grembo a Emanuela, che lo imbocca paziente, rispettosa della sua lentezza. Il telefono cellulare registra e registra.
Ciò che mi ha sempre turbato nella scelta delle donne che abbracciano un ordine religioso, o — come in questo caso — entrano a far parte di un’associazione pubblica di fedeli, è la necessità di lasciare alle proprie spalle la vita vissuta fino ad allora, per intraprenderne un’altra, nuova e differente. Chiara mi smentisce, rispondendo alla domanda (che rivolgo a tutte) su quale sia stata l’occasione-spinta o il processo di maturazione che l’ha portata alla consapevolezza di voler essere Dives in Misericordia (la parola latina indica sia il maschile che il femminile singolare).
«Fare la suora era la cosa più lontana da ogni mia aspettativa. A diciassette anni, facendo servizio con gli scout ho conosciuto loro — (guarda Emanuela e Loretta) — e piano piano mi sono resa conto che non volevo stare da nessun’altra parte che lì; io facevo un sacco di cose, arrampicavo, andavo in grotta, facevo sub, ero impegnata in politica, ma in tutte queste cose io volevo essere lì. E un giorno, in un’immersione bellissima al Giglio, mi è venuto in mente: “Vorrei essere lì”, e a quel punto basta, proviamo, entriamo, vediamo perché voglio essere lì. Dopo sette anni di lotta, cosa faccio, cosa non faccio, sono entrata e sono ancora qui». (E io penso alla donna — lei, Chiara — che ho visto nuotare in mare, con bracciate lunghe e ritmate, e mi dicono che quasi ogni giorno percorra il tratto non breve dalla spiaggia ai piedi del villaggio a quella del Porticeddu).
«E poi non voleva più laurearsi. L’abbiamo dovuta prendere e obbligare…», la rimprovera affettuosamente Loretta. «Sono laureata in scienze ambientali». «E in teologia», aggiunge Emanuela.
«Anche questo ha una sua storia. — prosegue Chiara — Quando sono entrata pensavo che quello che avevo fatto non che l’avrei perso, ma che fosse passato, che avrei dovuto abbandonarlo per fare tutt’altra cosa. In realtà il Signore ha stramoltiplicato… Quando abbiamo fatto la nostra casa, l’abbiamo fatta con criteri ecologici: con il recupero dell’acqua piovana e materiali naturali performanti. Io avevo il sogno di costruire un villaggio ecosostenibile e loro — (le consorelle) — hanno appoggiato questo sogno: che nei water vada l’acqua piovana e non l’acqua potabile è una soddisfazione enorme. Il Signore ha realizzato al di là di quello che io avrei potuta pensare, non ho buttato via niente, lui ha preso tutto quello che io gli ho dato e lo ha fatto diventare ancora più bello.
L’ecologia integrata è qualcosa in cui noi come consorelle abbiamo creduto e crediamo fortemente, perché vuol dire che, nella logica della vita, nell’economia di questo mondo ogni cosa, anche la più piccola, è preziosa e va curata; questa custodia, questa maternità sa custodire, sa diventare un grembo per chiunque, per l’anziano come per il bambino, per la più piccola creatura come per i popoli che sono lontani, che non conosciamo. Non buttiamo l’acqua potabile nel water perché ci sono intere popolazioni, milioni di persone che non hanno l’acqua neppure per bere. L’ecologia integrata diventa la logica che sta alla base, ed è la logica di Dio».

