Suona male? Il problema non è linguistico

La lingua è da sempre specchio fedele delle strutture e delle dinamiche sociali che la plasmano, incluse le disuguaglianze di genere. L’analisi dei nomi di mestiere in italiano fa emergere la persistenza di dissimmetrie che rafforzano la marginalizzazione delle donne anche all’interno del linguaggio. La mia tesi triennale, intitolata Nomi di mestiere: sessismo linguistico tra diacronia e sincronia, svela, senza pretesa di esaustività, un quadro articolato della formazione dei nomi femminili di mestiere, evidenziando, nello specifico, come tale limite sia collegabile più al parlante che alla lingua stessa.
Una delle tante caratteristiche del linguaggio è la produttività, termine utilizzato dagli studiosi di semiotica per fare riferimento al fatto che questo strumento è in grado di creare sempre nuovi messaggi, di esprimere esperienze inedite, situazioni mai vissute o addirittura realtà inesistenti e fantastiche. La lingua, dunque, permette di dare vita ad un numero infinito di parole. Sebbene, inoltre, risulti apparentemente oggettiva, la lingua porta con sé modi di pensare, ribaditi e confermati attraverso i secoli nella comunità alla quale apparteniamo. Si tratta della cosiddetta «ipotesi Sapir-Whorf»: ogni lingua veicola visioni differenti della realtà, influenzando incoscientemente e inevitabilmente anche la nostra mentalità. Come osserva Lepschy: «siamo noi ad essere parlati dalla nostra lingua, anziché ad essere noi a parlarla».
La distinzione tra uomini e donne è una delle principali differenze che caratterizzano la nostra società. Di riflesso, dunque, la lingua stessa risulta profondamente influenzata dalla discriminazione sessista. A tal proposito, la consapevolezza dell’impostazione androcentrica del linguaggio ci permette di cogliere tutte quelle “pratiche discorsive” continuamente messe in atto consciamente o inconsciamente. L’indagine inerente al rapporto tra le donne e il linguaggio nasce nel contesto statunitense degli anni Settanta: le femministe, durante questi anni, mettono in evidenza come il mezzo linguistico sia fondato su forme sessiste e valori patriarcali e come questa sia la causa della difficoltà nel raccontare sé stesse. Tale riflessione parte proprio dalla pretesa di universalità nell’uso del genere grammaticale maschile. Il maschile onnivalente, difatti, costringe le donne a ribadire costantemente il loro genere, che, pertanto, risulta essere la deviazione dalla norma.

Il testo capostipite del discorso linguistico femminile in Italia è Il Sessismo nella Lingua Italiana di Alma Sabatini, del 1987. La linguista sottolinea come il sessismo linguistico, che provenga da questioni di genere o da scelte lessicali, è insito nella nostra lingua e ribadisce costantemente uno dei principi cardine della nostra società: la superiorità dell’uomo sulla donna. Partendo da tale considerazione, ho ritenuto opportuno fare una breve analisi delle “dissimmetrie semantiche”: queste vengono applicate quotidianamente, quando si parla o si scrive, come se si trattasse di regole grammaticali. Tali dissimmetrie riguardano differenze discorsive e di utilizzo lessicale: ad esempio, uso di diminutivi e vezzeggiativi in riferimento all’ambito femminile o, ancora, verbi, sostantivi e aggettivi associabili ad un genere rispetto che a un altro.
Al fine del tema qui affrontato, ho deciso di riportare un breve elenco di quelle che Sabatini chiama “dissimmetrie grammaticali”, che contribuiscono alla marginalizzazione e spesso persino alla cancellazione delle donne dal discorso: un esempio è la concordanza maschile di aggettivi, partecipi passati e simili con una serie di nomi sia femminili sia maschili. Tra queste vi è proprio la mancanza di una forma femminile diretta di molte parole, in particolare quando si tratta di mestieri, cariche e titoli. Spesso, la forma femminile è del tutto assente o viene creata attraverso suffissi percepiti come riduttivi (e in molti casi non necessari), come –essa. Considerando che le donne esercitano in numero sempre crescente molti mestieri comunemente associati agli uomini, nel contesto sociale attuale spesso i parlanti esprimono un senso di incertezza nell’uso di nomi d’agente declinati al femminile, difficoltà non coincidente con la produttività e la capacità di adattamento del linguaggio stesso. Perché accade? Perché spesso sono le donne stesse a voler essere nominate con titoli declinati al maschile? Il problema va ricercato nelle origini storiche: particolari forme agentive, infatti, erano precedentemente utilizzate in modo ironico o derisorio in correlazione con la mancanza di credibilità di chi svolgeva determinate professioni. Spesso il suffisso –essa era associato anche alle cose inanimate, per dare un valore dispregiativo. Per questo motivo, molte donne, per dare risalto al livello della propria carica, preferiscono essere nominate al maschile, sottintendendo un messaggio ben preciso: sono gli uomini a detenere il prestigio e il potere, la donna deve soltanto adattarsi ad un sistema costruito dall’uomo e per l’uomo. Così facendo gli stereotipi di genere vengono ribaditi costantemente, come notiamo, anche dalla lingua stessa.
Il primo capitolo si conclude con la citazione di alcune Raccomandazioni di Alma Sabatini riguardo un uso non sessista dei nomi femminili di mestiere: come evitare di utilizzare il modificatore donna e, quando il nome d’agente possiede normalmente la sua declinazione femminile, il suffisso –essa.

