L’associazione Reti culturali, in collaborazione con Toponomastica femminile, nel corso del 2024 ha realizzato, oltre a webinar mensili per il ciclo Cambiamo discorso (si possono leggere qui) anche incontri con due istituti superiori di Ancona — il liceo artistico Edgardo Mannucci e l’Iis Vanvitelli-Angelini-Stracca di Ancona — e ha in programma gli allestimenti di due mostre tematiche — su Donne e arti minori e Le Nobel per la Scienza — con un incontro pubblico cittadino, che si terrà presso la Sala del Consiglio comunale di Ancona il giorno 14 novembre 2024 prossimo. A conclusione ci sarà anche una pubblicazione, una Antologia che raccoglierà i testi delle relazioni e il report delle azioni svolte, per fissarne la memoria così che i risultati non vadano dispersi.

L’articolato progetto, così ricco di iniziative, ha come titolo La Storia delle Donne, i Nomi delle Donne-Focus sulla Toponomastica femminile, ed è descritto in questo modo: «Lo spazio pubblico restituisce a chi lo attraversa quasi solo nomi di uomini: eroi di guerra, compositori, scienziati e poeti… a costante memoria del loro valore: circa il 90 per cento dei luoghi dedicati a persone. Da qualche anno lo studio dell’urbanistica si è intrecciato con quello della toponomastica di genere per disegnare città più inclusive e contrastare la cancellazione storica subita da artiste, politiche o scienziate. Non basterà a sradicare il retaggio di una cultura patriarcale che spesso dimentica le donne, è tuttavia un modo importante per ricordare negli spazi in cui viviamo il valore e il ruolo che le donne hanno nella società».
Il progetto ha avuto il patrocinio del Comune di Ancona e del Forum Donne Ancona; il sostegno del Centro servizi volontariato Marche e di Coop 3.0; e i partners , oltre a Tf, sono Amad, Freewoman, Deputazioni di Storia Patria, Terzavia e, infine, Associazione di Storia contemporanea.
Sulla fondamentale tematica della prospettiva di genere per una pianificazione inclusiva e sostenibile, e anche per conoscerla meglio, poniamo alcune domande a una delle protagoniste dell’incontro: Chiara Belingardi, docente del master “Città di Genere. Metodi e tecniche di pianificazione e progettazione urbana e territoriale” all’Università di Firenze e attiva in diverse altre università, istituti di ricerca e associazioni.

In quale momento della tua vita e quali esperienze ti hanno portata a occuparti di tematiche ambientali, anche in prospettiva di genere?
La prima parte della mia vita da ricercatrice si è svolta all’università di Firenze, sede della Società dei Territorialisti e delle Territorialiste. Lì ho lavorato con la professoressa Daniela Poli, che mi ha guidato nella tesi sui beni comuni e coordinatrice del Master. Da lì ho sempre ricevuto stimoli a occuparmi del territorio come sostegno alla vita sul pianeta, che quindi deve essere pensato per relazioni, non per ambiti separati. Anche se noi ci situiamo nel mezzo di una città, in un posto che potrebbe essere considerato l’antitesi della natura, non possiamo rescindere quei legami, che invece si fanno sempre più urgenti, si pensi ad esempio alle crisi climatiche, o alla qualità dell’aria.
La prospettiva di genere mette i soggetti nel territorio, serve a fare capire che le questioni ambientali impattano diversamente sui corpi e che hanno degli effetti diversi anche a seconda di chi sei, del tuo genere, della tua provenienza, della tua età ecc. e che le politiche per la prevenzione e l’adattamento, così come per il recupero, hanno effetti diversi a seconda delle persone anche in base alle discriminazioni e ai fenomeni di esclusione che le accompagnano.

Sui temi dell’organizzazione degli spazi urbani, di una città a misura di donne e bambine/i, c’è secondo te sufficiente sinergia fra la ricerca accademica e le istituzioni politiche?
Da una parte direi di sì, perché la ricerca in questo ambito si nutre anche dell’azione delle amministrazioni che si sono fatte carico di creare città più inclusive e democratiche. E ci sono delle esperienze bellissime. Dall’altra parte a volte le amministrazioni pensano di accostarsi a questi temi in maniera un po’ superficiale, mentre, al contrario, quello che si richiede è un cambio di paradigma: quando io parlo di città che si assumono collettivamente la responsabilità della cura, che è una cosa bellissima, significa che anche chi non ha carichi di cura si deve scomodare un po’, per esempio rinunciando al parcheggio sotto l’ufficio per fare posto a un allargamento del marciapiede che permette a una persona in carrozzina di passare o a un gruppo di bambini e bambine di camminare in sicurezza. Si tratta di capire a cosa dare la priorità nelle scelte e mettere al centro della propria organizzazione spaziale le necessità della cura, sia di chi la dà, sia di chi ne ha bisogno.
Si tratta molte volte di misure da esplorare e da adattare al caso per caso, quindi c’è un estremo bisogno di ricerca e di riflessione da una parte e di sperimentazione e di applicazione dall’altra. In questo la sinergia tra le amministrazioni e l’università è vitale, per poter fare dei passi avanti. Per esempio nel Master Città di Genere spesso invitiamo le amministrazioni delle città che si sono più spese in questo senso, per illustrare come si possono applicare alcuni principi nella pratica. D’altra parte abbiamo piacere a mandare le studenti dalle amministrazioni per i tirocini, perché abbiamo visto come ci può essere un mutuo apprendimento e questi tirocini diventano un momento di grosso arricchimento per l’amministrazione e per le studenti.
Che cosa intendi per “affrontare il tema dell’abitare da un punto di vista femminista e intersezionale”?
Applicare una lente femminista e intersezionale significa guardare all’abitare in maniera complessa, partendo a osservare i soggetti dell’abitare.
Significa affrontare la questione della casa da un punto di vista più ampio che la “semplice” questione numerica di quante case a disposizione per quante famiglie ne hanno bisogno, ma domandarsi: chi sono queste famiglie? Chi ha bisogno di una casa? E perché? In che condizioni abita? Quali sono gli ostacoli che trova nella ricerca di un abitare stabile e sicuro? Sono solo di natura economica? Cosa succede oltre la porta di casa? Com’è il quartiere con i suoi servizi e spazi pubblici? Com’è dal punto di vista della salute e dell’inquinamento ambientale? Che posto hanno le attività di riproduzione? Qual è lo spazio della vita quotidiana?
Ancora molta strada c’è da percorrere perché lo sguardo delle donne (che sono cittadine votanti e votate da neanche ottant’anni in Italia, su duemilacinquecento anni di storia “scritta”) possa farsi spazio a pieno titolo nella governance sociale rispetto alla realtà e alle decisioni politiche che le riguardano, ma progetti come questo sono la via maestra da seguire, esempi da riprodurre e guida per le azioni future.
***
Articolo di Danila Baldo

Laureata in filosofia teoretica e perfezionata in epistemologia, già docente di filosofia/scienze umane e consigliera di parità provinciale, tiene corsi di formazione, in particolare sui temi delle politiche di genere. Giornalista pubblicista, è vicepresidente dell’associazione Toponomastica femminile e caporedattrice della rivista online Vitamine vaganti.
