Sono figlia di un privilegio, perché nata da una coppia di genitori etero, che hanno avuto la fortuna di potermi avere secondo i mezzi ritenuti legali nel nostro Paese.
Sono figlia di un privilegio, perché ora non c’è chi indaga sulla modalità della mia nascita e mette in discussione la mia legittimità.
Sono figlia di un privilegio, perché nessuna/o mi definisce frutto di un reato universale.
«Reato universale loc. s.le m. Reato punibile ovunque e da chiunque (cittadino italiano o straniero) sia stato commesso» (Treccani).
Agli occhi dello Stato italiano la Gpa (gestazione per altre/i) è paragonabile a un crimine di guerra, a un genocidio, alla tortura. Ma in altri Paesi è perfettamente legale; quindi, il criterio «ovunque» in quale senso verrebbe rispettato? «Chiunque» invece si riferisce a chi commette un reato universale, ovvero un’azione riconosciuta come disumana a livello globale; quindi, mettere al mondo un figlio o una figlia è un crimine contro l’umanità? Dare una nuova vita è diventato moralmente deprecabile?
Una bambina/o nato in questo modo è invece, dal mio punto di vista, frutto di un atto di amore, è il nucleo dell’essenza stessa dell’amore perché non è venuto al mondo per errore o per casualità, ma è stato fortemente voluto. Cosa c’è di più bello di essere figlia/o di una scelta consapevole e ragionata?
Dal momento che la Gpa è largamente utilizzata da coppie eterosessuali sterili o dove la donna per motivi di salute non riesce ad avere una gravidanza, questa criminalizzazione mi sembra l’ennesima presa di potere sul corpo della donna, sulla sua autonomia di pensiero e sulla sua indipendenza decisionale. Sia verso la donna che decide di affidarsi alla Gpa, che impossibilitata ad avere un figlio “naturalmente” rivendica il proprio diritto alla maternità; sia verso la donna che si offre per la procreazione assistita, che volontariamente e consapevolmente decide di usufruire del proprio corpo per portare a termine una gravidanza. Sul corpo della donna c’è sempre questo tipo di controllo; se sei donna, ma non fai figli/e, non sei degna di esserlo, è come se ti mancasse qualcosa agli occhi della società, non sei completa. Quando sei donna e rimani incinta senza volerlo, quando non desideri veramente un bambino o una bambina, quando l’essere dentro di te è frutto di uno stupro, non ti si dà l’opportunità di abortire. Per poterlo fare devi avere la fortuna di non incorrere in un obiettore/obiettrice di coscienza, di non essere intercettata dai gruppi pro-vita, di non incontrare personale sanitario che metta continuamente in dubbio le tue scelte. Quando, invece, sei una donna che desidera fortemente la maternità, ma sei impossibilitata ad averla per motivi di salute o di fertilità, lo Stato te la nega.
L’altro motivo che porta lo Stato a impedire la Gpa è puramente ideologico. Nonostante le coppie omosessuali ricorrano alla gestazione per altre/i in misura minore, agli occhi della società permettere che due papà o due mamme abbiano una famiglia è ritenuto eticamente impraticabile. E questo perché si suppone che un ambiente familiare di questo tipo non sia congruo alla crescita e al benessere del bambino/a. Legare la nascita al solo atto sessuale, a un puro atto biologico e riproduttivo, significa escludere dal diritto di maternità/paternità migliaia di persone. In questo modo la nascita diventa simbolo di privilegio, un privilegio di poche/i individui. Donne single, coppie etero sterili o con problemi di fertilità, coppie lesbiche, coppie omosessuali, ma anche persone transgender, demisessuali, sono escluse dal diritto di creare una famiglia.
In un Paese dove il tasso di natalità rasenta lo zero, dove ci sono più anziani che giovani, ci vorrebbero delle politiche familiari che aiutino e appoggino tutti e tutte coloro che desiderano avere figli/e. Soprattutto perché il nostro mondo sta cambiando, la società evolve, la cultura si trasforma e le nuove generazioni non si sentono più rappresentate da uno Stato che non va incontro alle loro esigenze. E ricercare la soluzione nell’adozione è una risposta troppo semplicistica e superficiale, le pratiche di adozione sono lunghe e complesse, richiedono il rispetto di numerosi criteri che vanno dall’aspetto economico a quello psicologico, con esami quasi impossibili da superare. La Gpa sarebbe un altro modo per raggiungere lo stesso risultato. E no, questa pratica non lede i diritti della donna o del bambino/a, anzi permette alle donne di gestire come vogliono il proprio corpo e la propria sessualità, e garantisce a chi nasce la possibilità di crescere con dei genitori che veramente lo hanno desiderato/a consapevolmente.
Dal momento che il problema è puramente ideologico e che queste sono mere strumentalizzazioni falsamente femministe, mi chiedo, in un ambiente familiare qualsiasi, purché sia sano e ricco di amore e affetto, quale sarebbe la differenza tra una coppia etero e una omosessuale? E soprattutto quale sarebbe la differenza tra avere un figlio/a attraverso l’atto sessuale o tramite la procreazione assistita? L’amore che proviene da ognuno/a di noi per qualcun altro/a prescinde dal nostro sesso o dal nostro genere, ed essere genitori non significa aver attraversato l’esperienza del parto, significa dare amore incondizionatamente e creare un ambiente familiare sano e funzionale alla crescita. Il benessere di un figlio/a dipende dalla qualità dei rapporti familiari e non dalla struttura della famiglia stessa. Per cui trovo folle e abominevole definire un atto di amore consapevole un reato universale, condannando in questo modo migliaia di famiglie che già hanno avviato la pratica di gestazione per altre/i o che l’hanno già conclusa a doversi difendere da eventuali processi, e condannando le coppie che avrebbero voluto affidarsi a tale soluzione a rinunciare a questo diritto.
Io sono figlia di un privilegio e mi vergogno di esserlo in un Paese che non rispetta l’individualità di ciascuno/a di noi, che non ha a cuore i diritti civili, che esclude sempre e mai include.
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Articolo di Giorgia Suem

Laureata in Scienze della comunicazione all’Alma Mater Studiorum di Bologna, attualmente è studente magistrale in Editoria e scrittura presso La Sapienza di Roma. Negli anni universitari ha collaborato con diverse riviste studentesche e si è specializzata in Gender studies con una tesi triennale volta ad analizzare la narrazione giornalistica della violenza di genere.