Il secondo capitolo è dedicato al confronto con la formazione dei nomi femminili di mestiere in latino e in greco antico. Come sappiamo le lingue classiche hanno fortemente influenzato lo sviluppo della lingua italiana e, dunque, risulta interessante uno sguardo anche verso il passato. A tale riflessione, seguono, più nello specifico, le indagini riguardanti le origini di alcuni suffissi femminili italiani.
In questo capitolo, inoltre, ho trattato alcuni casi che, seppur ammessi dal punto di vista diacronico e grammaticale, sono attualmente visti con scetticismo e non sono entrati nell’uso comune. Tra questi vi è medica, derivante dal latino. Da alcune fonti emerge, infatti, che, già dall’età tardo-repubblicana, la professione medica era aperta anche alle donne. Quest’ultime possedevano delle conoscenze molto ampie in ambito della medicina: non si occupavano soltanto dell’assistenza durante il parto, ma erano anche chirurghe, oculiste, dentiste. Mi è parso particolarmente curioso come il termine medica nell’italiano parlato risulti obsoleto e insolito, nonostante sia del tutto legittimo grammaticalmente, e quanto spesso vengano utilizzati degli espedienti quali il medico donna.

Il tema che riguarda il terzo capitolo mi ha condotta nella Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma, dove mi è stato possibile consultare il Dizionario dell’Italiano Treccani del 2022. Era di mio interesse indagare tale testo dal momento che i suoi stessi autori, Della Valle e Patota, vantano un approccio innovativo e rivoluzionario. Una delle novità è proprio la lemmatizzazione sia del genere femminile sia del genere maschile, di aggettivi e nomi, seguita dall’eliminazione degli stereotipi di genere dalle definizioni e dagli esempi e dalla loro presa di posizione contro tutte le espressioni che potrebbero generare offesa. A tal proposito, la mia ricerca ha riguardato i nomi di mestieri e le scelte linguistiche adottate in merito. In primo luogo è emerso che, anche quando si è trattato di nomi lemmatizzati in un’unica forma, sia maschile sia femminile, è stata segnalata l’alternativa con il suffisso –essa. In secondo luogo, molti dei nomi femminili di mestiere riportano tra le pagine la loro definizione preceduta dalla dicitura «in tono ironico». Tuttavia, molte delle voci analizzate nel secondo capitolo, come medica e poeta utilizzate per indicare il femminile, sono ritenute ammissibili.

Per comprendere al meglio l’evoluzione linguistica in merito al tema, ho infine proceduto con una analisi comparativa con il Vocabolario Treccani del 1986. In questa operazione è necessario tenere ben presente il contesto sociale e culturale in cui il testo si colloca: il dibattito sul sessismo linguistico era ancora embrionale in Italia. Affiorano diversi aspetti, tra cui: la definizione dei nomi femminili di ruolo fa riferimento alla relazione con il marito e la professione di quest’ultimo; l’autorità del maschile in ambito professionale.

Oggi, la crescente presenza delle donne nelle istituzioni, nella politica, nella cultura e nella scienza segna un forte cambiamento nella società, che si riflette inevitabilmente anche nel linguaggio. Poiché non nominare qualcosa equivale a negarne l’esistenza, è cruciale riconoscere le donne e il loro ruolo nel mondo lavorativo, anche semplicemente dando loro un nome. Essere consapevoli del vastissimo strumento del linguaggio vuol dire riconoscere che le consuetudini linguistiche adottate inconsciamente nascondono e sottomettono le donne, riproponendo una narrativa di tipo patriarcale.

Qui il link alla tesi integrale: https://toponomasticafemminile.com/sito/images/eventi/tesivaganti/pdf/295_Lippolis.pdf

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Articolo di Alice Lippolis

Sono laureata in Lettere Moderne presso l’Università “La Sapienza” di Roma con una tesi dal titolo Nomi di mestiere: Sessismo Linguistico tra Sincronia e Diacronia. Attualmente sto frequentando il corso di laurea magistrale di Editoria e Scrittura presso la medesima università. Amo viaggiare, tanto quanto amo leggere sotto l’ombrellone in spiaggia (ma anche un po’ dove capita).

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