E questo — penso — è molto femminile: Madre Terra si prende cura di noi e noi, per nostra parte, abbiamo il dovere di rispettarla, di prenderci cura di lei e delle sue creature.
Le parole di Chiara ora consuonano con quelle dell’amica filosofa e teologa Isabella Guanzini (intervistata a suo tempo da Vitaminevaganti): «Dio è (anche) donna, madre, nutrice» e il pensiero va al suo libro sulla rivoluzione gentile della Tenerezza, concetto che ricorre nella teologia femminile e che pure ascolto qui: «Quando si dice che la Chiesa deve recuperare l’aspetto femminile è un po’ questo, la capacità di rimettere la tenerezza, la cura e la custodia al posto che meritano, perché alla fine il dono di Dio è un dono di maternità; il senso della paternità l’abbiamo già chiaro, recuperare il senso della maternità ci fa vedere meglio Dio nella sua integrità. Il concetto di maternità di Dio è veterotestamentario: nella misericordia c’è il concetto di amare con l’utero che genera misericordia, e l’utero è femminile. Non è stato valorizzato, ma questo concetto c’è dall’Antico Testamento; è stato oscurato, ma c’è: Dio ha un seno a cui attacca i suoi figli e figlie, ha un utero in cui concepisce».
È poi la volta di Emanuela di declinare il proprio percorso.
«C’è stata la chiamata del Signore, certamente, che mi rendeva inquieta fin da ragazzina. Ne parlai con il parroco della mia parrocchia, che mi disse: “Eh, da qui che sarai cresciuta chissà cos’altro…”. Avevo questa inquietudine, di fare qualcosa e di dare agli altri. Sono stata sospinta da un padre molto rigido, autoritario, impositivo, provavo desiderio di uscire da questa situazione; la mia scelta, però, è stata quasi rocambolesca: avevo la vocazione e la rifiutavo, mi piacevano i ragazzi, se proprio avessi dovuto farmi suora, pensavo, avrei voluto che l’abito non avesse il velo (e poi guarda caso ho trovato una situazione senza velo!).
A volte un male porta a un bene: un babbo così, l’incontro con una persona che aveva capito che ero proiettata in quella direzione, che io ho seguito, al costo di lottare con me stessa, con la scarsa formazione di quell’epoca… Piano piano (il Signore non mi ha mai lasciato) ho incontrato persone che mi hanno accompagnato nelle varie strettoie, fino al punto in cui una sorella che è stata lì mi dice: “Ma tu sei contenta?”. Sì, lo sono, questo è il mio posto. Se c’è stato un tempo in cui ho sofferto tra il continuare, il lasciare, il cercare, adesso tutti i giorni avverto una spinta in avanti nel perseverare in tutto quello che grazie a Dio ho conservato e nel gioire di tutto quello che ho, fino all’ultimo respiro.
Sono infermiera, posso ringraziare Loretta per questo, nel mio percorso di vocazione; anche l’essere infermiera mi aiuta a collocarmi, a gestire le situazioni in un certo modo».
Ed ecco Loretta, con i ricordi, siano belli o dolorosi, che giungono a ondate.
«Ho frequentato questo gruppo che avevo sedici anni e sono entrata in comunità che ne avevo ventiquattro. La vocazione si è manifestata con poca chiarezza dentro di me; i miei ventiquattro anni non erano come quelli di oggi: non mi interessava il vestito nuovo, non mi interessava quasi niente… Sono cresciuta a Pistoia: c’era una chiesina francescana nella quale mi piaceva ascoltare la messa, ma c’è stato un momento che mi dava fastidio che la mia mamma o il mio babbo venissero con me… Alle dieci di sera c’era una messa e io dicevo: “Vado a fare un giretto”, e andavo ad ascoltare quella messa perché mi sembrava che le parole di quel prete fossero calzanti a quello che io provavo.

A volte il Signore si serve anche di banalità: allora succede che a questa comunità era stato chiesto dai vescovi dell’Emilia-Romagna se qualche religiosa volesse andare in Friuli per il terremoto (era il 1975): abbiamo preso una roulotte e siamo andate lì sei mesi, tutti i mesi dell’inverno, c’era un freddo, mamma… Lì ho trovato quello che cercavo, le persone erano ammirevoli, eravamo io e un’altra suora abbastanza giovane (una delle altre due infermiere che è a casa), gestivamo una mensa per dar da mangiare ai soldati che erano lì per ricostruire le baracche, per dare una parvenza di paese…
Ognuna vive la misericordia con il suo stile, noi la esprimiamo con l’accoglienza e con lo spirito di comunità. Abbiamo dieci persone al cimitero, ho sofferto per ognuna come se mi fosse mancata una sorella di carne».
«Sono una persona molto sintetica, quasi ermetica, sono certa che mi capirai. — Carlotta mi guarda negli occhi, e sorride, e nel suo timbro colgo un’eco emiliana — A me ha chiamato nostro Signore, ovvero la bellezza che ferisce».
Essere medica c’entra fino a un certo punto, o forse per nulla, per questa donna che aspira a divenire lei pure Dives in Misericordia: «Un conto è una vocazione, un conto una professione; sicuramente quando si intraprende un cammino così si fa una scelta di vita forte, per di più in età non giovane (ho cinquant’anni) … significa mettersi a disposizione di nostro Signore. Si fa un cammino che va confermato giorno per giorno, c’è un’attrazione per una realtà di amore, si è disposizione per farsi rimodellare».
L’ora più calda, la controra — come dicono nel mio Sud di origine — è passata, il sole viaggia verso ponente, tra non molto sarà l’ora azzurra (e rosa, e arancio) del tramonto e del crepuscolo, in un luogo bellissimo.
«Come siamo capitate alla Francesca? Colpa mia! — Chiara ride — Avendo una vita così quotidianamente condivisa con tutti, arriviamo a punti di stanchezza e necessità di riposo grandi. Allora, a me piace molto il mare, Loretta soffre di emicrania cronica, volevo trovare un posto dove avremmo potuto staccare e stare tranquille. Cerca cerca ho trovato questo, siamo venute il primo anno e ce ne siamo innamorate».
In copertina: Dives in Misericordia, la famiglia del Piccolo Gregge (foto Dives in Misericordia).
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Articolo di Laura Coci

Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.
