Il secondo incontro di La violenza di genere: teorie e pratiche fra passato e presente, il nuovo corso della Società Italiana delle Storiche, si intitola Riconoscimento e relazione: il linguaggio come dispositivo per contrastare la violenza di genere ed è presentato da Lea Durante. Il corso, gratuito, è collocato all’interno del progetto La storia (di genere) al servizio del tempo presente, finanziato dai fondi Otto per mille 2023 della Chiesa Valdese.
Parlare di linguaggio ci mette nella condizione di parlare del silenzio come di un dispositivo storicamente utilizzato per favorire tutte le condizioni e circostanze alla base della violenza, tutti quegli atteggiamenti aggressivi nei confronti dei gruppi che Gramsci chiama «socialmente subalterni», ovvero coloro che non hanno mai potuto raccontarsi: sempre ridotti a oggetto delle storie altrui, essi non possono soggettivarsi politicamente almeno fino a quando non avranno modo di autorappresentarsi.
La storia del silenzio è una storia di scelta e di obbligo: fin dal Medioevo piccoli gruppi di donne inventavano microlingue e codici di comunicazione segreti utili alla comunicazione e all’autorappresentazione della propria condizione lavorativa e subalternità, senza avere la pretesa che questi diventassero dei codici comunicativi ufficiali. Michela Murgia in Stai zitta! spiega in modo molto semplice il tema dello stereotipo di genere attraverso il linguaggio, come l’uso di frasi che hanno avuto l’effetto di subalternizzare le donne, come: «Stai zitta!», una frase usata generalmente contro le donne perché solo con loro ci si può sentire così superiori. Ogni volta che ci troviamo di fronte a diritti negati siamo faccia a faccia anche con un apparato linguistico ed espressivo storicamente utilizzato per negare questi diritti in nome di valori considerati consolidati e universali. Tutto ciò che riguarda la formazione delle lingue e il modo in cui esse si sono consolidate fa parte di un processo di costruzione del maschile universale, che ha ideato valori ideologici tesi alla costruzione di un rapporto stretto tra nazionale e universale, alla cui base viene posto il soggetto maschile come ideal-tipo. La letteratura ha in questo caso una responsabilità particolare che va messa in evidenza: ogni anno viene richiesto alle case editrici di introdurre nei testi (scolastici e non) poete e autrici, di farle entrare nel canone letterario; un canone che, tra l’altro, è pieno di espressioni escludenti il femminile ma che, allo stesso tempo, è stato incaricato di fornire il vocabolario della nascente nazione. Così facendo, le donne non solo sono state escluse dalla rappresentazione del mondo, ma anche dalla tradizione, fatta di parole incapaci di misurarsi con la visione femminile del mondo.
Questa lettura univoca della letteratura ha ceduto il passo a domande più profonde sulla presenza delle donne e sul modo in cui essa diventa canone scolastico, in concomitanza con l’aumento delle insegnanti nel campo delle materie umanistiche. La pubblicazione e il successo del romanzo L’amica geniale di Elena Ferrante ha portato a una vera e propria deflagrazione, rendendo impossibile ignorare la presenza femminile nella letteratura e ridurla a un mero paragrafo di un sotto capitolo. I social, che hanno permesso alle studiose di organizzarsi, sono stati in questo caso fondamentali, portando avanti una costruzione del profilo della letteratura che includesse anche i contributi delle scrittrici, fornendo nuovi punti di vista sul mondo e sulla condizione delle donne.
Il linguaggio dà la possibilità di raccontare quello che succede: senza le parole non si può fare storia. Il dibattito su questo tema è oggi molto acceso: rispetto a ogni forma di violenza è necessario, prima di tutto, pensare a un linguaggio non violento che riesca a trovare parole e nomi giusti per provare a contrastare un modello comportamentale tossico che riguarda tutte le forme di oppressione. Questa idea di “linguaggio ampio” agisce nel dibattito pubblico anche in forme estreme, rendendo difficile prendere una posizione. L’occultamento femminile è stato prima di tutto verbale e le tante scrittrici che oggi vengono pubblicate e riscoperte possono dare un grande aiuto per contrastare questo fenomeno. Il ruolo delle istituzioni, soprattutto a livello europeo, spinge verso un rinnovamento del linguaggio che tenga presente la rappresentazione dei diversi generi per ricostruire una forma di rispetto per tutte le individualità a ogni livello. Tuttavia, ci sono controspinte molto forti specie a livello locale che fanno riferimento a sistemi valoriali che vanno in altra direzione: si veda la proposta di legge di Manfredi Potenti della Lega Nord, presentata nell’estate del 2024, per la «conservazione della lingua italiana», a seguito della decisione dell’Università di Trento di utilizzare il femminile sovraesteso nel proprio regolamento accademico, un provvedimento assunto nel rispetto della normativa che regola l’autonomia delle università ma che è risultato agli occhi più conservatori — gli stessi che sono nell’area politica della, o meglio del nostro presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che ci tiene si usi il maschile per riferirsi a lei finché è in carica — un attacco alla “sacra” lingua italica. La richiesta del rispetto della grammatica è, del resto, la principale giustificazione delle azioni contro il linguaggio inclusivo: come nella Bibbia la donna viene formata a partire dall’uomo, è “naturale” che la forma femminile delle parole si formi a partire dal maschile. Oggi queste formulazioni, un tempo così diffuse, stanno venendo mano a mano abbandonate.
L’uso del linguaggio come strumento di riconoscimento delle individualità personali è un movimento complesso perché frammentato e frammentario, e quindi impossibile da codificare in modo collettivo. Dall’altro lato, ci sono spinte di carattere istituzionale che vanno nella direzione contraria e che sono, di fatto, forme di violenza. Si tratta di estremizzazioni di soggetti che rifiutano di prendere atto della necessità di nominare al femminile i nomi delle professioni quando ricoperte da donne, perpetuando inaccettabili forme di occultamento. Non va taciuto che, per esempio, quando Laura Boldrini era Presidente della Camera e propose di usare i nomi femminili di ruoli istituzionali, furono le donne stesse a ribellarsi. Oppure si pensi alle parole offensive che Papa Francesco ha scelto di usare quando ha parlato di omosessualità – la famosa gaffe sulla “frociaggine” imperante tra i prelati del Vaticano — e di aborto — da lui definito un omicidio, sostenendo che i medici e le mediche che lo praticano siano dei sicari. Il tentativo di depurare il linguaggio dalle forme di violenza e la possibilità di esprimere la propria soggettività e la propria condizione attraverso le scritture femminili, un tramite preziosissimo, può quindi davvero cambiare le cose ed essere la chiave per la rappresentazione delle donne.
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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.
